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2. La fabbrica delle idee Olivetti e la sociologia del lavoro

3.1 Luciano Gallino

Sempre all’interno della Olivetti di Ivrea, prende forma l’apprendistato e la maturazione sociologica di un altro pioniere della disciplina, Luciano Gallino : anche lui piemontese, di Torino, e sostanzialmente coetaneo di Ferrarotti essendo nato appena un anno dopo. Entra in Olivetti nel 1956, assunto per volere dello stesso ingegnere Adriano Olivetti, per collaborare con l’Ufficio Studi Relazioni Sociali, e poi come direttore del Servizio di Ricerche Sociologiche e di Studi sull’Organizzazione. Una posizione particolarmente interessante, trattandosi di uffici la cui funzione di ricerca e d’intervento nella realtà di fabbrica, rappresentava una novità eccezionale per il contesto industriale italiano.

Parlando della sua esperienza in azienda, Olivetti sottolineerà il vantaggio di essere, in quegli anni, i first comer: “il fatto cioè di essere fra i primissimi ad utilizzare determinati modelli e tecniche, di riferirsi a determinati oggetti di ricerca, faceva sì che il rapporto con i collaboratori, a diverso livello, fosse in effetti molto più facile di quanto non lo sia stato in seguito299”. L’innovazione che poteva permettersi l’azienda era legata sia a ragioni prettamente economiche, l’essere appunto all’avanguardia nell’applicazione di determinate strategie innovatrici, sia a causa del tentativo di creare un ambiente comunitario che fosse recettivo all’innovazione. In questo senso, le parole di Gallino confermano almeno in parte la lungimiranza e bontà dell’approccio olivettiano, quando afferma che “non ho mai lavorato, successivamente, con tanti ingegneri, tanti tecnici, in modo altrettanto facile, cordiale e diretto di quanto mi capitò allora, perché, essendo nuovo il modello che si utilizzava, essendo nuovo il linguaggio, l’importante era apprenderlo e su quella base cominciare immediatamente a comunicare. Quindi non c’era il

298 M. La Rosa, “La sociologia del lavoro in Italia e in Francia”, Franco Angeli, Milano 1979, p. 69. 299

Intervista a Luciano Gallino in F. Butera (a cura di), “Le ricerche per la trasformazione del lavoro in

tipico conflitto tra indigeni e barbari, tra tecniche differenti, tra culture diverse, che ha complicato in seguito moltissimo la vita a tutti.”300

L’entusiasmo lampante di queste parole, non deve far pensare però a Gallino come ad un agiografo di Olivetti e dei suoi metodi. Ma in ogni caso le resistenze esistevano, si palesassero spinte dalla diffidenza o dall’ignoranza nei confronti della materia. Il sociologo, figura assolutamente inedita nella realtà di fabbrica italiana, si aggirava intervistando, misurando e facendo domande tra gli uffici e le officine, e ovviamente doveva scontrarsi con le gerarchie e i gruppi sedimentatesi in quei luoghi prima del suo arrivo. “Ogni azienda è insomma un sistema politico, dove c’è un governo, un’opposizione, conflitti, classi, anche a livello di alta direzione. Quindi, quello che poi all’esterno compare come volontà aziendale è, quando tutto va bene, la volontà di un gruppo che temporaneamente predomina sull’altro. Per fare ricerca questo è assolutamente essenziale: la ricerca in azienda è sempre fatta o per un gruppo o per l’altro”301.

Nonostante la sua lunghissima permanenza alla Olivetti (il suo rapporto di lavoro si interromperà nel 1971, ma almeno fino al 1979 fungerà da consulente esterno), le posizioni di Gallino non erano così coincidenti, a differenza di quelle di Ferrarotti, con le posizioni e le ambizioni politiche e sociali del Movimento Comunità.

Per quanto i suoi studi si concentrino prevalentemente sulla sociologia economica, con un interesse spiccato anche verso le questioni epistemologiche della materia, le sue analisi sulle aziende processive (teorizzate in un primo momento, ma verificate sul corpo vivo dell’Olivetti) e la sua attenzione agli effetti dei mutamenti tecnologici e organizzativi su operai e sindacato, considerati in un continuum temporale e non fissati nella singola azienda, sono utili per fare da controcanto alla più smaccata adesione al modello Olivetti di Ferrarotti.

300

Ivi.

301

Al centro della sua sociologia industriale sta pertanto il meccanismo e l’azione propulsiva di alcune aziende, dette processive, capaci cioè “di accrescere con continuità, per un periodo abbastanza lungo da elidere gli eventuali effetti di successive congiunture favorevoli e sfavorevoli, sia la produttività – intesa come produzione in unità fisiche per ora/uomo – che il numero dei lavoratori”302. Questo tipo di azienda, che riesce ad adattarsi meglio di altre in uno specifico ambiente socio-economico, “senza incontrare resistenze”, ha però concentrato la maggioranza delle sue risorse ed energie “nella soluzione dei problemi di adattabilità, sia dell’organizzazione come sistema globale che agisce entro, e deve quindi adattarsi a un determinato ambiente economico, sia dei diversi sottosistemi che la compongono”303.

