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4. Una feconda frattura: la sinistra e la rinascita sociologica

4.2 Sociologi marxisti: Roberto Guiducci e Alessandro Pizzorno

Per quanto il contributo di Bonazzi, a parere di chi scrive, sia stato il più significativo, non tanto per un incalcolabile e fumosa unità di misurazione del valore scientifico, quanto per gli intrecci che ebbe con la cultura sindacale, anche altri intellettuali contribuivano in quegli anni alla ridefinizione, da sinistra, del lavoro sociologico. Due nomi di un certo rilievo sono quelli di Roberto Guiducci e Alessandro Pizzorno.

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Non a caso il volume era prefato da Vittorio Foa, che nell’introdurlo si compiaceva del fatto che la visione dell’autore fosse di adesione “costante a un punto di vista marxista”, senza che però

l’indagine sociologica “nonostante il tecnicismo complesso e raffinato degli strumenti di ricerca e elaborazione dei risultati, *…+ (risultasse) statica né astratta”. Il contributo analitico dato da Bonazzi, oltre che per la validità del caso specifico, era per Foa importante per la lezione d’approccio al lavoro che dava a tutta una corrente di pensiero, in un’opera il cui “lavoro di costruzione non nasce da una esigenza moralistica, ma dalla considerazione attenta e analitica del processo reale. In questo senso il contributo di pensiero di Bonazzi è molto importante per il lavoro collettivo, sindacale e politico del movimento operaio”, in G. Bonazzi, “Alienazione e anomia nella grande industria. Una ricerca di

sociologia”, Edizioni Avanti, Milano 1964, p. 6 e sgg.

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Ibid., p.216.

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Guiducci focalizzò la sua riflessione, nel dibattito corrente, sulla problematica dell’ adeguamento della cassetta degli attrezzi culturale della sinistra. La staticità che aveva caratterizzato per lungo tempo gli studi sul lavoro, declinati solo in chiave di attesa dell’evento rivoluzionario, era un’arma scarica incapace di nuocere al capitale. Per potere affinare le armi di una critica corrosiva, la cultura marxista doveva immergersi nel metodo empirico sorto oltreoceano, e uscirne rinnovato e rafforzato per condurre la battaglia contro il capitalismo che “l’empirismo politico americano non sa e non saprà cogliere, che la sociologia non saprà rilevare, in cui le human relations si troveranno impigliate e stupefatte”325.

Si trattava di misurasi in campo sociale e scientifico con la visione del capitale, senza trascurare i contributi che potevano provenire da altri campi. Per questo lo spirito innovativo, che dalla sociologia soffiava sulla sinistra tutta, andava accolto con entusiasmo e attenzione, in quanto “passare dalla formulazione generalissima delle possibilità di una ricerca (storiografica, sociologica, economica) organica e cioè in collaborazione fra intellettuali e base (concetto della compartecipazione scientifica e non psicologico-etica) al primo tentativo di realizzazione non è certo un salto non indifferente”326.

Per il movimento operaio era dunque importante acquisire delle capacità di analisi mature e consapevoli, senza però scadere nell’elitismo o in forme di osservazione distaccata e al servizio dei padroni. Guiducci auspicava perciò la fondazione di “un istituto scientifico di sociologia, composto di studiosi marxisti, che potrebbe impostare via via le varie ricerche necessarie adottando i metodi scientifici più moderni. *…+ Ma le ricerche dovrebbero cointeressare gli ‘osservati’, che verrebbero ad assumere il ruolo di ‘conricercatori’ ”327.

Oltre allo sguardo sulla relazione che intercorreva tra osservatori e osservati, e alle conseguenze politiche e metodologiche che questo incontro

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R. Guiducci, “Socialismo e verità. Pamphlets di politica e cultura”, Einaudi, Torino 1976, p. 63.

326 R. Guiducci, “Fame di storia”, Opinione, 2, 1956. L’affermazione acquista maggiore rilevanza, se si

tiene in considerazione che si trattava di un commento al lavoro di Danilo Montaldi in merito alla formazione di un gruppo comunista a Cremona.

