• Non ci sono risultati.

La “natura” della natura umana

1.Ordine del discorso antropologico: vita, organismo sociale, lavoro

2.1 La “natura” della natura umana

Nel 1971 ad Eindhoven, in Olanda, si svolse un dibattito televisivo tra M. Foucault e N. Chomsky sulla tematica della natura umana. Il dibattito, presentato ad un uditorio per lo più non specialistico, riscosse un grande interesse, tanto che la trascrizione integrale del testo fu reso disponibile e pubblicato per la prima volta nel 1974 da F. Elders (che fu anche moderatore del dibattito) con il titolo “Human natur: justice

versus power” (poi tradotto e diffuso nella versione francese da Gallimard con il

titolo: “De la nature humaine: justice contre pouvoir) 1. Ciò che rende tale dibattito interessante è l’emergere di due posizioni differenti sulla tematica presa in considerazione. Secondo Chomsky la natura umana consiste in un insieme di principi organizzativi innati a partire dai quali si ricava una conoscenza complessa da dati estremamente semplici. Al contrario, Foucault la interpreta come un indicatore

epistemologico che fa riferimento ad uno specifico ordine del discorso, storicamente

e geograficamente connotato, variabile e non identificabile con alcuna struttura innata presente nell’uomo. Prescindendo dai dettagli tematici che fanno da sfondo a tale dibattito, ciò che emerge nella prospettiva foucaultiana è l’interesse, già manifestato nel decennio precedente, per una riflessione sulle caratteristiche ed i limiti della conoscenza antropologica. Questa, infatti, pur inserendosi compiutamente nel progetto archeologico de “Le parole e le cose” aveva già assunto una specifica rilevanza epistemologica nelle opere precedenti come la “Storia della follia2” e la “Nascita della clinica3”. Ma la riflessione che scaturisce dalla domanda: “Che cos’è

l’uomo?” è contenuta in un altro interessante scritto che costituì la tesi

complementare dell’autore e che si presenta come introduzione critica all’ “Antropologia dal punto di vista pragmatico” di Kant4.

Proverò, dunque, a seguire il dibattito sul concetto di natura umana nello scritto sull’antropologia pragmatica kantiana al fine di individuare il punto di intersezione tra la riflessione epistemologica e quella antropologica. L’aspetto più interessante è legato alla possibilità di individuare nella costruzione dell’ordine del discorso antropologico la duplice e paradossale tematica della natura umana, sottesa tra

finitudine positivistico – scientifica e trascendenza metafisica. Come accennavo nel

capitolo precedente, infatti, il punto di vista antropologico ha come nucleo tematico fondamentale lo statuto infinitamente finito dell’uomo. Lo statuto epistemologico che l’antropos umano assume nelle scienze biologiche, economiche e linguistiche rappresenta solo uno dei lati della medaglia. L’antropologia non ha le proprie radici semplicemente in una forma di conoscenza che affida alla positività del sapere la prerogativa di dire che cos’è l’uomo e come si struttura nel ordine del discorso che lo produce come soggetto delle proprie oggettivazioni e come oggetto della conoscenza.

1

Cfr. N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, trad. it. di I. Bussoni e M. Mazzeo, Derive Approdi, Roma, 2005.

2

Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano, 2008.

3

Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica, op. cit.

4

Cfr. M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di

84

L’antropologia moderna è anche una metafisica vitalista e desiderante che pone la vita ed il lavoro come condizioni esistenziali del soggetto/oggetto di conoscenza uomo.

Tuttavia bisogna sottolineare, come a più riprese fa Foucault, che tale metafisica non assume le forme della trascendenza che facevano parte dell’ordine del discorso classico. La modernità rappresenta la soglia epistemica di un sapere che potremmo definire, al contempo, empirico e trascendentale5. Ed è proprio nel contesto del trascendentale kantiano che deve essere ricercata la radice di una nuova forma di interrogazione sulla natura umana. In tal senso, il vitalismo desiderante o – come vedremo – volontaristico si radica in un ordine del discorso che abbandona il terreno dell’ontologia dell’essere e si pone nell’ambito di una riflessione critica sui limiti

della conoscenza umana. E questa tematica si intreccia strettamente con

l’archeologia delle scienze umane in quanto il concetto di natura umana racchiude in sé il senso di quella domanda lasciata parzialmente aperta da “Le parole e le cose” e relativa al significato da attribuire al celebre annuncio foucaultiano della morte

