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Antropo – oikonomia della salute/salvezza

1.Ordine del discorso antropologico: vita, organismo sociale, lavoro

3. Il discorso di verità “oikonomico”

3.2 Antropo – oikonomia della salute/salvezza

Oscillando continuamente tra vita e sopravvivenza, tra libertà ed obbedienza, la dimora è il “luogo” nel quale il rapporto tra alterne polarità si compone in un’immagine antropologica e politica. La sfera intermedia in cui questi rapporti si strutturano articolandosi direttamente l’uno sull’altro è la società. Questo è il luogo moderno del trionfo della logica oikonomico – gestionale e della sovrapposizione biopolitica tra pubblico e privato. Infatti, è con l’emergere della società civile come sfera intermedia tra l’oikos e la polis che il paradigma governamentale ha potuto radicarsi stabilmente come dispositivo politico ed il nuovo soggetto – oggetto dell’economia politica è divenuto il lavoro. Si può dire, infatti, che una società nella quale il paradigma oikonomico – gestionale si estende fino a coprire interamente, o quasi interamente, la sfera politica è una società di lavoratori e consumatori. Ciò non significa che il lavoro tenda, anche nelle economie moderne, a rimanere un’attività di sussistenza. Esso si emancipa dalla necessità ma, estendendosi a tutta la società, sussume nella dinamica di incorporazione naturale la durevolezza delle cose. Infatti, una conseguenza di primaria importanza dell’estensione delle dinamiche bio - economiche alla sfera politica è la progressiva riduzione, da una parte, degli spazi simbolici e, dall’altra, della durevolezza degli artefatti e delle opere d’arte. Il paradigma oikonomico ha la caratteristica precipua di non ammettere ritrazioni o arresti nel proprio percorso; esso avanza trasformando ed incorporando tutto ciò che è durevole in qualcosa che deve essere velocemente consumato, annullato, distrutto per essere nuovamente prodotto. L’economia politica moderna non avrebbe potuto concepire l’esistenza del mercato se non avesse intravisto già, a partire dal Medioevo, la possibilità di trasformare tutto ciò che è comune in proprio, tutto ciò che è duraturo in contingente. La logica corrosiva dell’oikonomia moderna divora, incorpora e distrugge per avere la possibilità di creare e produrre continuamente. Il mondo deve essere, cioè, consumabile e rimodellabile, sacrificando la stabilità alla durevolezza. Ecco perché la bioeconomia si impossessa delle logiche desideranti spingendo verso livelli di consumo sempre più massicci e vistosi. Questa considerazione generale è supportata dalla constatazione che in un’economia di consumo come quella moderna la sfera del necessario si estende sempre più anche al superfluo, i bisogni si trasformano in una spirale desiderante difficilmente controllabile dall’individuo e manovrata dall’esterno. Questo accenno alle logiche moderne di consumo ci consente di sottolineare che, seppur il lavoro non è più attività di sopravvivenza, è comunque mosso dalla medesima esigenza di appropriazione – incorporazione.

Ma, si potrebbe obiettare, se il lavoro diviene una dimensione centrale della bioeconomia moderna, come può coesistere con un paradigma oikonomico che pone alla base di se stesso la conservatio vitae? Come può alimentare, allo stesso tempo, la logica consuntivo – incorporativa e quella conservativo – ordinativa? La risposta a tali domande costituisce il cuore della riflessione sull’oikonomia moderna. Per il

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momento vorrei introdurre queste argomentazioni approfondendo l’accezione gestionale sottesa a tale paradigma. Che cosa significa gestione?

Si parla di gestione in riferimento ad un’attività ordinativo – disposizionale. Questa affermazione ha in sé un duplice significato. Quando si gestisce qualcosa al fine di trovare la giusta disposizione si presuppone che non si parli di un’attività creativa ma di una dimensione ordinativa. Si presuppone che l’oggetto o gli oggetti del nostro agire ordinativo preesistano e siano già dati. Tale agire ordinativo, dunque, poggia su un retroterra, su un materiale caotico che deve essere posto nel giusto ordine. Il che non implica, quindi, conservazione dello status quo ma azione di modifica della disposizione e delle relazioni tra cose o persone nello spazio. La “naturalità” dell’oggetto preso in considerazione è ricondotta all’ordine, o meglio, ad un’idea di ordine che viene considerato giusto. Ma in questo caso il criterio del “giusto” non è dato dalla conoscenza della natura ma della disposizione delle cose in un reticolo caratterizzato da rapporti e relazioni reciproche. In altre parole, la logica oikonomica fa riferimento alla relazione non alla cosa in sé. Dunque, la retta disposizione delle cose si fonda su un’idea di ordine al quale viene trasferito l’attributo di naturalità. Il raggiungimento di tale equilibrio è determinato da scarti. Il “negativo”, l’elemento o gli elementi caotici da rimuovere, da ridurre per creare l’ordine devono essere posti all’interno del processo ordinativo.