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avrebbe prodotto, la ricerca sociologica di quegli anni si concentrava in modo anche più decentrato sulla funzione del lavoro nella società italiana.

E’ il caso delle ricerche iniziali di Alessandro Pizzorno, anche lui torinese e con una specializzazione in Francia tra la psicologia storica e l’antropologia. Già nel 1953 veniva assunto in Olivetti, iniziando ad impratichirsi alla vita di fabbrica, e potendo confrontarsi con il lavoro di molti altri colleghi che in quei tempi si aggiravano per gli impianti Ivrea.

Pizzorno era partecipe del dibattito che attraversava la nuova sinistra sul neocapitalismo, sulle relazioni umane e sul lavoro di fabbrica. Affrontava la questione rimanendo fedele ad una prospettiva marxista, riconoscendo dunque la validità di certe formulazioni marxiane, prima fra tutte quella sull’alienazione, ma sentendo la necessità di sottoporle a verifica all’interno dei nuovi schemi ideologici predominanti.

In sostanziale continuità con Friedmann, riconosce come “quando la divisione del lavoro passa al livello industriale, l’operaio non è più in rapporto con una forma finita, con un oggetto socialmente reale. *…+ Resta possibile il rapporto tecnico con lo strumento, rapporto pur chiuso entro appena un segmento del ciclo produttivo. *…+ Ma quando il lavoro viene organizzato scientificamente, quando cioè la divisione del lavoro viene perfezionata fino a separare dall’esecuzione ogni possibile interpretazione del lavoro, allora anche quest’ultimo rapporto tecnico è abolito, e lavorare significa semplicemente inserire gesti in una cadenza rispettando le tolleranze”328. Questa separazione dell’uomo dall’oggetto del suo lavoro veniva riconosciuta da Pizzorno come compiuta, incontrovertibile, “condizione industriale” nella quale l’uomo odierno vive e non può che affrontare.

Da posizioni diverse, nel segno dell’evasione, si è cercato di intravedere le possibilità che invece la parcellizzazione comportava. Ad esempio Gramsci, che riconoscendo l’eterogenesi dei fini nel nuovo processo produttivo, attestava la

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liberazione di spazi mentali e immaginativi per l’operaio impegnato nell’opera. La mente dell’operaio e il suo braccio possono operare scissi, grazie al meccanismo introiettato “in linea”, lasciando la mente libera di divagare e rimuginare sulla propria condizione politica. “Ma anche qui – ammoniva Pizzorno – si presuppone che l’operaio opponga al lavoro un diverso interesse, preciso e costruttivo. Allora si tratta di altro che di liberarsi evadendo dal pensare il proprio lavoro. Significa piuttosto ripensarlo politicamente, cioè nella sua situazione totale e più vera, e in tal modo riconquistarne coscienza e riscattarne la frammentazione”329. Si trattava, in pratica, dello stesso tentativo, seppure di segno rovesciato, proposto da Elton Mayo che si preoccupava del meccanismo automatico in cui gli operai potevano fantasticare, col rischio che i loro pensieri potessero “fissarsi sulle loro rivendicazioni – ostacolo a una buona armonia fra le classi”330. A simili speranze approdava anche il pensiero scientifico più accorto, ad esempio nella fiducia che Friedmann riponeva nel tempo libero generato dall’automazione in fabbrica, tempo riguadagnato dall’operaio per operazioni rigeneranti e attività che ne coltivino lo spirito e la consapevolezza. Anche in questo caso si trattava di ingenue speranze, non del tutto insensate, ma indifferenti alla persistente alienazione presente nell’atto lavorativo. “Si è il proprio lavoro, non il proprio hobby. Ma si è il proprio lavoro soltanto quando se ne possiede il destino”331.