dell’uomo. Se, come sembra chiaro, dietro questa tematica si pone l’intento di aprire

una riflessione sui limiti della filosofia, tale impresa sembra assolutamente coerente con la traiettoria delineata già a partire dai primi scritti e relativa alla problematizzazione del concetto di natura umana. Se, inoltre, nella postfazione all’opera del 1961 G. Canguihem si esprime a favore di un’interpretazione della tematica della morte dell’uomo come riflessione sulla conoscenza moderna nella forma dell’estinzione del cogito6, appare chiaro che il fondamento della tesi foucaultiana va radicato in un’interrogazione sui limiti della conoscenza dell’uomo e sull’uomo. L’antropologia diverrà, dunque, forma di conoscenza dell’uomo posto su questo limite, scavato tra empiricità positiva e metafisica. Ciò conduce a non considerare la natura umana e la vita come semplici “dati scientifici”, radicati nelle strutture innate della fisica umana. Essi devono, invece, essere interpretati come indicatori epistemici, cioè come meta – concetti scientifici, fondamentali per delineare, delimitare e situare il discorso biologico. Al centro di questa epistemologia sta una concezione sintetica che è condizione di possibilità di una metafisica della

vita e di una scienza della vita. L’aspetto che li unifica è lo statuto infinitamente

finito dell’umano. É, dunque, nella “natura” dell’allotropo empirico trascendentale e nelle forme di conoscenza che lo pongono limitandolo che va cercata la “natura” della natura umana.

Il testo dell’Antropologia pragmatica fu pubblicato nel 1797. Una nota della

Prefazione, però, avverte che i contributi teorici confluiti in questo progetto furono il

risultato di una lunga serie di lezioni universitarie tenute da Kant nell’arco di quasi trent’anni (a partire dal 1772 /1773). Da questa constatazione parte l’analisi di Foucault che va alla ricerca di continuità e discontinuità tra le tematiche riunificate in questo testo e le tesi che compongono la riflessione pre – critica e critica7. Nello

5

Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit.

6

Cfr. G. Canguilhem, Morte dell’uomo o estinzione del cogito?, in M. Foucault, Le parole e le cose.

Un’archeologia delle scienze umane, op. cit.

7

Cfr. M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di

85

specifico Foucault si chiede se l’impresa critica di Kant, concentrata nel ventennio che va dalla Dissertazione del 1770 alla Critica della facoltà di giudizio del 1791, si modifica o presenta dei riferimenti alla concezione antropologica sviluppata nel periodo precritico. Il filosofo francese si domanda, dunque, quali mutamenti o continuità possono aver caratterizzato la riflessione kantiana sull’uomo, dato che le tesi sviluppate compiutamente nell’Antropologia attraversano, contenendola, l’epoca delle tre critiche, pur essendo pubblicate a conclusione del percorso filosofico dell’autore. La tesi foucaultiana fa riferimento all’esistenza di una specifica immagine dell’uomo che guiderebbe, come un sottile filo conduttore, la filosofia kantiana. Foucault restituisce centralità alle tesi antropologiche di Kant, spesso considerate di secondaria importanza. E ciò non semplicemente rivalutando i contenuti dei testi che fanno parte dell’Antropologia ma sviluppando un’analisi che includa l’intero arco della riflessione teorica dell’autore, valutandone non solo le continuità ma anche le discontinuità. L’Antropologia pragmatica, peraltro, nonostante sia costituita per lo più da materiali tratti dall’osservazione empirica, non ha nulla di “scientifico”. Essa, infatti, non tratta dell’animale – uomo dal punto di vista fisico ed organico ma come “cittadino del mondo” (Weltbϋrger). Kant, dunque, non propone un’immagine naturalistico – organica della natura umana ma vuole indicare, al contrario, ciò che l’uomo “può e deve fare di se stesso”, cogliendolo nella sintesi dei legami che definiscono la sua appartenenza al mondo.