Questo tipo di azienda si afferma in Italia grazie alle eccezionali contingenze del dopoguerra, sfruttando al contempo una condizione di “concorrenza imperfetta”, oscillante tra il monopolio e l’oligopolio, e il vertiginoso sviluppo che ha caratterizzato l’economia italiana in quel periodo. Al suo interno cerca di adattare il personale alle sue rinnovate esigenze304 produttive, ed è incline a favorire la scoperta di nuovi brevetti tecnologici e forme di pubblicità nelle sue forme più moderne.

Lo sviluppo dell’azienda processiva è per Gallino la tappa attuale (e parziale) di una serie di cambiamenti, organizzativi e tecnologici, di cui il mondo

302

L. Gallino, “Indagini di sociologia economica e industriale”, Edizioni di Comunità, Milano 1972, pp. 62-63.

303

Ibid., p. 66.

304

I membri di un’azienda processava vengono chiamati da Gallino “agenti che decidono”, categoria della quale fanno parte, a diverso titolo, sia i dirigenti, così come gli impiegati e gli operai. La differenza tra le qualifiche degli agenti è che i primi, i dirigenti, “elaborano, in prevalenza, informazioni di controllo, laddove i secondi elaborano prevalentemente informazioni operative”. Non va accostato perciò ad un modello per cui qualcuno, il dirigente, in maniera univoca ed incontestabile, prende le decisioni, e gli operai sono costretti a subire. Si tratta di una divisione delle mansioni, una razionalizzazione si sarebbe tentati di dire, in cui “le informazioni del primo tipo sono essenziali per stabilire le condizioni generali dell’attività produttiva, ma non decidono quasi nulla sul suo contenuto; le informazioni del secondo tipo sono essenziali per definire il contenuto di quella, ma non offrono alcun elemento atto a fissare le sue condizioni”. Cfr. L. Gallino, “Indagini di sociologia

industriale era stato protagonista fin dall’inizio della sua storia, e che avevano conosciuto una discreta accelerazione tra fine ottocento e inizio novecento.

“L’evoluzione del lavoro provoca infatti un aumento obiettivo dell’importanza delle relazioni sociali spontanee come fattore di comportamento dell’uomo al lavoro; dall’altro essa induce, a partire da un certo momento tra le due guerre mondiali, dirigenti e studiosi d’un determinato orientamento a prestare sempre maggiore attenzione alle relazioni sociali come fattore di comportamento in una azienda, ignorando le sue variazioni di importanza in rapporto all’evoluzione storica della produzione”305.

Gallino si rende in pratica conto della necessità di storicizzare il percorso compiuto in parallelo dalla sua disciplina e dal mondo del lavoro. La trasformazione graduale della figura dell’artigiano in quella dell’operaio, e che porta dal capitalismo mercantile a quello industriale, è la linea che Gallino segue a ritroso per verificare le sue ipotesi riguardo lo stato delle relazioni uomo-azienda nel presente.

Il passaggio più significativo, quello che tratteneva in sé l’energia delle trasformazioni che avrebbero portato i sociologi e gli operai fianco a fianco, era però quello intuito da Taylor, ma soprattutto da Friedmann, riguardo all’automazione imposta dalla macchina all’uomo. Ponendosi sulla stessa linea interpretativa del sociologo francese, Gallino attribuisce ancora al lavoro dell’operaio nell’epoca precedente la produzione di massa, la libertà di esperire i due bisogni essenziali del lavoratore. “Primo, quello di stabilire con i compagni rapporti di comunicazione concreti, fattuali, inerenti e interni alla realtà di lavoro comune e capaci di influenzarla; secondo, quello di agire sulla materia del proprio lavoro e operarne la trasformazione”306.

Questa finestra di libera determinazione sociale e autonomia individuale, viene spazzata via dall’ “avvento della produzione di massa e dal parallelo sviluppo dell’organizzazione formale della fabbrica”.

305

Ibid., p.197.

306

Questa trasformazione incideva in modi differenti sulla realtà di fabbrica, e sulla percezione che gli studiosi ne avranno. Da un lato ci sarà l’esplosione della sociologia non-formale, con gli studi di Mayo e la scoperta del sistema di relazioni spontanee al di là dell’organigramma e delle gerarchie aziendali307; contemporaneamente, e con un impatto la cui propagazione sarà ben più decisiva, “il dissolvimento quasi radicali delle basi funzionali della sua posizione (del lavoratore, N.d.R.), quindi della sua obiettiva qualifica professionale, e in ultimo del suo status sociale”308.

