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5. Antonio Gramsci e la conflittualità delle classi

5.3 Taylor e Ford visti dal carcere: “Americanismo e fordismo”

Il gruppo di note su “Americanismo e fordismo”, redatte durante la prigionia comminatagli dal regime, risentono ovviamente dell’eco degli avvenimenti deflagrati nel biennio rosso, e di quella sconfitta “aperta” con cui erano culminati. Ragionare sull’americanismo significava ragionare anche sulle cause di quella sconfitta, di quella necessità di organizzare il conflitto all’interno dei luoghi di produzione tenendo insieme le trasformazioni che la società capitalista stava attraversando. E quindi riprende la questione aperta delle due borghesie: la borghesia trasformatrice e quella parassitaria. Negli Stati Uniti la disponibilità diffusa di forza lavoro produce come effetto la partecipazione della grandissima parte della popolazione alle attività produttive (è quella che Gramsci chiama la “composizione demografica razionale”). Al contrario, la vecchia Europa è gravata storicamente da classi parassitarie arricchitesi nel corso dei secoli, ormai abbarbicatesi ai loro privilegi e gravanti sul tessuto sociale complessivo. Proprietari, ceto intellettuale e burocratico, ufficiali di professione, sono i gruppi che, oltre a non essere in alcun modo produttivi (ereditieri, affittuari, giovani pensionati dello stato) fanno anche da zavorra all’impetuoso emergere delle forze produttive. A questo fosco quadro d’immobilità si aggiungano le migrazioni e la scarsa

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Massimo L. Salvadori, “Gramsci e il problema storico della democrazia”, Einaudi, Torino 1977,p.143.

occupazione femminile perché risulti chiaro quanta parte della popolazione italiana, a giudizio di Gramsci, risulti inattiva e inoperosa. In America l’assenza di questi ceti parassitari è stata condizione primaria per quella razionalizzazione dell’attività economica, a tutto favore dell’attività produttiva, che ha portato al successo delle innovazioni fordiste.

“Si può dire genericamente che l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di una economia programmatica”. Il fordismo si afferma perciò come un mezzo necessario che la società capitalistica s’impone per compiere “il passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmata”; un processo destinato ad incontrare delle resistenze, e soprattutto uno strumento affatto neutrale. Per come si sta configurando nella sua terra d’origine, il fordismo trova l’opposizione delle “forze subalterne, che dovrebbero essere manipolate e razionalizzate secondo i nuovi fini. *…+Ma resistono anche alcuni settori delle forze dominanti, o almeno alleate delle forze dominanti”55. S’intende che il fordismo com’è portato avanti da parte della borghesia industriale americana, è un tentativo di affermare un nuovo piano egemonico a danno sia dei ceti parassitari che della rimanente classe dei produttori, i lavoratori. La razionalizzazione dispiega così differenti metodi per ottenere i suoi scopi: da un lato misure coercitive (l’attacco al sindacalismo su tutto), dall’altra la forza della persuasione (con la realizzazione degli alti salari, la propaganda fondata sulla collaborazione tra produttori). A differenza di altri (tra cui i critici di sinistra), i propagandisti del fordismo hanno colto un punto essenziale: “l’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e della ideologia”56.

Per far ciò il taylorismo (termine usato da Gramsci in maniera piuttosto equivalente ed intercambiabile con la locuzione fordismo) si propone di creare un “nuovo tipo di uomo e di lavoratore”. Pertanto l’analisi della razionalizzazione di

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A. Gramsci, “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno”, Einaudi, Torino 1964, p.311.

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fabbrica va accompagnata allo studio delle leggi sul proibizionismo e all’ideologia neopuritana che lo percorre. La moralità operaia, le condizioni igieniche in cui il lavoratore vive, sono materia di primario interesse per chi lavora per l’affermazione dei nuovi metodi. L’interesse non è pertanto rivolto all’ “umanità o alla spiritualità” del lavoratore, a che cioè l’uomo lavoratore esprima il suo umanesimo nel forgiare gli strumenti del suo lavoro57; quel che piuttosto si propone la razionalizzazione è di mantenere, oltre l’orario di fabbrica, l’equilibrio psico-fisico dell’operaio. Un buon operaio deve dar prova di stabilità e affidabilità, d’esser sordo alle tendenze asociali e in grado di essere collaborativo quando richiesto. La grande consapevolezza, per quanto subdola possa apparire, dei fordisti ,è che “questo equilibrio non può essere che puramente esteriore e meccanico, ma potrà diventare interiore se esso sarà proposto dal lavoratore stesso e non imposto dal di fuori, da una nuova forma di società con mezzi appropriati e originali”58. Da qui le pressioni contro l’alcolismo o contro il libertinismo sessuale; da qui anche la politica di alti salari, giacché “occorre che il lavoratore spenda razionalmente i quattrini più abbondanti, per mantenere rinnovare e possibilmente accrescere la sua efficienza muscolare nervosa, non per distruggerla o intaccarla”59. Costringere i lavoratori sulle macchine, privarli della propria autonomia senza in cambio produrre una modificazione estesa ed interiorizzata dei costumi non avrebbe portato che al fallimento dei nuovi metodi; quel che il fordismo, in maniera impeccabile, cercava di tenere insieme (e altrimenti non avrebbe potuto fare) erano l’incentivo degli alti salari, che garantiva anche l’espansione continua della macchina produttiva oltreché l’adesione operaia, la conservazione e l’accrescimento delle capacità fisiche e psicologiche dei lavoratori e una nuova forma di Stato che potesse contenere dentro nuovi limiti queste trasformazioni. “Lo stato è lo stato liberale-chiosa Gramsci-non nel senso del liberismo doganale o della libertà effettiva politica, ma nel senso più fondamentale della libera iniziativa e dell’individualismo economico che giunge, con mezzi propri,