Ciò detto, bisogna, tuttavia, specificare che tale immagine dell’uomo come “cittadino

del mondo”, pur essendo premessa alla riflessione antropologica kantiana, rimane

sullo sfondo. La tematica centrale del testo, infatti, non fa diretto riferimento alla dimensione cosmopolitica dell’uomo ma alla condizione interiore del suo “animo” (Gemϋt). Foucault si chiede in che senso il Gemϋt permette una conoscenza dell’uomo come “cittadino del mondo”. Tale domanda presuppone un’altra questione: la determinazione del posto che la condizione interiore dell’ “animo” ha nella Psicologia empirica contenuta nella “Critica della ragion pura”. In altre parole, si chiede Foucault, perché l’indagine sull’interiorità umana non conduce Kant a parlare il linguaggio della Psicologia ma quello dell’Antropologia ed in cosa la ricerca sui sostrati organici che supportano le facoltà intellettuali dell’uomo si discosta dalla riflessione sui limiti della ragione?

Si potrebbe dire, in primo luogo, che esistono discontinuità e differenze tra l’oggetto dell’Antropologia e quello della Psicologia. Quest’ultima, infatti, prende in considerazione la Seele (anima) non il Gemϋt (in linea con la concezione di anima presente nella “Critica della ragion pura”). Ma esistono anche delle differenze, sia formali che sostanziali, tra l’oggetto trattato dalla Psicologia e quello contenuto ed analizzato nella “Critica”.

Per quanto riguarda la dimensione formale, la Psicologia, contraddicendo l’impianto generale della Critica, postula la coincidenza di senso interno e di appercezione. Ma nella filosofia critica kantiana l’appercezione è una delle forme della conoscenza pura, priva di contenuto e definita esclusivamente dall’Io penso, mentre il senso

interno indica un modo della conoscenza fenomenica che struttura l’individuo come

insieme di fenomeni empirici unificati nella condizione soggettiva del tempo. Dal punto di vista sostanziale, la Psicologia è influenzata dall’interrogazione sul

86

mutamento e sull’identità, in quanto si chiede se le condizioni dell’esperienza e le determinazioni temporali possano riguardare l’anima.

In altre parole, la Psicologia mantiene aperto l’interrogativo riguardante la natura dell’anima, se essa, cioè, debba essere considerata come nozione metafisica di una sostanza semplice ed immateriale o come l’insieme di fenomeni che appaiono al senso interno. Foucault ritiene che nell’impianto filosofico kantiano la risposta a tale domanda non sia di pertinenza della Psicologia ma dell’Antropologia e ciò in quanto tra le due discipline esiste una differenza fondamentale nel modo di concepire l’oggetto in discussione. Questo a, sua volta, può essere differenziato solo ricorrendo al Geist (spirito). Nell’Antropologia tale termine è definito come “il principio

animatore dell’essere umano”8. Tale spirito può essere risvegliato nell’uomo “durch

Ideen”, cioè mediante le idee. Per questo Kant potrà compiutamente definire lo

spirito come “il principio che vivifica l’anima mediante idee”9.

Lo spirito è definito come un “principio”, cioè come qualcosa che non è né una

facoltà né una forza e non può essere interpretato come un principio regolativo o determinante. Per comprendere la natura del Geist bisogna, al contrario, prestare

attenzione a quel principio di “vivificazione” che, come afferma Foucault, apparenta lo spirito con la vita. L’Antropologia su questo punto non dà alcuna indicazione specifica; tuttavia il principio vivificante può essere interpretato facendo riferimento alla mediazione delle idee. Se il Geist, a differenza del Gemϋt, rappresenta un concetto necessario della ragione che non ha nei sensi alcun oggetto corrispondente, come può dar vita allo spirito vivificante?

Bisogna prendere in considerazione il ruolo che le idee hanno nell’organizzazione della vita concreta della mente. Infatti, l’idea, liberata dall’uso trascendentale e dalle illusioni che fa nascere, trova il suo compimento nell’esperienza, in quanto anticipa uno schema non costitutivo che guida la conoscenza fenomenica, indicandone la possibilità ma anche il limite, cioè mostrando in che modo può essere ricercata la conoscenza empirica ma individuando in questa anche il limite stesso del conosciuto. Ciò significa, afferma Foucault, che il limite dell’universo è aldilà del finito, inaccessibile alla conoscenza nella forma di una ricerca infinita:

l’idea (…) fa entrare lo spirito nella mobilità dell’infinito, attribuendogli incessantemente movimento “per procedere oltre” , senza smarrirlo nell’insormontabile della dispersione. Pertanto la ragione empirica non riposa mai sul dato; e l’idea, legandola all’infinito che essa le rifiuta, la fa vivere nell’elemento del possibile. Ѐ questa dunque la funzione del Geist: non organizzare il Gemϋt così da farne un essere vivente, o l’analogo della vita organica, o ancora dell’Assoluto stesso, ma vivificarlo, far nascere nella passività del Gemϋt, che è quella della determinazione empirica, il movimento brulicante delle idee – strutture multiple di una totalità in divenire, che si fanno e si disfanno come altrettante vite parziali che vivono e muoiono nello spirito10.

8

M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista

pragmatico, op. cit., p.42.

9

Ibidem.

10

87

Ciò fa del Gemϋt non solo ciò che è ma “ciò che esso fa di se stesso”11. Dunque, il

Gemϋt deve fare di se stesso un uso empirico della ragione attraverso la mediazione

delle idee. Questo aspetto, distingue la Psicologia dall’Antropologia ma risponde anche al problema della complessa collocazione di questa rispetto alla Critica. Infatti, la funzione trascendentale che le idee hanno nella Critica si riflette, ma nello stesso tempo è il riflesso, del movimento del Gemϋt nell’Antropologia. Ciò porta con sé due importanti conseguenze, messe in luce da Foucault:

1. L’Antropologia è possibile solo a partire da una concettualizzazione del Gemϋt

non passiva, che sia animata dallo spirito (Geist) delle idee. Il Geist, dunque, rappresenta il principio, nel Gemϋt, di quella che Foucault definisce “una dialettica

de – dialettizzata”12, non trascendentale rivolta ai fenomeni. Il “Geist apre al Gemϋt

la libertà del possibile, lo strappa alle sue determinazioni e gli dona un avvenire che deve solo a se stesso”13.

2. Il Geist assume un ruolo importante nella struttura del pensiero kantiano, rappresentando l’origine non sradicabile delle illusioni trascendentali o il principio del movimento nel campo dell’empirico. Il Geist rappresenterebbe, dunque, l’origine mai presente, l’infinito che anima il movimento nell’inesauribile successione delle forme empiriche. Tale movimento è la “radice della possibilità di sapere”14 e per questo è sia presente che assente dalle figure della conoscenza. Foucault sostiene che “il suo essere è di non essere presente”15, definendo in questo modo il movimento della verità.

Ma tale interrogazione coincide anche con la domanda “Che cos’è l’uomo” che si sviluppa nell’Opus postumus (1800/1801). Ѐ in quest’opera, infatti, che Kant si pone in maniera diretta l’interrogativo: «Was ist der Mensch» («Che cos’è l’uomo»)? La risposta a tale domanda emerge dalla tripartizione del sistema di filosofia trascendentale in tre sezioni: Dio, il mondo e l’uomo al quale è connessa la tripartizione che riguarda le fonti, l’ambito ed i confini della ragione umana. Dio, essendo libertà assoluta, è fonte rispetto all’uomo ed al mondo; il mondo, in quanto totalità delle cose dell’esperienza, è ambito non oltrepassabile di ciò che è dato all’esperienza come verità empirica; l’uomo, invece, è allo stesso tempo, sintesi e

limite di Dio e del mondo. Egli rappresenta la dimensione terza nella quale, da una

parte libertà e verità si incontrano ma, dall’altra sperimentano il proprio limite antropologico. La relazione reciproca di libertà e verità, posta in gioco fondamentale della Critica, è connessa, ancora una volta, alla finitudine umana. L’Antropologia

pragmatica restituisce un’immagine dell’uomo che va oltre la pura generalità e che

non si esaurisce nella semplice meccanica naturale. Tale progetto supera quello di un’Antropologia sistematica proposta come contraltare della fisica a cui lo stesso

11

M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista

pragmatico, op. cit., p. 44.

