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Autonomia ed autopoiesi: dogmi antropologici della modernità

1.Ordine del discorso antropologico: vita, organismo sociale, lavoro

2.2 Autonomia ed autopoiesi: dogmi antropologici della modernità

Vorrei provare ad allargare il discorso foucaultiano ad un’analisi trasversale delle tre

Critiche per approfondire il concetto di volontà e vedere come si intreccia con la

dimensione emergente della libertà. Quest’ultima rappresenta, nel pensiero critico di Kant, il presupposto di quello che definirei un vero e proprio dogma della modernità: l’autonomia dell’uomo. Vedremo, infatti, come il paradigma dell’autonomia si

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colleghi strettamente alla costruzione antropologica e sia la chiave di lettura principale a partire dalla quale si può comprendere il nesso tra ragione e volontà. Quando Foucault faceva riferimento a quel limite che spinge l’uomo a superare la propria finitudine, invitava i lettori a considerare lo sforzo infinito di superamento del finito come una dimensione che va ricercata nell’altro da sé e nell’altro in sé. É, dunque, nel rapporto tra identità ed alterità e nella tematica dello scavo interiore dell’individuo che va posta la questione del limite antropologico. Ma tale problematica chiama in causa una specifica definizione dell’uomo che non può essere compresa se si prescinde dall’importante ruolo che la libertà ha assunto nel pensiero dei classici e che riguarda strettamente le condizioni ed il limiti dell’agire volontario. Il concetto di libertà si intreccia con quello di volontà, non soltanto nel pensiero di Kant ma in molti filosofi che si cimentano nella fondazione dell’antropologia alle soglie dell’epoca moderna. E ciò riguarda, come abbiamo detto, non soltanto l’uomo preso nella sua singolarità o genericità antropologica, ma le condizioni dell’agire interindividuale.

Emerge in questo contesto l’importante distinzione kantiana tra libertà positiva e

libertà negativa che confluirà, successivamente, nella differenza tra libertà di e libertà da. Vedremo che il concetto di libertà positiva definisce una condizione

antropologica paradossale e dogmatica, nella quale l’agire libero è inteso, in termini etici, come un presupposto dato per vero ma non ulteriormente spiegabile o spiegabile solo con se stesso. Si profila il problema dell’autoreferenzialità e della costitutiva paradossalità del concetto positivo di libertà a fronte della quale verrà considerato fondativo il presupposto negativo dell’agire libero. Dunque, il rapporto tra identità ed alterità verrà inquadrato in una dimensione antropologica connotata da una libertà essenzialmente negativa. Se, dunque, l’autonomia diviene il dogma etico dell’uomo moderno, la libertà si configura in termini intersoggettivi solo come una

libertà da. Essere liberi sul piano dell’agire morale significa, dunque, non invadere la

sfera dell’altro e non lasciarsi, a propria volta, invadere, significa garantire l’inviolabilità di un nucleo di libertà definito come autonomia. La definizione negativa della libertà, infatti, implica che di un certo agire morale non si possa dare una conoscenza profonda ed una spiegazione; la libertà è un dogma proprio perché non può essere conosciuta ma solo pensata. Come vedremo, infatti, il concetto di autonomia - che non coincide precisamente con la libertà ma implica l’interrelazione tra questa e la volontà – presenta una macchia cieca, un nucleo non ulteriormente scomponibile nell’ambito del pensiero critico.

L’autonomia rappresenta una soglia interna al concetto di volontà. Per comprendere questo punto è necessario dire che Kant si oppone ad una concezione eteronoma

della volontà. Tale eteronomia discende o dall’alto, identificandosi con la volontà di

Dio, oppure dal basso, corrispondendo alle affezioni sensibili e trasformando il volere in un desiderio condizionato dalle inclinazioni soggettive e dalle passioni. Si tratta di quelle che Kant chiama dimensioni teologica e patologica della volontà. Rispetto a queste concezioni che fanno dipendere la volontà da forze superiori o fenomeniche dell’agire, l’autonomia è quella proprietà della volontà per cui essa è

legge a se stessa. Ciò significa che la volontà autonoma non si basa più sul concetto

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degli oggetti del volere. Dio, infatti, diviene ora un puro postulato della libertà, non il proprio fondamento.

