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L'interesse di Friedmann per la sociologia del lavoro, il suo costituirsi come branca particolare della sociologia e l'oggetto preciso della sua analisi, sono inscindibilmente connesse all'emergere, nel mondo dell'industria, della dottrina tayloristica dell'Organizzazione Scientifica del Lavoro. Si potrebbe addirittura azzardare che se i lavori di Taylor, e quelli di Ford poi, non avessero trovato un terreno così fertile nella società industriale di inizio XX secolo, che contribuirono così tanto a plasmare, difficilmente la nascente disciplina avrebbe potuto costituirsi come autonoma; questa considerazione potrebbe apparire tautologica, se non fosse così importante sottolineare che è proprio a partire dall'impianto teorico sviluppato da Taylor ed epigoni che si è costruito l'edificio della sociologia del lavoro.

Non è un caso che nei suoi primi due lavori, “La crisi del progresso”, uscito in Francia nel 1936, e “Problemi umani del Macchinismo Industriale”, edito dieci anni dopo, Friedmann dedichi i lunghi capitoli d'apertura all'analisi del Taylorismo e del suo sistema d'organizzazione del lavoro. Quando pubblica la "Crisi del Progresso" Friedmann non è ancora uno specialista dei problemi del lavoro; ha pubblicato tre romanzi per il celebre editore Gallimard, s'interessa di problemi di progresso ed economia ed è di dichiarata fede marxista. Eppure già in questo primo libro si agitano e mettono in questione quelle che saranno le problematiche e le passioni di una vita: le possibilità e i rischi dell'avvento della tecnologia nella vita quotidiana e lavorativa, il ruolo della scienza e i valori del progresso,l'impegno intellettuale visto come una battaglia, nonché quello maggiormente rilevante ai fini di questo scritto: la centralità della questione umana nel lavoro. Le questioni del progresso e della fiducia/sfiducia nella scienza vengono qui analizzate nel contesto della storia culturale, in particolar modo francese, lungo l'arco di quarant'anni (l'opera è difatti sottotitolata "Saggio di storia delle idee 1895-1935"), filtrate attraverso un'interpretazione marxista rivendicata fin dalle prime pagine e con una

spiccata propensione all'accettazione positiva del ruolo della scienza e della tecnica, portatrici di idee e valori neutrali modellati dal contesto economico e culturale nei quali la loro forza si dispiega.

Secondo l’idea sviluppata, questo contesto è riconducibile essenzialmente ai rapporti di produzione, e dunque alle due differenti vie percorse dagli Stati Uniti (e in parte dall'Europa) da un lato, e dall'Unione Sovietica dall'altro. Le forze economiche e sociali dentro le quali la tecnica dispiega le sue potenzialità, ne modificherebbero l'impatto e la portata, e se indebitamente controllate e manipolate torcerebbero verso il negativo ciò che possiede invece, un potenziale emancipatorio intrinseco, nonché di accrescimento delle facoltà umane. Queste posizioni vengono pian piano rimaneggiate e modificate nel corso della vita dall'autore, tanto da portare, nel suo ultimo lavoro, "La Puissance et la Sagesse", mai tradotto in italiano, ad un disconoscimento totale delle idee espresse negli anni giovanili, in un opera di stampo filosofico morale in cui "si sarebbe tentati di riconoscere uno dei tanti lamenti, una delle tante reazioni letterarie alla civiltà industriale, che il primo Friedmann (in particolare nella Crisi del progresso) denunciava con forza: alla fine del percorso del nostro autore si trova infatti la critica dell'oppressione tecnica dalla quale il mondo contemporaneo sarebbe condizionato nel suo insieme"64. Uno studioso dunque che, pur nel variare delle sue posizioni, indaga con continuità l’evoluzione della società industriale, colta nel suo inscindibile groviglio con la tecnica, la scienza e l’uomo.

L’azione e l’influenza di Taylor e Ford vengono inquadrate all’interno di un contesto generale di entusiasmo nei confronti delle potenzialità delle scienze applicate alla tecnica e al lavoro, che Friedmann fa risalire direttamente a Sant- Simon e ai suoi epigoni (pur criticando la deriva scientista assunta da questi ultimi) , in particolar modo per il legame con cui la mistica si intrecciò alle considerazioni tecniche, riempiendole della base etica assente dai freddi calcoli ingegneristici, eppur così importante nel determinarne le successive fortune nel dibattito. Mentre amareggiato registra l’allontanamento dei filosofi o degli scienziati dalle idee

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Michela Nacci, L’equilibrio difficile, in G. Friedmann, “La crisi del progresso. Saggio di storia delle

progressiste, prende atto che gli ingegneri, “che stanno costantemente a contatto con le tecniche di produzione”, sono gli unici rimasti ad avvertire le possibilità liberatrici insite nel progredire delle scienze applicate al mondo del lavoro. Del tutto sprovvisti di un bagaglio umanistico e della giusta considerazione per le questioni sociali, i tecnici non possono che travisare la portata reale delle trasformazioni in corso, rivolgendo il loro sguardo soltanto alla questione organizzativa o amministrativa senza valutarne le ripercussioni, o peggio immaginando meccanicamente che ogni conflitto e resistenza cesserebbero di esistere non appena le macchine ordinassero e razionalizzassero la società.

