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Negli anni in cui Taylor viaggiava come conferenziere dando visibilità al suo metodo, Ford che come ricordato era solo di poco più giovane, creava la Società delle Automobili Ford, e a partire dal 1906, ormai padrone della maggioranza delle azioni, iniziava la produzione del celebre modello T. Anche in considerazione di ciò, Friedmann indica che due furono le condizioni, una culturale e l’altra materiale, per il superbo incedere dell’industria Ford. Il millieu taylorista, che si è tentato fin qui di tratteggiare sommariamente, diede molto probabilmente a Ford e ai suoi dirigenti l’occasione di entrare in contatto con un metodo di gestione dell’impresa efficace ma anche in continuità con le maturate convinzioni di Ford. A questa favorevole congiuntura culturale si accompagnava un nuovo slancio nell’industria; se alcuni settori languivano nella crisi e gli indici di produzione erano in piena recessione, altri settori come la costruzione di acciaio e la meccanica conoscevano un forte impulso, conoscendo una forte risalita fino al 1929; Friedmann segnala come il complessivo indice della produzione industriale crescesse ancora “tra il 1925 e il giugno 1929 passando dal 93,7 % al 114,5 %”83.

Questo non significa che le condizioni complessive della società americana fossero ridenti, anzi: all’aumento di produzione dei settori sopracitati si contrapponevano alti tassi di disoccupazione, all’aumento dell’efficienza corrispondeva una repressione sindacale feroce (un aspetto quest’ultimo che non sembrava preoccupare gli apologeti del taylorismo).Il fordismo presentava però una

82 F. Taylor, in S. Ortaggi, “Il pensiero di Frederick W. Taylor tra empiria e sistema, Classe, 19, 1981. 83

G. Friedmann, “La crisi del progresso. Saggio di storia delle idee 1895-1935”, Guerini e Associati, Abbiategrasso 1994, p. 93.

chiara, e decisiva, differenza di fondo con il taylorismo: “mentre Taylor prende come chiave di volta del suo sistema la cooperazione tra impiegati e datori di lavoro, Ford fonda la sua prima di tutto sulla prosperità generale che produzione di massa e alti salari devono assicurare”84. Il fordismo mette al lavoro , in una dimensione di massa, le idee organizzative del taylorismo, non adoperandole semplicemente nel campo di un’industria per migliorarne il rendimento, ma ben più ambiziosamente, facendo di quell’industria e della prosperità che essa crea il volano per un miglioramento complessivo delle condizioni di tutta la società. E’ una importante relazione, quella tra Ford e Taylor, che se a volte è sfuggita agli studiosi italiani, non fu di certo sottovalutata da Friedmann. “Questo è un passaggio che qui da noi viene trascurato *…+ proprio dagli studiosi più critici verso l’organizzazione scientifica del lavoro. Sembra che Ford non sia mai esistito, che il taylorismo abbia camminato con le proprie gambe. Invece ha camminato con quelle del fordismo”85.

Nel riproporre questa visione morale, al netto delle differenze umane e tecniche che caratterizzano i due pionieri e le loro imprese, Friedmann avverte che il fordismo è un “prolungamento” con mezzi più imponenti del taylorismo. Mentre Taylor indirizzava i suoi sforzi, e quelli dei suoi collaboratori, nella ricerca empirica di dati sulle prestazioni delle macchine e degli impiegati, Ford permeava della sua idea di produzione l’intera società, un’esperienza che andava ben oltre la “semplice” scoperta della migliore strada per la produttività.

Il nemico assoluto, la sciagura più terribile per l’industria è rappresentata dalla stagnazione: l’immobilità conduce alla scomparsa. Il ruolo dell’industria è quello di essere creatrice86. Principalmente creatrice di ricchezza. Il meccanismo di funzionamento industriale, così come immaginato da Ford, può essere così riassunto: esiste o si sta sviluppando un bisogno, l’industria esiste in funzione di questo, genera una risposta organizzando e sviluppando il bisogno, trasformando il bisogno dovrà evolversi e perfezionarsi di continuo, assecondando la necessità (vitale) di trasformazione continua alla quale sembrerebbe rispondere. In questo

84

Ibid. p.92.