L’autonomo volere dell’uomo, al contrario, assume il nome di “ragion pura pratica”. Come Kant specifica nell’introduzione alla “Critica della ragion pratica”, la libertà del volere umano è proprio il fondamento etico che fa sì che la ragion pura sia pratica33. Se, infatti, la critica della ragione teoretica si applicava solo alla facoltà conoscitiva e, dunque, riguardava la facoltà pura della coscienza che si portava dietro oggetti inaccessibili o contraddittori, nell’uso pratico la ragione si applica alla

volontà che è intesa come “facoltà o di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni, oppure di determinare se stessa, cioè la propria causalità all’attuazione di essi”34. In quest’ultimo caso, la volontà coincide con la ragione. Ora il problema principale messo in luce da Kant è se la sola ragion pura possa bastare a determinare la volontà a partire dai condizionamenti empirici o se questa si possa strutturare solo in termini pratici, cioè ponendosi all’interno di una causalità non empirica propria. Il problema riguarda la possibilità di individuare un concetto di causalità non esauribile dai fenomeni empirici che possa essere giustificato con la ragion pura pratica. Tale causalità che discende solo da se stessa è la libertà che appartiene alla volontà umana. Dunque, se la ragion pura non fosse pratica non potrebbe essere indagata in senso critico. La critica della ragion pratica deve distogliere la ragion pura, indagabile solo a livello empirico, dallo strutturarsi come esclusivo orizzonte della libertà. In tal caso, infatti, la libertà sarebbe sempre e comunque condizionata in termini eteronomi. Al contrario, la ragion pura pratica consente la riflessione critica sull’autonomia della volontà in quanto pone nella libertà del volere autonomo la causa determinante se stessa. Dunque, superando i limiti della ragion pura che implicava un concetto eteronomo di volontà, l’uso pratico della ragione definisce la possibilità di concepire una volontà autonoma, cioè libera. Ma come si evince dalla definizione di volontà più sopra citata, essa è la facoltà “o di

produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni” o di “determinare se stessa”.

Solo in quest’ultimo caso la volontà può considerarsi interamente libera, in quanto non soggiace al dominio delle singole volizioni o inclinazioni individuali. I principi pratici che contengono la volontà universale, infatti, possono essere di due tipi:

massime, ovvero principi soggettivi o leggi, cioè principi oggettivi. I primi

discendono da una determinazione della volontà dei singoli; i secondi, invece, riguardano la volontà di tutti gli esseri razionali. Inoltre, tutti i principi pratici che presuppongono un oggetto o un contenuto specifico (materia) della volizione non possono essere delle leggi ma sono delle massime, dunque, valevoli solo a livello soggettivo. Ciò che definisce le leggi morali riguarda la forma dell’imperativo, in alcun modo la propria materia specifica. Questa può essere soggetta esclusivamente ad una logica eudemonistica che, discendendo dalle determinazioni desideranti e fenomeniche degli individui, non può avere l’universalità formale della volontà oggettiva ed autonoma. L’unico principio che può dominare in ambito morale è la volontà astratta nel suo puro volere, ossia la proprietà della volontà di determinare

se stessa. Dalla legge che fa della volontà astratta e formale il presupposto della

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Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra, Laterza, Roma – Bari, 2006.

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libertà e dell’autonomia discende l’imperativo categorico che consiste proprio nel comando etico relativo alla determinazione di quell’autonomia.

Per comprendere la tautologia che sta alla base del concetto di autonomia è necessario richiamare l’imperativo categorico che, nella formulazione unica espressa nella “Critica della ragion pratica” suona così: “Opera in modo che la massima

della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale” 35. L’imperativo categorico, dunque, si presenta come un criterio morale che debba avere per ognuno valore universale, cioè che si proponga come universalmente valido.