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Era questo un privilegio del lavoratore nella fase dell’industria artigianale: il lavoratore-demiurgo poteva incanalare tutta la sua personalità d’uomo nella sua opera, farne un oggetto scaturito dalla insondabile volontà individuale, “quando era ancora molto forte il legame fra arte e lavoro”.

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Ibid., p.331.

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come società civile, per lo stesso sviluppo storico, al regime della concentrazione industriale e del monopolio”60. Conseguentemente Gramsci non potrà che essere scettico circa l’ipotetica alleanza tra il corporativismo e la razionalizzazione61, così come sull’applicazione della razionalizzazione che, in seno al comunismo dei soviet, ne avrebbe dato Trotzkij62.

Gramsci giudicò che l’ideologia fordiana complessivamente era un “fenomeno derivato da una necessità obiettiva dell’industria moderna giunta a un determinato grado di sviluppo”, un fenomeno da considerarsi economico prima che morale, e verso il quale le reazioni intellettuali e morali di rigetto erano “dovute ai detriti dei vecchi strati in isfacelo, e non ai gruppi il cui destino è legato a un ulteriore sviluppo del nuovo metodo”63. Allo stesso modo, se pur con un ribaltamento di prospettiva, andavano considerati coloro che ne esaltavano acriticamente le qualità risolutive d’ogni conflittualità. Bisognava, a suo modo di vedere, mantenere una posizione d’analisi e di critica. Arginarne gli effetti con le lamentazioni distaccate e nobili significava sposare la posizione irrealistica di chi teme d’essere spazzato via dalla storia.

La razionalizzazione era un elemento ormai oggettivo, e sebbene deprecabile nei suoi risultati qualora in mano ai gruppi capitalisti impegnati nell’affermazione della propria egemonia, purtuttavia ribaltabile nella prospettiva della classe che lotta per la sua affermazione come guida della produzione e dello

60 Ibid., pp.322-23.

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Alla questione dell’ “Autarchia finanziaria dell’industria” Gramsci dedica un intero paragrafo delle note sull’americanismo, discutendo la tesi di Massimo Fovel su questa strana alleanza tra autarchia e metodi razionalizzatori; all’idea che il corporativismo avrebbe garantito un ammodernamento dell’apparato industriale, così come l’americanismo negli Stati Uniti, adottandole le innovazioni tecniche, Gramsci rispondeva considerando la situazione della Stato italiano, dove la politica finanziaria continua a mantenere e aprire nuovi spazi per i “redditieri e i parassiti”. A ciò va aggiunto che il corporativismo non si è sviluppato “liberamente” per via di un mutamento economico e sociale, ma con la forza e dall’alto secondo le esigenze di una “polizia economica”.

62 Differentemente da quanto detto per il corporativismo, il rivoluzionario russo avrebbe avuto le

giuste preoccupazioni dentro applicazioni pratiche sbagliate. L’idea di imporre i nuovi metodi industriali e la nuova disciplina di fabbrica erano un errore: sancire l’ingresso della novità attraverso la disciplina militare, senza garantire l’apertura di spazi nelle coscienze operaie per

l’interiorizzazione, non poteva che condurre al rifiuto complessivo delle nuove pratiche. Il rischio era di utilizzare il “bonapartismo“ in luogo della concertazione.

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Stato. In fin dei conti si trattava ancora dello stesso nesso che legava la produzione, i lavoratori e la forma di dominio vigente. Quel che andava rigettato con veemenza era il cuore stesso della razionalizzazione taylorista, l’affermazione attraverso la divisione del lavoro, del dominio di chi detiene il potere di controllo dei mezzi su chi lo deve subire; questo non era chiaramente trasportabile nel campo socialista. Restava vivo l’interesse per il “fatto” del fordismo, per la sostanza ineludibile di rivoluzione tecnica e sociale che esso comportava. Sono proprio queste le ragioni che mantengono vive e in continuità le riflessioni dei “Quaderni” con quelle, meno sistematiche e spesso di natura propagandistica di “Ordine Nuovo”: la divisione del lavoro, le trasformazioni tecnologiche e il cambiamento ormai inarrestabile che l’industria stava vivendo andavano organizzati tramite la gestione operaia, collettiva ed egualitaria dei mezzi di produzione.

II. Friedmann e la sociologia del lavoro europea