85

A. Accornero, “Dove cercare le origini del taylorismo e del fordismo”, Il Mulino, 5, 1975.

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processo non è prevista, pena l’estinzione, una fase di riposo; perpetuo divenire, produzione di ricchezza generata dalle continue trasformazioni, distribuzione di queste ricchezze e creazione di nuovi stimoli. Friedmann attraverso un termine matematico, “spirale”, coglie perfettamente l’essenza e l’aspirazione di questa dottrina. Questo continuo gioco di stimoli e risposte tra produzione, potere d’acquisto, domanda e progresso dei bisogni e dei prodotti sembrerebbe in effetti ambire a proseguire indefinitamente, a meno di non individuare ostacoli. Ed è nella “fatalità del capitalismo”, cui la dottrina fordista come ogni dottrina industriale è soggetta, che il sociologo individua l’ostacolo principale, insormontabile poiché sistemico.

Sulla carta questo schema è chiuso, si alimenta da sé e procede senza intoppi, salvo dover riconoscere che “nei fatti invece il volume della produzione stimolato senza controllo cresce più velocemente del potere d’acquisto redistribuito attraverso i salari” e uno dei tasselli di stimolo viene a mancare, giacché “ai bisogni stimolati mancano alcuni dollari necessari per le prime cambiali”87. Tutto questo è ignorato nella tensione mistica di Ford, il quale anzi rivolge la sua attenzione verso i salariati e la loro capacità d’acquisto, ritenendo che se la sola classe agiata ha accesso ai beni di consumo, le sue risorse si riveleranno inadeguate a tenere in vita un’industria creatrice così concepita. Quella che sta prendendo forma è una società industriale, e a questa vanno adeguati i bisogni e le ricchezze d’ogni classe.

Ford “voleva come gli altri moltiplicare i guadagni ma, a differenza di molti altri, con una produzione su scala crescente perché sentiva che i suoi profitti, puntando sulla massa anziché sul saggio, sarebbero stati più cospicui e sicuri. Ebbe il coraggio di applicare questa scelta a un bene che aveva soltanto un mercato di lusso, non scantonando di fronte al problema rimasto insoluto in fabbrica”88.

E’ un’intuizione che Friedmann trova al contempo estremamente arguta, ma come detto sopra fatale per le sorti del fordismo. A tal proposito sottolinea ironico come l’industriale americano si spendesse qualche mese prima della crisi del 1929, nel tessere le lodi dell’industria creatrice nel rendere in futuro la miseria

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Ibid. pp.97-98.

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equiparabile ad un infortunio, o una brutta malattia; uno sfortunato tempismo profetico.

3.1 “Il taylorismo cammina sulle gambe del fordismo”

Al di là delle considerazioni di Friedmann, è innegabile come la innovativa soluzione pratica apportata da Ford abbia poi prodotto degli effetti dirompenti sul mondo di fabbrica per buona parte del secolo. “La cerniera fra il duplice problema – mercato di massa e organizzazione del lavoro – stava appunto in un’accelerazione tecnologica, consistente nella più drastica semplificazione, standardizzazione e spersonalizzazione del lavoro come del prodotto”89

Così come in Taylor, nella filosofia di Ford la glorificazione della produzione è accompagnata da una tensione morale, mistica si sarebbe tentati di dire, verso il ruolo che l’imprenditore (il tecnico in Taylor) può e deve svolgere per il progresso della civiltà. L’imprenditore fordista attua i suoi sforzi per una pulsione al “Servizio”, reso alla società americana e ai suoi appartenenti, rafforzando la gloria della prima e la prosperità dei secondi. I dividendi vengono trasformati in un valore morale. L’automobile, e non può essere altrimenti, è il bene essenziale che aumenta esponenzialmente il benessere degli uomini, permettendo loro di muoversi su distanze prima proibitive, aprendo loro il mondo e traendoli a contatto con nuovi oggetti (anche qui, beni di consumo da acquistare). In questa volontà di conquista degli spazi, di riduzione delle distanze fisiche e conoscitive tra le persone e le cose, Friedmann vede in Ford in prosecutore delle idee partite da Cartesio, ma rimuginate soprattutto da Sant-Simon in epoca moderna, dell’affermazione del dominio conoscitivo dell’uomo sulla natura. La macchina è il cuore pulsante di questo processo, lo spinge in ogni attimo più in là. Quello che Ford aggiungerà allo scientismo della dottrina del progresso di Taylor, sarà una componente “industrialista”. Con questo termine Friedmann indica la trasformazione complessiva che l’industria creatrice apporterà alla società, meccanizzando, rendendo il lavoro più semplice e aumentando la produzione. L’agricoltura, il

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trasporto e l’industria (Ford le definisce le “tre grandi arti”) conosceranno uno sviluppo imponente grazie alla progressiva applicazione del macchinismo. Nonostante lo stadio piuttosto primitivo che ancora caratterizzava lo sviluppo dell’agricoltura, ci sono pochi dubbi per Ford che questa assumerà una forma industriale.