Come sosterrà Foucault, il paradigma gestionale è un paradigma regolativo, cioè, allo stesso tempo, trasformativo ed ordinativo11. Nell’atto della trasformazione è anche incluso l’elemento dissonante che deve essere sacrificato all’armonia dell’insieme. Nel paradigma gestionale c’è l’idea di un ordine naturale preesistente che deve essere ricostruito mediante la strutturazione ordinativo – relazionale degli elementi finiti. Il numero delle combinazioni è potenzialmente infinito ma il numero degli elementi combinabili è finito. Dunque, la libertà e la creatività nella strutturazione delle combinazioni è possibile entro un reticolo di elementi numericamente finiti. L’ordine indica la giusta disposizione di elementi infinitamente finiti in uno spazio determinato.

Questo aspetto regolativo richiama il paradigma antropologico moderno. La condizione di infinita finitudine fa della “natura umana” l’indicatore epistemico fondamentale su cui si innesta il paradigma gestionale oikonomico. Il paradigma

oikonomico moderno nasce dall’esigenza di arginare, limitare, circoscrivere e fornire

una risposta alla condizione antropologica di infinita finitudine dell’uomo. Ciò è testimoniato dal fatto che il problema della manchevolezza si pone al centro del sapere economico moderno. La questione biopolitico – oikonomica emerge in modo dirompente nella modernità non perché le dinamiche oikonomiche che investono il corpo siano emerse di recente ma perché, solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, è stato attribuito ad esse una rilevanza epistemologico – scientifica nel fornire una risposta all’interrogativo radicale della costitutiva manchevolezza dell’uomo e della dinamica vuota e ricorsiva del desiderio. Inoltre, come sottolineavo precedentemente, l’effetto dei dispositivi gestionali – governamentali e disciplinari è stato notevolmente amplificato dall’estensione della sfera del privato nel campo

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Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977 – 1978), op. cit.

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precedentemente di pertinenza del pubblico. Nel momento in cui l’antropo – economia del corpo disciplinato diviene biopolitica della specie, il paradigma

oikonomico comincia ad estendersi al corpo sociale.

Il reticolo oikonomico, dunque, può essere affiancato al reticolo archeologico delle scienze umane. Ripartendo da quest’ultimo aspetto possiamo dire che se all’ordine del discorso della rappresentazione corrispondeva l’immagine dell’uomo limitato dall’esterno, cioè rispetto alla sfera del divino, l’uomo delle scienze umane appare limitato dall’interno, essendo caratterizzato da un paradigma che pone al centro la paradossalità della relazione che in lui esiste tra necessità biologica e libertà politica. Foucault sostiene che nella modernità l’uomo occupa, dunque, il posto del re. Ma tale divinizzazione dell’umano non si basa sulla sovranità dell’uomo su se stesso ma sulla capacità di gestione del proprio corpo e della propria esistenza oikonomica e biologica. Essendo soggetto/oggetto della propria infinita finitudine l’uomo diventa garante di se stesso, responsabile della propria salute, regolatore della propria condotta. Terreno di questo incontro tra soggettivazione politica ed oggettivazione

oikonomica, nonché della loro progressiva sovrapposizione, è la sfera della morale. É

anche in questo campo che le dinamiche del controllo – stimolo si esercitano in termini biopolitici, mediando la relazione tra natura e cultura, salute biologica e condotta sociale. Si può dire, allora, che le due sfere nelle quali la biopolitica moderna emerge sono la società e la morale: al corpo individuale disciplinato corrisponde il corpo biopolitico della popolazione. Quest’ultimo rappresenta il nuovo soggetto/oggetto dell’oikonomia così come l’uomo descritto dalle scienze sociali costituisce il soggetto/oggetto dell’antropologia moderna.

