1.Ordine del discorso antropologico: vita, organismo sociale, lavoro
1.2 Antropo – biologia: organizzazione funzionale e variazione della vita
Uno spartiacque fondamentale nella storia delle scienze della vita è costituita dal pensiero di Xavier Bichat, fondatore della medicina dei tessuti e della fisiologia. Egli sviluppa un vitalismo che attribuisce normatività alla vita ed identifica lo statuto
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Cfr. A. Gehlen, L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, trad. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano, 1983.
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vitale in ciò che si oppone alla morte. Nella sua più importante opera, “Recherches
physiologiques sur la vie et la mort”7, l’autore definisce la vita come l’insieme delle funzioni che si oppongono alla morte. La vita rappresenta la differenza energetica tra forze esterne e resistenza interna. La vita, dunque, emerge dal fondo conflittuale delle forze naturali, tanto che viene definita con termini come attacco/difesa, azione/reazione. Esiste una duplice spazializzazione della morte cui corrisponde una
duplice spazializzazione della vita. La prima forma di morte va cercata nell’esistenza
di forze esterne che si oppongono alle funzioni auto – organizzative dell’organismo. La vita, in questo caso, si configura come il mantenimento di una certa struttura
organizzativa del vivente. Ma può esistere anche un germe dissolutivo che si annida
all’interno della vita sottoforma di malattia latente.
Per comprendere questo punto è necessario introdurre la duplice spazializzazione
della vita operata dal fisiologo francese. Secondo questo punto di vista, l’essere
umano si compone di due parti: la vita organica e la vita animale. La prima fa riferimento alle funzioni vegetative dell’organismo, la seconda sovrintende alle attività motorie, sensorie e relazionali. La prima riguarda tutte quelle funzioni che regolano dall’interno l’organizzazione vitale, la seconda si riferisce all’interscambio tra ambiente interno e mondo esterno. Si tratta di una doppia vita in quanto le funzioni vegetative si sommano a quelle animali. Ma ciò significa anche che le prime possono esistere anche quando le seconde vengono meno come durante il sonno, in casi di morte apparente o in stati comatosi. Non si tratta di una spazializzazione che implica necessariamente la compresenza delle due dimensioni ma l’autonomia della vita vegetativa rispetto a quella sensorio – intellettiva – relazionale. Tale scissione è molto importante e deve essere tenuta in considerazione per comprendere come cambia il concetto di malattia. La falda vegetativa della vita, infatti, diviene il fondo originario a partire dal quale può sussistere anche una vita animale. Questa, dunque, dovrà sempre radicarsi su qualcosa di preesistente presente nella profondità dell’organismo. Si può anche dire che la vita organica è la dimensione abissale ed invisibile dell’essere vivente. Essa ha una propria funzionalità autonoma che non sempre si accorda ai dettami dell’organizzazione sensorio – relazionale.
La riflessione di Bichat è interessante da vari punti di vista. Individuando l’esistenza di una duplice organizzazione vitale, il fisiologo finisce per ammettere anche una
paradossale coincidenza tra salute e malattia. Quest’ultima è provocata sia dalla
prevalenza delle forze disgregative esterne che dalla costituzione interna dell’organismo, a causa dell’esistenza di una faglia invisibile (quella, appunto che separa e pone in conflitto vita organica e vita animale). La vita organica dirige quella animale ma è anche indipendente rispetto ad essa. In tal modo la malattia che nasce da cause organiche può mantenersi, per un certo periodo, latente rispetto alla vita animale.
