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4. Una feconda frattura: la sinistra e la rinascita sociologica

4.1 Giuseppe Bonazzi

Una figura che rappresenta in maniera esemplare questo disagio costruttivo e propositivo verso l’atteggiamento prevalente a sinistra sul lavoro, è quella di Giuseppe Bonazzi. Nel suo percorso di studi, allo stesso modo che per la maggior parte dei suoi colleghi di quel tempo, trovava le occasioni per affinare la vocazione sociologica più in esperienze esterne, in ambiente privato che nel mondo universitario. Pur avendo conseguito una laurea in filosofia.

Piuttosto sfuggente a collocazioni schematiche risulta essere anche la sua posizione politica, che rifletteva il suo interesse per i cambiamenti cominciati anni prima e ancora in azione nel mondo di fabbrica statunitense. Riferendosi al periodo della sua formazione ricorda come: “a quel tempo non ero ancora di sinistra, mi sentivo liberale e soprattutto laico, naturaliter di area atlantica sebbene con tutto il fastidio per la cappa cattolica calata sull’Italia con la vittoria democristiana del 18 Aprile ‘48”315.

Lavorò però anche all’interno dell’Ufficio studi della Cgil, entrando in contatto con Bruno Trentin e con le formulazione teoriche sul neocapitalismo. Il sindacato che si rinnovava per fronteggiare il cambiamento e le grandi offensive padronali, ebbero non poca influenza sul pensiero e sulla collocazione del Bonazzi sociologo.

Parteciperà anche al celebre convegno della Cgil su “I lavoratori e il progresso tecnico”, punto di svolta del mutamento di orientamento del sindacato sui temi del lavoro. Il suo intervento s’interessava ad un caso specifico, quello dei lavoratori torinesi della fabbrica di pneumatici della Michelin, con un focus sulla tematica del licenziamento dovuta all’introduzione di nuovi macchinari. L’intervento proponeva una serie di rivendicazioni possibili e di schemi di lotta applicabili a quella situazione, risultando peraltro abbastanza aderenti alle strategie classiche del sindacato, a differenza del più innovativo intervento di Leonardi che aveva

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G. Bonazzi, “Lampadine socialiste e trappole del capitale. Come diventai sociologo”, Il Mulino, Bologna 2006, p. 15.

introdotto i lavori, già proiettato alla ricezione delle tematiche aperte nel dibattito francese da Touraine316.

Il giovane sociologo a ogni buon conto avvertiva la necessità di un aggiornamento degli strumenti analitici della cultura marxista, e dei possibili vantaggi che essa poteva trarre, in campo sociologico, da un incontro aperto con la cultura anglosassone. L’empirismo di questa, per comprendere fenomeni come la vita di fabbrica o la percezione operaia dei cambiamenti organizzativi, offriva dei mezzi che l’attesa rivoluzionaria, teoricamente fondata sull’idealismo filosofico, non poteva che ignorare: per la cultura di ricerca americana e inglese, “nulla è accettabile se non controllato dalla ricerca, nulla è definibile se non in termini di ricerca”317.

In questo senso occorreva che gli studiosi ancorassero la loro riflessione al presente, non per slegarla dalle connessioni materiali e ideali con il passato, ma per coglierlo nella sua mobilità, perché “solo una visione dinamica, e quindi storicistica, della cultura offre all’uomo la possibilità di essere continuamente a contatto con il nuovo storico”318. Al punto in cui era arrivato il marxismo negli anni cinquanta, se non per alcune lodevoli e minoritarie eccezioni, non riusciva che a produrre indagini astratte e insufficienti, condotte in modo goffo e senza gli strumenti adeguati. “In questo senso gli stessi sforzi dei più intelligenti studiosi marxisti di dimostrare la spregiudicata apertura del loro pensiero a strumenti di indagine provenienti da altre culture, somigliano stranamente agli sforzi di chi, indossata una camicia stretta, si agiti per dimostrare che egli è ancora in grado di compiere tutti o quasi i movimenti”319. Il titolo dell’articolo, “La battaglia per un nuovo illuminismo di massa”, chiariva in modo sintetico l’obiettivo di trasformazione della società a cui mirava Bonazzi: costruire una nuova cultura da fornire alle masse, i cui mezzi e i cui sforzi fossero in linea con i cambiamenti tecnologici in corso, per garantire a strati