Pertanto Friedmann sposta l’attenzione sulla tematica , poi ripresa con maggiore dispiegamento di mezzi nei successivi lavori: che rapporto intercorre tra l’avvento delle macchine nel lavoro e la soppressione del lavoro umano? La risposta di Ford è chiara in questo senso: la macchina non taglia né emargina il lavoro umano, ma gli dona nuove possibilità di applicazione. Laddove sopprime manodopera la trasferisce in un nuovo campo d’impiego, creando nuovi bisogni e nuove occupazioni. La disoccupazione è problema completamente avulso dall’introduzione dei macchinari; sono le industrie stagnanti a creare la contrazione che porta alla disoccupazione. La manifestazione di questa fiducia nelle potenzialità risanatrici delle macchine viene stigmatizzata, in un passaggio piuttosto critico della “Crisi del progresso”, come la manifestazione di “un pensiero da ingegnere che si basa solo sulla tecnica, e si rimette solo a questa per risolvere problemi che invece sono irrimediabilmente legati alla struttura economica sociale”90. Il tecnico mistico invece, nel suo dualismo inscindibile, avverte l’approssimarsi di una strada, già tracciata, che conduce al dispiegamento di nuove potenzialità nel rapporto tra la macchina e l’uomo. A questo fenomeno dà il nome di “nuovo artigianato”.

Sembra una risposta a chi, e Friedmann può essere in qualche modo annoverato tra questi, annuncia l’immiserirsi delle tradizioni artigiane sotto i colpi della tecnica. L’operaio massa non sembra in grado di produrre articoli confezionati con la stessa perizia e gusto dei vecchi artigiani (orafi, orologiai, mobilieri) di un tempo. Si perdono il gusto per lo studio specialistico, la fatica compiuta sotto l’osservazione vigile di un tutore e la creazione unica del singolo pezzo. Ford non è assolutamente colpito da queste osservazioni, anzi le respinge vigorosamente analizzando i dati che emergerebbero dall’incontro del lavoratore con macchine

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G. Friedmann, “La crisi del progresso. Saggio di storia delle idee 1895-1935”, Guerini e Associati, Abbiategrasso 1994, p.102.

sempre più potenti, capaci ad esempio di far lavorare la mano umana (o meglio, una sua protesi) su scale ridottissime, irraggiungibili col semplice lavoro manuale, seppur munito di utensili.

E’ la nascita di un nuovo artigianato, alimentato dalle macchine, dove convivono la versatilità degli operai, la precisione sempre maggiore e la polifunzionalità delle macchine. I vecchi arnesi costringevano l’uomo ad un lavoro faticoso e monotono ripetuto all’infinito, lo legavano fisicamente allo strumento e ne consumavano la fibra; le nuove macchine riuniscono in sé le funzioni che prima erano divise tra otto o dieci strumenti almeno e l’operaio al lavoro su di essa non può che rispondere a questa universalità estendendo le sue abilità, interagendo in una maniera nuova con la macchina. Queste macchine, così versatili ma così delicate, richiedono un’accorta manutenzione e di tanto in tanto delle riparazioni. Ecco così che sono le nuove macchine ad aprire nuove possibilità di lavoro, del tutto inesistenti prima del loro avvento. Le leggi fordiste che alimentano l’industria non fanno di certo eccezione in questo campo, ed è pertanto ovvio che nuove macchine spingano la produzione, aumentando la ricchezza e con essa la necessità d’innovare. Quella stessa necessità che porta, e si torna all’inizio di questa strana catena, l’operaio a districarsi tra mestieri diversi dovendo seguire la tendenza della tecnica alla trasformazione e alla diversificazione.

La descrizione che Friedmann dà del lavoro a catena negli impianti Ford non restituisce però questa atmosfera di trasformazione dinamica e felice. “Il solo montaggio del telaio comprendeva, nel 1929, quarantacinque operazioni. L’uomo che posiziona un pezzo non lo fissa. L’uomo che mette un bullone non mette il dado. L’uomo che mette il dado non lo avvita. Non sembrava che una simile evoluzione andasse esattamente nelle direzione di un nuovo artigianato”91. Alla luce di queste considerazioni, chiedersi quali fossero i margini per l’avvento della nuova creatività artigiana degli operai pare del tutto lecito, se non doveroso.