Kant sostiene che nell’uomo, a differenza di altri enti razionali come Dio, l’imperativo categorico si presenta nella forma di una legge morale. È qui posta la differenza tra una volontà morale ed una volontà santa. La santità non può essere riferita all’uomo, in quanto, essendo egli inserito all’interno del mondo fenomenico e dovendo soggiacere ad una causalità empirica, in lui l’imperativo morale si presenta, comunque, innervato di un contenuto empirico, che riguarda la materia delle singole volizioni individuali. L’uomo può cercare, entro la forma etica della volontà, di ridurre al massimo la componente empirica che lo caratterizza e nel quale è immerso ma non ne può prescindere completamente. Da ciò le contraddizioni di una volontà umana che si configura come morale ma che deve fare i conti con le leggi della causalità naturale, fisica, fenomenica che la costituisce ed influenza.

Nell’uomo la legge ha la forma di un imperativo, perché in esso, a dire il vero, come essere razionale, si può bensì supporre una volontà pura, ma, in quanto essere soggetto a bisogni ed a cause determinati sensibili, non si può supporre una volontà santa, cioè tale che non sarebbe capace di alcuna massima contraria alla legge morale. Per quegli esseri la legge morale e dunque un imperativo che comanda categoricamente, perché la legge è incondizionata. La relazione di una tale volontà a questa legge è dipendenza, e ha nome di obbligo, che significa un costringimento all’azione, benché mediante la semplice ragione e la legge oggettiva di questa. La quale azione perciò si chiama dovere, perché un libero arbitrio affetto patologicamente, implica un desiderio che deriva da cause soggettive, e quindi può anche spesso essere contrario al motivo determinante oggettivo puro, e perciò abbisogna, come di costringi mento morale, di un’opposizione della ragion pratica, che può essere chiamata un costringimento interno, ma intellettuale36.

Se l’uomo non può essere santo, santa è, invece, la volontà, in quanto si pone al di sopra di tutte le leggi praticamente restrittive, quindi, al di sopra dell’obbligo e del dovere. Kant sostiene esplicitamente che all’interno della ragion pura pratica la

volontà santa assume le funzioni di un prototipo alla quale tendono, senza mai

raggiungerne la santità, tutti gli esseri razionali e finiti, come l’uomo. All’uomo non resta, dunque, che tendere all’infinito verso la volontà santa ed approssimarsi sempre di più, ma infinitamente, ad essa. In questo contesto, la virtù rappresenta la tensione massima, il progresso costante delle massime individuali verso la volontà universale, espressa nella legge dell’imperativo categorico.

Si può, dunque, comprendere la dimensione profondamente paradossale che la volontà libera assume nell’uomo. La libertà che è, dunque, data dall’agire libero da

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I. Kant, Critica della ragion pratica, op. cit., p. 65.

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qualsiasi determinazione, valevole per se stesso, dell’imperativo categorico nella forma della ragion pura pratica entra in contrasto con la tensione alla perfettibilità morale dell’uomo che si fonda, come tale, sull’obbligazione e sul dovere. La forma pura della volontà libera è, dunque, quella che si identifica con l’agire imperativo e categorico. Infatti, a differenza dell’agire ipotetico, l’agire categorico è mosso dalla

pura intenzionalità senza scopo. Ma, come abbiamo visto, nell’uomo si può parlare

solo di un’approssimazione all’imperativo, essendo l’orizzonte dell’agire umano, in ambito morale, orientato, anche se in minima parte, da fini soggettivi e dall’aspirazione al raggiungimento della felicita. In questi termini, la volontà rappresenta quella dimensione intermedia che realizza formalmente la determinazione soggettiva, dunque, anche fenomenica, dell’imperativo categorico. Ma ciò implica anche che la libertà nell’uomo si strutturi nella forma del dovere e questo, a sua volta, crea le condizioni affinché l’uomo si possa appropriare della propria libertà. La volontà corrisponde a quel factum, cioè a quel nudo fatto che consente all’uomo di divenire ciò che è, cioè un essere caratterizzato dalla forma

vuota della libertà.