La morte, e non più la malattia, diviene il momento estremo della rivelazione del male: cessando la vita organica inevitabilmente viene meno anche quella animale, mentre, come abbiamo detto, può non avvenire il contrario. Questo per quanto riguarda la spazializzazione interna della malattia. Parlando di modificazione ad
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opera di agenti esterni è fondamentale il concetto di organizzazione. La vita sfugge alla morte fin quando la pressione energetica esterna non prevale sul sistema di organizzazione funzionale del vivente. Ma anche in questo caso, la morte dà significato alla malattia e non viceversa. L’irritazione dell’ambiente esterno sulla spazialità organizzativa del vivente si sviluppa attraverso fasi discontinue di apertura e chiusura. Una forma momentanea di irritazione non dà solitamente luogo alla morte dell’organismo ma ad una contro – reazione che ristabilisce la salute. La morte giunge solo nel momento in cui l’azione di irritazione e di assimilazione non riesce più a mantenere gli standard funzionali dell’organismo a livello auto - organizzativo. Ma (questo è l’aspetto significativo) tale concezione implica che, ad un certo livello, l’irritazione (malattia) costituisca un nucleo di morte che si inserisce in termini funzionali nell’organismo. Ciò significa che non è più la morte che deriva dalla malattia ma questa che si genera da una concezione originariamente e potenzialmente difettiva dell’esistenza. La morte minaccia l’organismo anche in condizioni apparenti di salute. Se la malattia rappresenta in termini latenti la morte che da una parte si inserisce all’interno dell’organismo e dall’altra lo minaccia dall’esterno, bisogna anche ammettere che la vita è fisiologicamente patologica. In quest’ottica, la salute è concepita come potenziale ritrazione della malattia da se stessa o come forma latente del male. Ma, a sua volta, tale concezione può esistere solo se si crede nella duplice faglia interna che distingue la vita in due parti. In altre parole, la duplice
organizzazione delle funzioni vitali fa della malattia una condizione a certi livelli
fisiologica e della vita una realtà potenzialmente patologica. Dunque, da Bichat in poi, la morte diviene il paradossale orizzonte di significazione della vita. Proprio per questo il fisiologo francese può spingersi a definire la malattia come ciò che coesistendo con la vita si genera al proprio interno. Tale interiorizzazione del limite tra vita e morte ha uno specifico statuto di invisibile visibilità. Il male è, infatti, considerato come dimensione interna, invisibile della vita. Nello stesso tempo, però, tale invisibilità è portata alla luce attraverso le tecniche ed i metodi clinici.
Foucault ha sottolineato questo aspetto nell’interessante studio sulla nascita della clinica8 che si inserisce nel solco delle riflessioni dell’archeologia del sapere inaugurato da “Le parole e le cose”. A partire dalla seconda metà del XVIII secolo il sapere medico si impegna nella localizzazione e nell’individuazione dei siti di attacco della malattia. Il male si radica nell’organismo ma si apre anche allo sguardo medico. La dissezione dei cadaveri che costituì la pratica prevalente della medicina clinica del periodo, rese visibile ciò che precedentemente rimaneva invisibile. Ѐ, dunque, dall’alto della pratica clinica che la verità della malattia comincia a divenire visibile e dicibile. Il sapere positivistico delle scienze umane, che si incarna in maniera esemplare nella medicina, diviene criterio di intelligibilità e forma di conoscenza privilegiata della malattia, ma, con essa, della condizione potenzialmente patologica del vivente. La patologia, dunque, rappresenta la forma infinitamente produttiva del sapere positivo che avvicina le cose e le parole e le fa sussistere come realtà infinitamente finite. L’anatomia clinica di Bichat compie un passo decisivo nella formalizzazione epistemologica del sapere sul corpo e sul vivente in generale proprio attraverso la pratica di osservazione medica dei cadaveri. La dissezione,
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infatti, conserte di rendere visibile e, dunque, enunciabile quello scarto patologico che si radica nell’esistenza organica del vivente. La medicina clinica, in tal modo, diviene la forma di sapere in grado di dire la verità sullo statuto vitale dell’uomo. Ciò significa che l’organismo umano è visibile, dicibile, finito nelle proprie componenti costitutive, in ciò che lo anima dall’interno e ne determina la salute o la malattia. La finitudine dell’umano è controbilanciata dall’infinita produttività epistemologica del sapere positivo. Ma la cosa interessante è che lo sguardo medico assume il proprio statuto di verità a partire dalla morte. Ѐ il cadavere che dischiude la conoscenza dell’anatomia umana. In questo contesto appare in maniera ancora più chiara che la vita, anche spazialmente, comincia ad essere definita a partire dalla morte.