In sostanza questi tentativi d’evasione psicologica e politica erano stati messi in opera dal capitale, attraverso le human relations, il cui intento principale, e propagandistico, era il seguente: “la capacità produttiva di un lavoratore è in funzione non solo dell’attrezzatura e dell’organizzazione, ma anche dell’importanza che egli attribuisce al suo lavoro”332. Ma per quanto gli strateghi della politica industriale potessero provare a convincere operai e sindacalisti del peso di ogni lavoratore nella realizzazione del prodotto, “non muta la semplice realtà del fatto che il lavoro del singolo operaio non è importante”. I tentativi di ristabilire, nella

329 Ivi. 330 Ivi. 331 Ivi. 332 Ivi.

nuova situazione di fabbrica, il legame tra l’uomo e il suo prodotto, sono dunque ingenui o in malafede.

L’analisi tecnica e sociologica, rispetto a quella politica in Pizzorno, compirà il percorso inverso di quella di altri suoi colleghi, in uno schema assimilabile ai vasi comunicanti: “(essa) si deve connettere alla situazione politica complessiva, per esserne chiarita e per chiarirla a sua volta”. Il sociologo non dovrà guardare alla comunità di fabbrica come ad una realtà “fatta di uomini che stanno insieme”, come vorrebbero le pratiche di relazioni umane, “bensì di uomini che lavorano insieme a trasformare la natura, l’ambiente (e a comporlo in ‘mondo’)”333.

Analisi queste che non rimangono, nell’opera di Pizzorno, limitate al quadro teorico e storico, ma che si immergono nella realtà più ampia dello studio specifico, dell’impatto dell’industrializzazione in una realtà marginale, come quella di un piccolissimo comune di nome Rescaldina. “Lo studio di comunità era scelto per certi suoi vantaggi: aiutava a superare un’osservazione frammentaria di certi fenomeni, a moltiplicare le osservazioni e le informazioni su singoli punti, e a individuare i reali contorni dei gruppi sociali, di cogliere cioè gli elementi soggettivi dell’appartenenza ai gruppi”334.

I propositi generali e gli esiti della ricerca di Pizzorno335 superano di molto le intenzioni e l’oggetto di questo lavoro, ma restano utili le sue considerazioni sulla razionalizzazione come momento dell’industrializzazione: “lo sviluppo organizzato dell’unità produttiva industriale tocca, prima o poi, una fase in cui la linea logica che lo ha guidato implicitamente si manifesta formalmente, cioè viene fatta oggetto di precise funzioni organizzative, e questo si traduce nella presenza di uffici e persone specialmente incaricati di definirla”336. Nel caso della comunità presa in considerazione, si sviluppava attorno all’industria principale una serie di funzioni organizzative e funzionali, che favoriva l’emergere di un gruppo sociale, al quale la

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Ivi.

334 F. Barbano, “La sociologia in Italia. Storia, temi e problemi 1945-60”, Carocci, Roma 1988, p. 348. 335

Cfr. A. Pizzorno, “Comunità e razionalizzazione: ricerca sociologica su un caso di sviluppo

industriale”, Einaudi, Torino 1960.

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pratica di razionalizzazione è demandata, e che l’assorbiva e utilizzava come ideologia di riferimento. Accanto al produttivismo.

“Dalla vecchia ideologia tecnocratica a quella delle ‘Relazioni umane’, a quella dell’automazione, diverse tendenze sembrano esprimere l’esigenza di dare giustificazione ideologica a questi nuovi processi, e dignità ideologica a queste nuove categorie professionali che nascono dall’interno dell’unità produttiva (anche se naturalmente poi ne trascendono largamente i limiti). In particolare l’ideologia della produttività come fine in sé, *…+è caratteristica come adesione proprio alla posizione di categorie sociale il cui valore si misura nella loro capacità di aumentare la produttività”337.

Per questo la ricerca sulla comunità di Rescaldina, e in generale il contributo di Pizzorno, vengono giudicati da Barbano, sociologo che ha cercato di restituire il divenire storico della sua materia in Italia, come indicativi di ciò “che il nostro Paese sembrava divenire negli anni Sessanta: il senso del lavoro, il lavoro della donna, il progresso tecnico, la produttività, le conseguenze per la famiglia, i valori, i gruppi sociali, e il potere nella comunità trasformata”338.

5. Uso politico dell’inchiesta in fabbrica. Raniero Panzieri e i Quaderni