Ma ciò significa anche che l’uomo può in quanto deve e deve in quanto può. La volontà è l’origine dell’agire pratico orientato moralmente ma è anche la conseguenza, cioè il punto d’arrivo a cui deve tendere ogni massima soggettiva. La volontà rende la ragione libera un agire morale che segue la pura forma dell’imperativo categorico. Questo significa che il volere dell’uomo, e con esso il fondamento del proprio agire morale, è libero in quanto caratterizzato dal dovere, dall’obbligazione formale, imperativa, della legge che non è vincolata ad alcuna materia o contenuto specifico. Contrariamente, infatti, gli uomini sarebbero mossi solo dalla prudenza che tende a realizzare l’obiettivo della felicità ma che, nonostante possa prefiggersi scopi generali, in alcun modo contiene quell’universalità formale presente nell’imperativo categorico. Dice Kant:

La massima dell’amor proprio (prudenza) consiglia soltanto, la legge della moralità comanda. Ma vi è una gran differenza tra ciò che è consigliato e ciò a cui siamo obbligati. Ciò che sia da fare secondo il principio dell’autonomia del libero arbitrio, l’intelletto più volgare lo vede facilmente e senza alcun dubbio; ciò che sia da fare con la supposizione dell’eteronomia di esso, è difficile e richiede la cognizione del mondo; cioè, che cosa sia dovere si presenta da sé a ciascuno: ma che cosa apporti un vantaggio vero e duraturo, è sempre, se questo vantaggio deve essere esteso all’intera esistenza, avvolto in un’oscurità impenetrabile, e richiede molta prudenza per conformare la regola pratica così determinata, anche solo in modo sopportabile, mediante adatte eccezioni, ai fini della vita. Tuttavia la legge morale comanda a ciascuno l’osservanza, e invero l’osservanza più esatta. Quindi il giudicare ciò che secondo questa legge è da fare, non dev’essere così difficile che l’intelletto più volgare e meno esercitato non sappia cavarsela anche senza alcuna esperienza del mondo37.

Così, anche la libertà discende dall’agire morale che è un agire conforme all’imperativo categorico nella forma dell’obbligazione. Essa è intesa, però, nella sfera morale come libertà negativa. Kant, infatti, chiarisce la differenza tra libertà

positiva e libertà negativa. Mentre la prima è la legislazione propria della ragion

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pura pratica e come tale riguarda la forma noumenica della legge morale, la libertà negativa, invece, è alla base della moralità come principio pratico che “consiste

nell’indipendenza da ogni materia della legge (ossia da ogni oggetto desiderato), e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale di cui una massima dev’essere capace”38. La libertà negativa, quindi, coincide direttamente con l’indipendenza, con l’autonomia, con la capacità della volontà di eccedere sempre qualsiasi oggetto del desiderio. È la legge dell’autonomia della forma dalla sua materia, della pura forma legislativa universale priva di contenuto. Si comprende, dunque, che l’autonomia, da una parte è libertà negativa, dall’altra è libertà positiva inaccessibile in campo morale. In quest’ultimo caso, è forma della forma, è pura legge di se stessa.

L’uomo si pone come termine terzo tra le forme di una causalità fine a se stessa originata dalla libertà positiva e quelle di una causalità naturale che può assumere la sola accezione di libertà negativa. É evidente che questa condizione è ammissibile solo se si considera l’uomo come libero, da una parte, e, sottomesso, dall’altra. Il dogma dell’autonomia si pone nei seguenti termini: “tu devi, quindi tu puoi”, che è anche l’idea dell’oggettività della libertà negativa che racchiude in sé l’indimostrabilità pratica della libertà positiva. Ma è proprio postulando l’esistenza di due forme di causalità differenti, quella pura della legge universale e quella fenomenica della natura, che si giunge ad una contraddizione logica. Infatti, se è vero che la volontà autonoma sulla quale si basa la prima forma di causalità è indipendente dall’eteronomia della seconda, è anche vero che la ragion pura è accessibile alla coscienza solo come pratica. La sua conoscenza è possibile per l’uomo solo tramite l’intuizione, cioè rapportandosi al mondo sensibile. In tal modo, la volontà libera, che è causa noumenon si rapporta all’intuizione che è possibile solo fenomenicamente. Dunque, per scongiurare il pericolo di cadere in un paradosso logico, Kant è costretto ad ammette che benché la causa noumenon sia possibile e pensabile rappresenti anche un concetto vuoto. Il filosofo, in questo caso, parte dal presupposto che l’Io non desideri conoscere teoreticamente la natura di un essere in quanto volontà pura ma basti indicarla come concetto. In tal modo, ciò che nella ragion teoretica è vuoto ma possibile, nella legge morale è reale, espresso nell’intuizione tramite il ricorso alle massime soggettive.