La catena di montaggio deve impedire agli oggetti di stare immobili, ogni elemento della produzione deve essere in continuo movimento, dalle materie prime

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ai più piccoli pezzi. La messa in pratica di quel movimento creatore della società, la sua realizzazione nello spazio simbolo della nuova società: la fabbrica. L’ambiente di lavoro fordista si conformerà all’esigenza di economizzare le varie fasi, serrando le macchine e non lasciando spazi inutili. L’operaio avrà il suo spazio di lavoro, quello che gli occorre, ma non un “pollice né tantomeno un piede quadrato in più”, commenterà amaro Friedmann.

Non si tratta però di rintuzzare colpo su colpo le profezie di trasformazione in senso industriale né di verificarne l’attendibilità al di fuori della società americana (anche se Friedmann sottolinea che la dottrina Ford è legata alle particolari condizioni che si respiravano nel nuovo continente, sia nei termini della ricettività complessiva verso il pensiero di Ford, sia sulle capacità del sistema americano di rifornire di manodopera non specializzata, mobile e a basso costo le fabbriche di Ford). Sebbene in vari, ma isolati, passaggi il suo interesse vada verso le condizioni empiriche del lavoro nella realtà della fabbrica, di quelle trasformazioni che sono generate dall’incontro tra strumenti di lavoro, uomo e ambiente, la preoccupazione principale del giovane Friedmann è l’ottusa arroganza di questo pensiero da tecnici, privo di qualsivoglia dialettica che lo impegni nel difficile superamento dell’isolamento col quale guarda alla tecnica come unica soluzione ai problemi, e anzi si propone di imporre le regole del suo campo d’azione (invero ben conosciute) alla realtà circostante. In alcuni importanti passaggi l’attenzione è rivolta, ad esempio, alle piccola ma decisiva trasformazione che il fordismo avrebbe compiuto rispetto al taylorismo nella gestione delle gerarchie di fabbrica: dove il secondo propugnava una rigida e chiara divisione dei compiti e dei piani, il fordismo in maniera sottile nascondeva queste rigidità lasciando che gli operai potessero rivolgere a qualunque ispettore o capo-reparto le proprio rimostranze, o con artificio ancora più ingegnoso, insistendo nell’eliminare la qualifica di “esperto” in ogni settore della fabbrica. Altrove la riflessione militante e quella di osservatore del lavoro coesistono (e sarà questa una costante della sua produzione saggistica, anche con l’affievolirsi della fede marxista) come quando indica il Thinking

dell’iniziativa operaia”92. In ultima istanza, la causa principale del rigetto del sistema Ford, è per Friedmann la volontà complessiva di “desolidarizzare” e scomporre le naturali coesioni tra uomini appartenenti al medesimo gruppo sociale, in difesa degli interessi “di un grande padrone, legato, qualunque cosa dica, a tutto quanto il sistema”93.

4. Un cambio di registro: il lavoro nella sua operatività

A questo esame delle dottrine del progresso nel contesto sociale, economico e psicologico dell’epoca, Friedmann farà seguire dieci anni dopo una differente e complementare analisi dei problemi da queste poste, a partire dalla loro reale plausibilità scientifica. Lo slittamento di prospettiva è annunciato dal titolo eppure quasi impercettibile, anche se ad un attenta lettura risulta chiaro l’abbandono dell’ambito della storia delle idee, pur senza giungere ad un rinnegamento dell’analisi precedente. Anzi, a più riprese nei “Problemi umani del macchinismo industriale” si afferma l’inutilità di tornare a guardare al taylorismo come ad una teoria dell’organizzazione tappa finale di un complesso di dottrine borghesi sul progresso. Il taylorismo va piuttosto sottoposto ad una rigorosa analisi epistemologica, che comprenda l’apporto delle varie discipline che Taylor ha preteso di inglobare nella OSL: la psicologia e la fisiologia. Ma prima ancora di compiere un’analisi sotto il profilo scientifico, occorre esaminare la ricezione operaia e sindacale della OSL, cioè le reazioni da parte di quei soggetti che nelle fabbriche dovranno mettere in pratica le nuove direttive di razionalizzazione. L’osservazione diretta dei fenomeni e la somma e il confronto degli esempi raccolti fanno da collante all’intero piano dell’opera.