Un altro aspetto interessante che emerge in maniera inedita da Bichat in poi è il riferimento al concetto di funzione. Con il passaggio dall’anatomia degli organi a quella dei tessuti, il criterio di classificazione dell’attività fisiologica e della degenerazione patologica si pone a monte, al di sotto delle analogie spaziali o qualitative tra gli organi. La funzione è quell’elemento invisibile ed in localizzabile nello spazio che presiede all’organizzazione ed al funzionamento di differenti apparati di organi. Non si tratta di delineare delle analogie qualitative tra i diversi organi. Le funzioni organiche sono ciò che consente al corpo di mantenere quel sistema di auto – organizzazione da cui si genera la vita.
Non è questo il contesto per addentrarsi nelle implicazioni scientifiche del concetto di funzione. Ciò che ci interessa è che tale dimensione rappresenta l’elemento invisibile che radica la vita nella piega interna del vivente e che nello stesso tempo lo pone in continuità con le altre forme di vita animale. La classificazione funzionale, infatti, consente di individuare delle analogie di funzionamento tra l’organismo umano e quello animale. Rappresenta il ponte che, sconvolgendo le analogie qualitative, accomuna i diversi livelli funzionali del corpo umano con quelli animali. Uomini ed animali cominciano, dunque, ad essere unificati intorno alla comunanza delle loro funzioni organiche. Tali funzioni differiscono solo per gradi o livelli di
organizzazione. Si ha, infatti, una strutturazione gerarchica delle funzioni. In tal
modo, la differenza tra natura umana ed animale ma anche, in un certo qual modo, tra natura organica ed inorganica assume delle caratteristiche quantitative. Ogni vivente si differenzia dall’altro per il grado di organizzazione funzionale raggiunta. Questo aspetto, nell’anatomia fisiologica di Bichat solo accennato, assumerà un’importanza fondamentale nelle classificazioni operate da Curvier (che non a caso è individuato da Foucault come il capostipite del positivismo biologico) fino a rappresentare il nucleo centrale della teoria darwiniana della selezione naturale. Bisogna, infatti, tenere presente il concetto di funzione come elemento invisibile dell’auto – organizzazione del vivente per comprendere la specifica declinazione evoluzionista dell’adattamento ambientale di Lamarck.
Si può anche affermare, tornando alla riflessione foucaultiana, che la funzione rappresenta l’elemento che consente una definizione sintetica di vita. In termini funzionali, infatti, è vita tutto ciò che si cela a livello invisibile dell’organizzazione del vivente, ciò che ne rende possibile l’auto – organizzazione e con essa una strana forma di soggettivazione. La funzione, infatti, come unità sintetica, è ciò che dà identità al vivente, garantendone, in termini di auto – sufficienza organizzativa,
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l’autonomia rispetto alle altre forme di vita. Ma, allo stesso tempo, è ciò che accomuna tutte le forme di vita nella loro infinita finitudine. Il vivente soggetto/oggetto della conoscenza positiva delle scienze umane (in questo caso biologiche) è definito a partire da un’analogia funzionale che percorre interamente lo spettro del visibile e dell’enunciabile. Le condizioni di possibilità della vita umana sono le stesse della vita animale e vegetale. Il limite esterno della vita deve, dunque, essere ricercato nella differenza tra vita organica e vita inorganica. All’interno della vita organica esistono solo differenze quantitative e di grado, non qualitative o di essenza. Abbiamo, dunque, individuato, prendendo spunto dal pensiero di Bichat, lo spazio di estensione della vita intesa, nel sapere biologico – positivista nato a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, come unità sintetica ed invisibilmente finita. Essa presenta due limiti: quello interno, ritagliato a partire dalla differenza tra vita
organica e vita animale e quello esterno, costituito dalla cesura tra mondo organico
ed inorganico. Per cui ciò che rimane escluso dalla definizione biologica di vita taglia a metà il vivente e la natura. Sia nel vivete che nel sistema dei rapporti naturali, infatti, vi è un nucleo che rimane paradossalmente sospeso tra inclusione ed esclusione, tra vita e morte. Si tratta della vita organica del vivente e della sfera
inorganica della natura.