Queste due dimensioni sono unificate da quello che si potrebbe definire come un’antropo oikonomia della salute/salvezza, cioè un paradigma biopolitico/governamentale che prende in carico la vita individuale e collettiva al fine di preservare, gestire, organizzare la sicurezza, la salute, la salvezza del corpo (individuale e collettivo). Sintetizzando quanto detto, gli aspetti che accomunano la dimensione anatomo – antropologica e biopolitico – oikonomica sono:

-Regolazione/normalizzazione -Metafora organico/funzionale

-Centralità dei concetti di lavoro e vita -Paradigma della manchevolezza -Paradossalità della libertà -Volontà senza oggetto

Il concetto di regola o regolazione costituisce uno degli aspetti fondamentali che accomuna il paradigma antropologico moderno e la dimensione biopolitica della popolazione. Sia l’uomo sia la popolazione intesi come soggetti/oggetti del sapere delle scienze sociali e delle pratiche governamentali sono investiti da rapporti di potere/sapere che tendono a realizzare la disposizione di singolarità in uno spazio “normale”, cioè normalizzato. Ciò significa che uno spazio di enunciazione è al contempo un campo di rapporti di forze. Come sostiene Deleuze, nel linguaggio

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foucaultiano la regola è “la curva che unisce tra loro punti singolari”12 e li attualizza allineandoli, facendo convergere le serie, tracciando una linea di forza che attraversa i molteplici rapporti di potere e li unifica. Ciò non senza eliminare gli scarti. Regolare significa, infatti, comporre in base ad un’unità di misura, rendere il molteplice uguale uniformando ogni punto del diagramma all’unità modello di riferimento. In un paradigma regolativo, dunque, viene imposta una norma di riferimento e successivamente avviene l’uniformazione dello spazio attraverso l’eliminazione o la riduzione degli elementi spuri o la riconduzione di ciò che è estraneo alla norma. Nel contesto della normalizzazione disciplinare l’obiettivo della regolarità funzionale mirerà all’inquadramento del corpo entro lo spazio costituzionale attraverso la riduzione degli scarti vitali, degli elementi disfunzionali, degli aspetti fisico – psicologici non chiaramente inquadrabili nel regime disciplinare in questione. Ciò mira non soltanto al controllo ma anche alla trasformazione del corpo individuale in uno dei molteplici anelli di una catena, di una maglia microfisica di potere. Nel soggetto collettivo popolazione, invece, la regola si applica alla riduzione degli scarti ritagliati da flussi, trend, previsioni. Si tratta di tutti quei fenomeni che cadono al di fuori di un determinato assetto formalizzato di potere/sapere inerente gli atteggiamenti demografici, riproduttivi, medici, epidemiologici, ecc. (come i tassi di natalità, di mortalità, di fecondità, ecc.)13. Ma ciò che è ancora più importante è che la regolazione sia nel contesto della disciplina che in quello della biopolitica della popolazione è considerata come un processo biologico – naturale che mira alla funzionalizzazione del corpo. Un corpo funzionale è composto da apparati, organi, singole parti che si integrano tra loro concorrendo al benessere generale del sistema. L’attenzione alla funzionalità dell’organismo conduce gli apparati disciplinari e i dispositivi biopolitici a porre l’attenzione non sul corretto funzionamento di ogni parte, ma sulla corretta organizzazione, gestione, correlazione funzionale dell’insieme. Come dire, la funzione rappresenta un livello emergente rispetto alla strutturazione delle singole parti componenti un organismo e presuppone un concetto di salute che riposa sulla capacità del corpo di raggiungere un equilibrio che non significa perfezione assoluta ma riduzione degli scarti e normalizzazione degli elementi disfunzionali. Il concetto di funzione in quest’accezione implica anche un criterio di utilità e di produttività. A questo proposito non deve stupire che il concetto di regolazione organica sia sfociato in un’accezione oikonomico – gestionale. Le funzioni equilibrate, infatti, oltre a presupporre una regolazione naturale, insita nell’organismo, devono anche essere prodotte, gestite, amministrate dall’esterno. L’obiettivo del raggiungimento del giusto equilibrio riguarda anche la commistione tra propensione naturale e regolazione artificiale. Un sistema ordinato deve oscillare continuamente tra auto - regolazione e etero - regolazione. Dunque, l’equilibrio naturale dell’organismo deve essere presupposto ma deve anche essere considerato incompiuto o non perfetto. Un equilibrio biologico – naturale imperfetto è un equilibrio sempre precario, sempre sul

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G. Deleuze, Foucault, trad. It. di P. Rovatti e F. Sossi, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 83.