Nel primo decennio del secolo, la Taylor Society svolgeva una capillare attività di diffusione della dottrina, contribuendo all’accendersi dell’interesse nei suoi confronti di molti gruppi industriali. D’altronde fu lo stesso Taylor ad abbandonare l’attività sedentaria negli impianti per darsi a questa attività nomade di propaganda, in nome della necessità di condividere con le più ampie platee i

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Ibid. p.112.

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benefici acquisibili con l’adozione della “sua” teoria. Eppure in più di un’ impresa si manifestarono delle reticenze operaie (ma anche dei tecnici) all’assunzione incondizionata dei metodi di Taylor, perplessità motivate in particolar modo dalla loro scarsa sostenibilità fisica e psicologica. Dopo essere stata respinta con una certa nettezza in alcuni tentativi di attuazione sia nel settore pubblico che in quello privato94, le forti perplessità emerse condussero alla cosiddetta “inchiesta Hoxie”, incaricata di valutare gli effetti complessivi della OSL su 35 impianti indicati da Taylor. Le conclusioni cui arrivò l’inchiesta furono del tutto negative, insistendo in particolar modo sul “dubbio valore scientifico del cronometraggio, richiamando l’attenzione sugli inconvenienti psicologici, morali e sociali della selezione in base al rendimento e della degradazione del lavoro qualificato”95.

Le reazioni operaie non si limitavano soltanto agli Stati Uniti, culla del taylorismo, ma attraversavano l’Atlantico per giungere anche nelle fabbriche europee, neppure nelle quali nota Friedmann, l’OSL incontrava l’entusiasta approvazione dei lavoratori. Reazioni uguali a quelle degli operai americani si registravano sia in Francia che in Germania. Il caso più dettagliato preso in considerazione nelle pagine di “Problemi umani del macchinismo industriale” è quello dell’introduzione del sistema di cortometraggio negli impianti Renault di Billancourt, dove un operaio altamente specializzato compiva delle serie di tre turni di prova (sulla velocità massima, il tempo necessario per compiere le operazioni etc.) per tre ore consecutive ad un ritmo stabilito, stabilendo così uno standard. I lavoratori che subentravano avrebbero dovuto tenere il medesimo ritmo per la durata di undici ore. La reazione fu abbastanza immediata: dopo pochi mesi gli operai chiesero che “il cronometrista lavorasse con loro e per la stessa durata, altrimenti, le condizioni essendo diverse, la misura di questo tempo non poteva esser loro applicata”96. Il problema sollevato da chi si opponeva al taylorismo non

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Si veda ad esempio la dura nota redatta da un contrammiraglio in occasione dell’introduzione dell’OSL negli arsenali della marina o le forti critiche provenienti dall’American Federation of Labor, una sigla che riuniva vari sindacati operai, citate entrambe in: G. Friedmann, “Problemi umani del

macchinismo industriale”, Einaudi, Torino 1949, pp.40-41.

95

Ibid. p.41.

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era di certo la mancanza di efficacia nell’ottenere l’auspicato aumento di produzione, quanto piuttosto la degradazione delle qualifiche e delle abilità dei lavoratori.

Oltre all’aumento del carico di lavoro sulla base di rilevazioni bislacche e studi discutibili, ciò che Friedmann imputa al taylorismo è la sordità rispetto alle rivendicazioni operaie, l’ostinata risolutezza nel trascurare gli apporti di pensiero e organizzazione che vengono dai lavoratori, la separatezza tra dirigenza e manovalanza che la compartimentazione rigida acuisce. Con un’attenzione crescente tra la rilevazione di dati empirici e ragionamento teorico, che data proprio a partire dalla pubblicazione dei “Problemi umani”, Friedmann s’impegna con forza nel restituire un piano vario e complesso di confronto tra il lavoro vivo e la razionalizzazione che va imponendosi in quegli anni. A partire dalla coincidenza tra le reazioni ai metodi di organizzazione scientifica del lavoro dei minatori tedeschi e quelli inglesi ad esempio, lo studioso può rintracciare le costanti della introduzione della meccanizzazione nelle miniere, e studiarne gli effetti di trasformazione complessiva del lavoro. Il lavoro meccanizzato tende a concentrare squadre di operai all’interno delle stesse aree, generando una certa confusione a causa della confusa gestione da parte dei quadri dirigenti, ma accrescendo al contempo la