La centralità della categoria di funzione è stata espressa, tra i primi, anche da Georges Curvier. Foucault trae dalla riflessione del biologo francese delle interessanti indicazioni relative ai principî che regolano la strutturazione funzionale del vivente9. Questi sono la coesistenza che fa sì che un organo o sistema di organi non possa esistere isolatamente, la gerarchia che individua differenze di grado nella distribuzione delle funzioni vitali ed il piano d’organizzazione che unifica classi e specie di organismi anche molto differenti tra loro. Con questi principî scompare la tassonomia generale e con essa la possibilità di pensare un ordine naturale che va dall’essere più semplice a quello più complesso. I criteri in base ai quali operava la tassonomia classica erano: forma, numero, disposizione e grandezza. Questi consentivano di rappresentare la vita delle varie specie come inserita all’interno di un continuum. Da Curvier in poi nasce la teoria delle ramificazioni. Questa non ricalca i criteri tassonomici ma inventa un nuovo spazio di identità e di differenze. Si tratta di uno spazio senza continuità essenziali e che si dà nella forma del frazionamento. Secondo Foucault, dunque, si può dire che la biologia del XIX secolo concepisce la natura come organismo vivente e discontinuo. Nel periodo classico, al contrario, la trama ontologica della rappresentazione non consentiva di rappresentare il vuoto o la distanza tra essere ed essere. Da Curvier in poi si spezza tale continuum: i viventi devono raccogliersi intorno a nuclei di coerenza distinti gli uni degli altri. Inoltre, la vita, a differenza dell’essere, non si riflette nello spazio della rappresentazione ma si ritrae nella sua forza inaccessibile. Nella vita una nuova forma di continuità si manifesta non nei confronti delle altre vite ma rispetto a ciò che le consente di vivere. La biologia, dunque, inchioda il vivente alle funzioni ed ai principi che ne influenzano le condizioni d’esistenza. I viventi risultano unificati da quelle condizioni di sopravvivenza che li sottraggono alla morte ed alla dissoluzione. La
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minaccia della morte diviene il principio vitale che unifica uomini, animali e piante e che segna, nelle discontinuità qualitative, una continuità funzionale da cui rimane escluso soltanto il mondo inorganico.
Ѐ evidente il valore biologico che assume il concetto di conservatio vitae. La vita si risolve interante in ciò che le consente di conservarsi, in quella forza vitale che si oppone alla morte. Da ciò nasceranno anche i concetti di lotta per la vita e di selezione del più forte. La natura emerge come una realtà contrassegnata dal conflitto costante, dalla guerra che, non soltanto oppone gli organismi tra loro, ma che si agita anche contro la singola vita. La conservatio vitae è il principio funzionale che unifica il mondo organico ma che, nello stesso tempo, lo pone in conflitto. Ѐ proprio postulando l’inevitabilità del conflitto che oppone i viventi tra loro che il principio conservativo può imporsi come criterio di intelligibilità dei rapporti biologici e sociali. Secondo Foucault la dipendenza della vita dal principio della conservatio inserisce il vivente in una nuova ontologia selvaggia. La biologia, infatti, contribuisce alla costruzione di una temporalità e di una spazialità specifica del vivente che tende ad accomunare l’animale e l’uomo. Lo spazio ed il tempo del vivente si confrontano con una spazialità ed una temporalità infinita che li sovrasta e li eccede. Come abbiano sottolineato facendo riferimento al concetto di origine, l’essere umano si inserisce in una temporalità dominata dai ritmi biologici. Nell’uomo, così come nell’animale, la storicità diviene tempo della vita e si situa nella piega più interna dell’organismo. Allo stesso modo, lo spazio è profondamente vitale in quanto indica il luogo in cui le condizioni di vita dell’organismo si mantengono funzionali alla sopravvivenza. Lo spazio diviene ambiente. Ma se la concezione del tempo e quella dello spazio hanno come unità di misura la finitudine della vita biologica, la