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Cfr. G. Bonazzi, “Alcune esperienze alla Michelin di Torino”, in PCI - Sezione Lavoro di Massa (a cura di), “Atti del convegno tenuto all’Istituto “Antonio Gramsci” in Roma, nei giorni 29-30 giugno e 1

luglio 1956, I lavoratori e il progresso tecnico”, Editori Riuniti, Roma 1956, p.223 e sgg.

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G. Bonazzi, “La battaglia per un nuovo illuminismo di massa”, Opinione, 4, 1957.

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più vasti della popolazione l’accesso ai nuovi consumi e al maggiore grado di benessere raggiunto da alcuni, in modo che “ogni lavoratore (potesse) possedere non soltanto l’automobile ed il cottage, ma anche quel grado di cultura così elevato da costituire per lui un impegno ulteriore di ricerca, ed un definitivo costume di vita democratica”320.

Anche Bonazzi ebbe occasione, come Ferrarotti, di trascorrere un periodo di studi negli Stati Uniti, dove poté venire in contatto diretto con la fiorente cultura sociologica americana. La fascinazione marxista che caratterizzava il suo pensiero, e che lo rendeva sensibile alla sorte della classe operaia, adesso si poteva fondere con lo studio della metodologia di ricerca sociologica e della statistica.

Una volta negli Usa, Bonazzi racconta come finalmente la sua formazione trovava un occasione di verifica sul campo: “Il direttore di un centro di sociologia applicata si offerse di distribuire un mio questionario a una cinquantina di operai in fabbrica, che lui intervistava per altri motivi. *…+ Constatai che quegli operai a me sconosciuti rispondevano volentieri – presumibilmente erano stati intervistati altre volte – ma quel che è più interessante è che quando tornai in Italia e potei confrontare le loro risposte con quelle ottenute alla mia ricerca alla Fiat, vidi che gli americani erano molto meno ‘alienati’ dei loro colleghi italiani. Non scrissi mai quel risultato perché il campione era troppo esiguo, ma mi portò a pensare che gli operai americani, nonostante il bombardamento mediatico a cui erano sottoposti, avessero una coscienza di classe superiore a quella degli operai Fiat degli anni della repressione vallettiana”321.

Bonazzi metteva a frutto l’esperienza raccolta in questo periodo americano in una ricerca, basata sul metodo delle interviste operaie, all’interno della Fiat. I risultati confluirono nella pubblicazione del libro “Alienazione e anomia nella grande industria”, che aveva l’ambizione di portare un approccio personale allo studio di fabbrica, che fosse il risultato della rielaborazione personale delle due influenze

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G. Bonazzi, “Lampadine socialiste e trappole del capitale. Come diventai sociologo”, Il Mulino, Bologna 2006, p. 79.

principali della sua formazione, senza concedere nulla ai limiti delle relative scuole. La ricerca era condotta all’interno della fabbrica più avanzata, modello di punta di quel neocapitalismo di cui si cercava di cogliere l’andamento322, proponendo la tensione costante del ricercatore come atteggiamento fondamentale: “l’alienazione operaia, come mancanza di coscienza di classe in alternativa globale al sistema capitalista, non può essere definita una volta per tutte, ma è storicamente condizionata; per cui, di volta in volta, deve essere verificato il suo esatto contenuto”.323

Bonazzi riconosceva, in ultima analisi, come la sua riflessione non si arrestasse alle soglie della vita politica, ma che, forte della sua alterità, ne contribuisse a fissare le problematiche attraverso uno sguardo finora, colpevolmente, escluso. I risultati raggiunti, per l’autore, “giustifica(va)no una serie di giudizi di ordine generale sulla condizione operaia in una società capitalistica, *…+ che si pongono chiaramente su un piano politico, e non solo strettamente sociologico”324.