12 Ivi, p.45. 13 Ibidem 14 Ivi, p.47. 15 Ibidem

88

Kant allude nella Critica della ragion pura e si presenta come l’unica risposta al quesito che individua nella natura della natura umana il proprio fulcro problematico. Tale risposta proviene, appunto, dalla spiegazione della paradossale condizione di terzietà in cui è posta l’esistenza antropologica dell’uomo che rappresenta, da una parte, la sintesi e, dall’altra, il limite della conoscenza di Dio e del mondo. L’uomo, infatti, è sintesi di libertà e verità nel momento in cui esercita la sua sovranità di

soggetto pensante, che pensa il mondo e Dio. Kant sostiene, infatti, che il termine

medio è rappresentato dall’atto del pensiero che è anche soggetto del giudizio. Dunque, il soggetto pensante, da una parte, è tale in quanto si identifica con l’atto del pensiero, ma dall’altro ne rappresenta la sintesi anche come oggetto pensato. Ciò significa che l’uomo che pensa può essere colto a partire dagli elementi che unifica e di cui costituisce il termine medio, cioè Dio ed il mondo, o dalla forma stessa della conoscenza. Nella struttura del giudizio logico, la tripartizione Dio, mondo, uomo è trasformata nelle dimensioni del soggetto, del predicato e della copula, di cui l’uomo rappresenta la terzietà oggettivata nella forma stessa della conoscenza. Infine, in quanto soggetto ed oggetto della conoscenza l’uomo è anche sintesi universale che forma l’unità reale nella quale il sensibile ed il sovrasensibile si unificano.

Ciò significa che “è a partire dall’uomo che l’assoluto può essere pensato”16. Ma, aggiunge Foucault:

Questo in rapporto alla domanda sull’uomo non ha valore di riferimento assoluto, liberatorio per un pensiero serenamente fondamentale. Il contenuto stesso della domanda: «Was ist der Mensch?» non può dispiegarsi in un’autonomia originaria; infatti, sin dall’inizio l’uomo si definisce cittadino del mondo, Weltbewoner: «l’uomo è

di certo parte del mondo» . E ogni riflessione sull’uomo è rinviata circolarmente ad una

riflessione sul mondo. Tuttavia, non si tratta in questo caso di una prospettiva naturalistica in cui una scienza dell’uomo implicherebbe una conoscenza della natura. Ad essere in questione non sono le determinazioni in cui è preso e definito, al livello dei fenomeni, l’animale umano, ma è piuttosto lo sviluppo della coscienza del sé e dell’Io sono: il soggetto attinge se stesso nel movimento attraverso cui diviene oggetto per se stesso.[…] Il mondo è scoperto nelle implicazioni dell’ “Io sono” come figura del movimento attraverso cui l’io, divenendo oggetto, prende posto nel campo dell’esperienza e vi trova un sistema concreto di appartenenza. Questo mondo così messo in luce non è dunque la Physis, né l’universo della validità delle leggi17.

Attraverso tali riflessioni Foucault ricostruisce l’emergere, nel corso del XVIII secolo, di forme di sapere che, partendo dal dualismo cartesiano, cercano di indagare il funzionamento del corpo umano rispetto alla mente. L’autore mette in evidenza che tali ricerche furono l’occasione di una distinzione concettuale interna alla Physis. Infatti, in consonanza con la nuova centralità assunta dall’ Antropologia la sfera della

fisica si separò da quella del fisico. La fisica, infatti, non riusciva a rappresentare la

totalità antropologica nella quale veniva espressa la natura umana ed il corpo necessitava dell’inserimento in una branca del sapere che, senza escludere l’uomo dall’ordine della natura, lo diversificasse dall’ordine della fisica e della natura inorganica. Dunque, la comparsa dell’interrogazione antropologica sull’uomo può

16

M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista

pragmatico, op. cit, p.57.

17

89

essere direttamente riferita all’orientamento prevalente che tali scienze assunsero nella scelta del proprio oggetto di studio. I due fenomeni sono strettamente connessi, essendo l’uno sia causa che conseguenza dell’altro.

Ed a questa suddivisione possiamo riferire le tematiche sviluppate nelle scienze umane e sociali di cui ho parlato nel capitolo precedente. Seguendo tale percorso, si può comprendere perché il punto di vista antropologico e lo sviluppo del pensiero positivistico – scientifico vadano di pari passo, non solo nella biologia ma anche nelle altre scienze che proposero come oggetto di studio questa rinnovata concezione della natura umana. Tale consonanza fu possibile in quanto scienze umane ed antropologia condivisero il medesimo interesse per l’uomo inteso nell’infinita