Il concetto di una causalità empiricamente incondizionata è bensì vuoto (senza un’intuizione appropriata), ma pure è sempre possibile, e si riferisce ad un oggetto indeterminato; nella legge morale invece, e quindi nel rapporto pratico, gli vien dato un significato; e così io non ne ho alcuna intuizione, che ne determini la realtà oggettiva teoretica, ma esso ha nondimeno un’applicazione reale, che si manifesta in concreto nelle intensioni, ossia nelle massime: che cioè ha una realtà pratica che può essere indicata; il che poi è sufficiente a giustificarlo anche riguardo ai noumeni39.

Dunque, la causalità interna della ragione non si può conoscere nella sua essenza ma solo pensare. Essa è fine o scopo di se stessa e come tale non può mai essere pienamente realizzata ma resta da conseguire, da attuare. La modernità si impone

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I. Kant, Critica della ragion pratica, op. cit., p. 71.

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come un compito o un progetto che ha nella forma vuota della ragione e della volontà il proprio fulcro e nei concetti negativi di libertà ed autonomia la propria promessa di realizzazione pratica.

Il costitutivo paradosso presente nella relazione tra causa fenomenon e causa

noumenon può essere riassunto nella dialettica tra l’uomo in quanto essere naturale e

la sua umanità. Quel fatto vuoto che si identifica con l’autonomia della volontà e del puro pensiero è l’espressione della ragione che accomuna tutti gli uomini non in quanto soggetti determinati e singolari ma in quanto forma e legge universale di se stessi. La modernità fa della ragione esaltata dagli illuministi il factum puro dell’umanità, cioè la forma universale, intesa come pensiero e volontà. L’identificazione della causa noumenon con l’umanità è assolutamente giustificabile se si pensa alla seconda formulazione dell’imperativo categorico presente nella “Fondazione della metafisica dei costumi” e sussunta nella forma unica della “Critica della ragion pratica”: “l’umanità come fine in sé”. Ma a partire da questo assunto il paradosso prima esplicitato assume dei toni ancora più oscuri. Infatti, l’uomo vive in se stesso il limite. Egli è pensabile come causa noumenon ed inconoscibile come causa fenomenon, se ci si pone nella sfera della ragione teoretica; viceversa, è impensabile come noumeno pur essendo conoscibile come fenomeno, se ci si pone nel contesto della ragion pura pratica. Ciò equivale a dire che la volontà pura che l’uomo sperimenta come forma universale della propria umanità gli può essere restituita sul piano fenomenico solo nella forma di una conoscibilità empirica che presuppone, però, un’impensabilità metafisica.

Di conseguenza anche la libertà subirà l’influsso di tale inconoscibilità. Ciò che sul piano teoretico abbiamo definito un dogma (pensabilità ed inconoscibilità) nell’ambito della causalità naturale assume dei connotati conoscibili ma impensabili nella forma pura della legge. In questi due aspetti si può riassumere la differenza tra

libertà positiva o libertà di, che presenta un contenuto dogmatico nella sfera morale

e la libertà negativa o libertà da che presenta un contenuto empirico ma privativo. La sfera della morale, come dimensione tipicamente umana, deve mediare tra queste due forme di libertà, quella positiva inconoscibile all’uomo e quella negativa, impensabile nella propria universalità e purezza. In base a queste due accezioni della libertà anche il concetto di autonomia assume una connotazione positiva o negativa.