condizione organica dell’uomo e quella dell’animale risulteranno unificate dalla minaccia della morte. L’uomo, così come l’animale, è un vivente sospeso tra la vita e la morte è un organismo caratterizzato dalla necessità costante di sfuggire alla morte. Come aveva intuito Bichat, la vita si definisce a partire dalla morte, nello spazio/tempo che si frappone tra organizzazione e disgregazione organica. Ѐ proprio per sottolineare tale continuità con l’animale, l’anatomia di fine Settecento cominciò a distinguere, all’interno dell’uomo, tra una vita vegetativa di base ed una vita relazionale, motoria, intellettiva che ad essa si somma. La differenza tra vita organica e vita animale si pone proprio nel solco di tale unificazione in quanto consente, facendo emergere come elemento differenziale le funzioni vegetative, di isolare e mettere in luce il nucleo di animalità celato nello strato più profondo dell’esistenza umana. Non solo. Facendo emergere la differenza tra funzioni di base della vita e funzioni prettamente umane si giustificò anche l’anteriorità temporale e biologica delle prime rispetto alle seconde. L’uomo è un animale cui è dato l’uso della parola, la capacità di rapportarsi al mondo in maniera indiretta e le facoltà intellettive superiori. La superiorità della vita qualificata rispetto a quella non qualificata che accomuna il non – uomo all’animale (questa ad esempio era la condizione degli schiavi nel mondo greco e romano) è ribaltata a favore di una nuova evidenza biologica: la vita è definibile come quel fondo inaccessibile che unifica uomini ed animali e li distanzia dalla morte. Se è vero, dunque, che la differenza tra umanità ed animalità è sempre stata presente nella condizione umana,
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mai era stata esaltata come orizzonte di significazione della vita politicamente qualificata. Al contrario, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, il presupposto biologico che pone lo statuto di animalità nella condizione vitale dell’uomo diviene verità positiva. L’animalità è il limite dell’umano, ciò che conserte all’uomo di prendere le distanze dalla morte e conservarsi in vita.
La continuità uomo – animale fu esplicata anche da una particolare rielaborazione ambientalista della teoria dell’ininterrotta catena dell’essere. Nella prima metà dell’Ottocento fu J. B. Lamarck a sviluppare tale idea. Nella sua più importante opera “Philosophie zoologique”10, il biologo francese unì l’idea creazionista della catena dell’essere e le recenti acquisizioni positivistico – scientifiche relative al concetto di organizzazione funzionale della vita. Egli riteneva, infatti, che i processi vitali potessero essere distinti dagli altri fenomeni naturali grazie ai concetti di
organizzazione ed articolazione interna. Il livello di articolazione interna, infatti, è
indice del grado di vitalità del vivente. Dunque, più il vivente risulta organizzato rispetto all’articolazione interna che lo contraddistingue, più è perfetto. I viventi, inoltre, in base al livello di perfezione che raggiungono, sono collocati all’interno di una catena evolutiva chiusa. Ciò significa che, secondo Lamarck, l’evoluzione delle varie forme viventi si articola in un continuum caratterizzato da un limite inferiore e da uno superiore, rappresentati rispettivamente dalla forma di vita più semplice e da quella più complessa. Per il biologo, infatti, la catena dell’essere rappresenta ancora il progetto derivante dalla volontà divina, esplicata in forma finita nella natura. I gradini ascendenti della catena vanno dalla forma semplice da cui tutte le altre forme deriverebbero, l’infusore, alla forma più complessa, l’uomo. Si tratta di un gradualismo che riflette la lenta trasformazione delle forme organiche. L’autore non attribuisce delle caratteristiche naturali alle classificazioni che raggruppano le forme viventi nella dimensione della specie. Questa ha esclusivamente un valore nominale e rappresenta uno strumento euristico con cui organizzare il sapere.
Al contrario, con la teoria dell’evoluzione di Darwin la categoria di specie assumerà