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Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977 – 1978), op. cit.

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punto di spezzarsi, di ammalarsi. Per questo motivo il concetto di regolazione pseudo

– naturale si basa su un paradigma oikonomico – salvifico.

Ma quanto detto presuppone anche un’altro aspetto: il negativo deve essere contenuto nel sistema che mira alla regolazione. Ciò significa che deve sempre esistere uno scarto difficilmente assimilabile o non assimilabile che minaccia dall’interno o dall’esterno la salute generale dell’organismo. Tenendo sempre presente la definizione di Bichat (definizione che improntò il campo delle scienze della vita dalla seconda metà del Settecento in poi), la vita è ciò che sfugge, che resiste alla morte14. In questo linguaggio è implicita non soltanto l’accezione regolativo – funzionale ma anche quella conflittuale. La vita diviene un campo di forze, la sfera pseudo – naturale nel quale si dispiega lo scontro tra parti differenti. Tale semantica ci avvicina ancora di più al linguaggio oikonomico. La lotta per la vita diviene negli organismi naturali (darwinismo) e sociali (darwinismo sociale) un conflitto per l’accaparramento delle risorse scarse. Attraverso la lotta si cerca, dunque, di stabilizzare un equilibrio giocato sulla linea di confine della sopravvivenza.

La gestione dei mezzi che consentono di mantenere in vita un organismo racchiude un insieme di azioni che rientrano nell’accezione di oikonomia come

amministrazione della casa e delle relazioni familiari. Dunque, l’utilità scaturisce dal

lavoro dell’organismo e degli organismi per strappare alla natura quanto serve per la sopravvivenza e per il mantenimento delle funzioni vitali in una situazione di equilibrio. Nel concetto di regolazione biologico – organica rientrano a pieno titolo sia i criteri regolativo – ordinativi che muovono l’azione oikonomica sia il tipo di attività finalizzata che trasforma la natura in risorse per la sopravvivenza (il lavoro) sia l’insieme delle relazioni conflittuali che producono il cambiamento. Questo discorso conferma, dunque, che l’attività gestionale – oikonomica non è semplicemente adattiva ma è anche, fino ad un certo livello considerato funzionale,

disadattava.

Presupposto di tutto ciò, però, è che esista una condizione iniziale di carenza, di manchevolezza che innesti il cambiamento. Il paradigma della costitutiva manchevolezza dell’uomo si pone, dunque, alla base sia dell’antropologia moderna che dell’economia politica. Il difetto riguarda la natura umana, cioè la condizione naturale che fa dell’uomo un animale mancato, non specializzato, non abilitato a rispondere direttamente agli stimoli ambientali. Dunque, ciò che si configura come un difetto della natura rappresenta il punto di innesto della tecnologia politica (biopolitica) che consente di rendere la vita dell’uomo qualificata. Con le parole di Foucault potremmo dire che la “natura” incompleta dell’organismo umano rappresenta allo stesso tempo il limite della condizione umana e la possibilità di superamento, di apertura verso la sfera del simbolico, del linguaggio, della tecnica. Se il potere/sapere dell’antropologia e delle scienze sociali moderne non avesse teorizzato una condizione iniziale, costitutiva, di vuoto non avrebbe potuto spiegare

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il passaggio dal lavoro del corpo all’azione delle mani15 né l’edificazione della società. La vita activa dell’uomo rappresenta quella sfera di socialità all’interno della quale e senza la quale la natura dell’uomo rimane incompleta e rischia di cadere nel vuoto antropologico che le è presupposto. Il paradosso dell’umano è, dunque, non solo un posto ma un “presupposto” in quanto rappresenta la condizione a priori della concettualizzazione moderna di vita e di lavoro, proiezioni fondamentali dell’umanità dell’uomo nel mondo. Inutile dire che anche quest’azione di riappropriazione del mondo e di costruzione del senso si configura in termini gestionali – ordinativi. Il sapere che costruisce l’ordine a partire dal paradigma dell’infinita finitudine dell’uomo trabocca in ogni istante in un regine oikonomico – gestionale.