Questa battaglia culturale vedeva un’avanzata inarrestabile del pensiero tecnico, dato che il campo era stato lasciato sgombro dal ritirarsi del pensiero filosofico e progressista, o peggio ancora, dall’ingrossarsi delle fila di quello che oggi definiremmo il pensiero mainstream nelle accademie e sui giornali, rigidamente idealistico e critico, e pertanto critico verso ogni forma di progresso della società nel suo insieme. Questo eterogeneo gruppo di intellettuali individuava il cuore della decadenza nella giovane e rampante America, patria amorale della civiltà meccanica, dove ogni ambito, dal lavoro alla vita domestica, dal divertimento ai costumi, era trasformato dalla spersonalizzazione dell’attività umana in favore dell’affermazione delle macchine. Il sospetto verso l’affermarsi della modernità tecnologica era fermato nel quadro concettuale del tramonto occidentale, da un fronte composito d’autori che va da Georges Duhamel ad Andrè Gide, passando per molti autori minori, per approdare infine a Bergson. Un fronte composito ma nel quale Friedmann crede di riconoscere delle tematiche di fondo unificanti.

Questi intellettuali abbandonavano gli ideali che avevano trionfato con la borghesia fin dalla rivoluzione francese (uguaglianza, progresso, giustizia sociale, libertà e ragione) finendo per trovare nel macchinismo dilagante la causa dell’attuale decadimento morale (e materiale venturo) dell’occidente. Ovunque l’industria imponeva i propri ritmi all’uomo, ovunque le macchine determinano ed espropriano la produzione dei beni materiali dalle mani dell’artigiano (non importa

se Stati Uniti o URSS), laggiù scomparivano i valori spirituali ed era minacciata finanche la possibilità di una vita interiore, autonoma dell’uomo.

Diversamente Friedmann credeva che occorresse precisare e distinguere i termini della contesa: alla non-neutralità della scienza contro l’uomo, egli risponde che “il socialismo non teme la scienza: nel quadro della società che vuole edificare, essa non può volgersi contro l’uomo e diventare uno di quei valori reversibili che preoccupano tanto i moralisti della borghesia”65. Alla corrente di pensiero che contrapponeva civiltà americana e civiltà europea, addossando alla prima il fardello del decadimento morale della seconda (sotto i colpi implacabili delle macchine), il sociologo francese indicava la nuova strada del macchinismo emancipatore sovietico, dove sapere tecnico e preoccupazioni di tipo sociale andavano di pari passo (a differenza degli Stati Uniti preda dei tecnocrati), realizzando “il passaggio della fiaccola della civiltà da una classe esaurita a quella giovane che realizzava il socialismo, come Marx aveva predetto”66. Ciò che distingueva e rendeva unica l’esperienza sovietica era la concezione della tecnica, il suo mettersi placidamente al servizio dell’uomo (la mano che guida il mezzo risultandone accresciuta nelle sue potenzialità) abbandonando ogni volontà di trarne profitto. Solo il socialismo messo in pratica poteva garantire d’uscire dalle contraddizioni nefaste dell’applicazione delle macchine nel sistema capitalista di dominio dell’uomo sull’uomo, solo il marxismo in via teorica aveva tracciato la strada per evitare di frangersi su queste secche.

I rischi paventati da Friedmann, profeta retrospettivo, erano quelli dell’affermazione di un pensiero negativo delle crisi, incapace di volgere lo sguardo indietro e pensarsi dialetticamente, ma sprofondando nelle paura della Natura; l’Altro inconoscibile e incontrollabile. L’angoscia che emergeva da questo pensiero negativo della crisi affondava le radici in un malessere realmente esistente, che confondeva però del tutto la sequenza che porta dalle cause agli effetti, non potendo che redigere una diagnosi sbagliata: si additavano la scienza e la tecnica ai

65 G. Friedmann, “La crisi del progresso. Saggio di storia delle idee 1895-1935”, Guerini e Associati,

Abbiategrasso 1994, p. 238.

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Michela Nacci, L’equilibrio difficile, in G. Friedmann, “La crisi del progresso. Saggio di storia delle

tribunali della ragione ma in realtà si trattava di “un’angoscia di fronte alla civiltà del capitalismo, angoscia tanto più grande perché proveniva da intellettuali che vi appartenevano completamente (e quindi non ne vedevano vie d’uscita ) e che non possedevano gli strumenti adatti per giudicarla in modo corretto”67.