Le condizioni materiali di questa alterazione sono la ragione per cui gli studiosi del lavoro sposteranno la loro attenzione al di là dell’ormai svuotato rapporto tra uomo e macchina. “E’ dunque la virtuale soppressione, operata dall’organizzazione formale a carico del lavoratore, della possibilità di estrinsecare il suo bisogno di contatto sociale fondato su rapporti oggettivi, *…+ che contribuirà grandemente a rafforzare, e a proporre come oggetto di studio, la cosiddetta organizzazione non formale dei lavoratori di uno stabilimento”309.

Al lavoro di questi sociologi non spetta però, dirà altrove, la primogenitura degli studi scientifici sul lavoro. Lo sviluppo delle nuove tecniche di produzione aveva sicuramente indicato la strada che usciva fuori dall’officina, dai rapporti di alienazione conchiusi al micro sociale, portando ad intuire che l’oggetto della sociologia del lavoro era non solo l’impresa e il suo funzionamento, ma l’intera società industriale. “L’aggettivo scientifico- però afferma Gallino – non spetta alla ricerche di Hawthorne più di quanto spetti a molti lavori di sociologia dell’industria ad esse precedenti. *…+ Un esame anche sommario dell’abbondante materiale disponibile, permette di stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio alcuni punti che

307

Non ci si vorrà dilungare sul punto di vista di Gallino in proposito, in quanto abbastanza

corrispondente alla ricostruzione già operata da Friedmann, compresi limiti e virtù, e per la quale si rimanda la secondo capitolo.

308

Ibid., p.213.

309

convergono tutti nel suggerire che le origini della sociologia dell’industria possono essere utilmente anticipate di almeno sette od otto decenni”310.

Il passaggio del dopoguerra italiano, quello che ancora sociologi e studiosi a vario titolo erano ancora impegnati a decifrare nella sua interezza, portava a maturazione, seppure soltanto in isolate oasi d’avanguardia, i processi attivati qualche decennio prima negli Stati Uniti. Nelle aziende processive, rispetto al resto dell’industria italiana, si potevano garantire alti livelli di salari, di tempo libero e servizi offerti al lavoratore. L’offerta che la maggiore capacità di manovra delle processive, dovuta in primo luogo alla disponibilità economica differente, creava un gap tra i suoi dipendenti e quello delle rimanenti aziende normali. L’operaio accedeva a nuovi livelli di vita, gradatamente e senza imposizioni, “cioè alla possibilità di fruizione dei valori riconosciuti nel sistema sociale proprio del capitalismo organizzato”, o come lo chiamavano gli autori comunisti, del neocapitalismo. Questo co-interessamento, nel gergo di Gallino, degli operai al sistema “non è frutto di calcolo, ma deriva dal consumo ed assimilazione di beni materiali e culturali del sistema sociale considerato, ovvero da un processo di socializzazione anticipata” 311.

In un certo senso afferma un nuovo senso di elitismo operaio, distinguendo l’operaio dell’azienda processiva da quello della maggior parte dell’industria, intaccando “il senso di appartenenza a una classe ben definita (la si chiami ‘coscienza di classe’).

A differenza di Ferrarotti, Gallino non intravede nella scomparsa del sentimento di coscienza di classe ragioni per cui gioire. La creazione di questo nuovo strato di operai, non più integrati con la classe di appartenenza e consci di occupare una posizione di maggior prestigio all’interno del capitalismo organizzato, andrebbe in ogni caso accompagnata dalla ripresa di un’azione sindacale cosciente e informata. “I sindacati non possono prescindere, nell’impostare la loro azione, dai

310

L. Gallino (a cura di), “L’industria e i sociologi”, Edizioni di Comunità, Milano 1962, p.15.

311

L. Gallino, “Indagini di sociologia economica e industriale”, Edizioni di Comunità, Milano 1972, p. 227.

reali atteggiamenti della classe che rappresentano, e in particolare di quella parte che avendo superato il confine del minimo vitale dispone d’una certa maturità ed elasticità contrattuale”312.

Il sindacalismo, se voleva avere ancora un peso nei cambiamenti del mondo del lavoro, doveva forzare i suoi uomini e il suo corpo dottrinario ad un deciso cambiamento. D’altro canto, in linea con alcune delle aspirazioni olivettiane, Gallino riconosce come auspicabile il “passaggio da un’economia tendenzialmente sezionale a un’economia di espansione dinamica dei redditi industriali e dell’occupazione nelle zone depresse”313. Ma nello sperare ciò, cerca di tenere per buona la valenza scientifica delle valutazioni sulla coscienza di classe operaia di marxiana memoria314, e come si è avuto modo di appurare, stigmatizzando l’utilizzo di scorciatoie come le Relazioni Umane come “un falso scopo”.