Nel sapere – potere moderno si tratta, infatti, di ricondurre a casa, di rendere familiare ciò che per natura è estraneo, sconosciuto all’uomo. Questa operazione di riconduzione dell’inconoscibile al conoscibile ha assunto delle potenzialità pressoché infinite. L’uomo moderno è l’uomo della conoscenza, della ragione. La conoscenza rappresenta, infatti, la nuova modalità che rende l’uomo sovrano sul mondo. Ma tale forma è assolutamente finita pur nell’infinità delle proprie potenzialità. L’uomo diviene Dio nella forma infinitamente finita della conoscenza. Ma questa infinita possibilità di conoscere non consente mai all’essere umano di fuoriuscire dal paradosso della propria finitudine; egli non ha più nemmeno un’alterità radicale, trascendente con la quale porsi a confronto. Egli ha la consapevolezza della propria finitudine, vive e lavora nel vano superamento di questa consapevolezza.

Ecco, dunque, in cosa consiste in termini antropologici il paradosso della libertà umana. Come sostiene Foucault, l’uomo moderno, non soltanto nel contesto del liberalismo, deve costruire costantemente le condizioni che gli consentano di essere libero, che gli diano la libertà di essere libero16. Ma la riconduzione di tutto ciò che è ignoto al noto, la conoscenza dei propri limiti, il ritorno a “casa”, presupposto nell’attitudine oikonomico – gestionale, rappresenta anche un rischio. La casa, infatti, oltre a rappresentare il luogo della sicurezza è anche il luogo in cui l’alterità è trasformata o ricondotta violentemente all’identità. Ma l’omogeneità necessita sempre di essere ritagliata a partire dalla diversità, l’identità ha sempre bisogno che esista un “fuori” che la legittimi, distingua, la riconfermi. Si tratta di una logica desiderante che è strettamente connessa con la necessità oikonomico – gestionale di conservare la vita e garantire l’ordine. Di conseguenza, l’estensione del paradigma

oikonomico al di là dei limiti della casa, fenomeno che secondo Foucault rappresenta

il cuore della biopolitica moderna o la “soglia di modernità biologica di una

società”17, comporta anche un’intensificazione dei fenomeni di irrigidimento identitario cui corrisponde una radicalizzazione delle differenze. Ed una differenza che si fa radicale è una differenza che si insinua nella condizione biologico – vitale. Lo slittamento delle categorie dell’alterità dalla sfera della legge a quella della norma, dai limiti della sovranità all’oscillazione della regolazione oikonomico –

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Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, op. cit.

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Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 -1979), trad. it. di M. Bertani, V. Zini, Feltrinelli, Milano, 2005.

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gestionale rende più esteso e radicale il conflitto, appiattendo, nello stesso tempo, le dinamiche desideranti sulle necessità biologico – vitali del corpo. Il cuore del meccanismo biopolitico deve essere rintracciato nelle trasformazioni epocali che hanno innestato nelle categorie politiche della sovranità classica i dispositivi regolativi e normalizzanti della disciplina e del controllo del corpo e della governamentalizzazione della popolazione, intesa come specie18.

Conseguenza di ciò è che la dinamica paradossale del desiderio si estende a tutti i campi e diviene sempre più pervasiva. Se, infatti, è caratteristica precipua della dinamica desiderante quella di essere infinita ed inesauribile, è anche vero che la volontà diviene sempre più astratta e tende a non coincidere più con il singolo desiderio. La differenza che la filosofia schopenhaueriana mette in evidenza tra volizione e volontà è fondamentale per comprendere gli sviluppi degli atteggiamenti iper - desideranti della modernità o il fenomeno del consumo vistoso su cui si basano le economie moderne19. Ad un desiderio che viene declassato a semplice volizione, cioè al meccanismo dello stimolo – risposta, corrisponde un oggetto ultimo che è il volere stesso, inaccessibile all’uomo. Il paradosso del desiderio, amplificato nel contesto dell’economia moderna, consiste nel volere la volontà, nel desiderare di

desiderare. Il desiderare diviene, dunque, un meccanismo ricorsivo che perde di vista

gli oggetti del desiderio20. Si finisce, in tal modo, per volere il proprio stesso desiderio, volersi come esseri desideranti, sempre insoddisfatti dalla soddisfazione della singola volizione contingente. La volontà diviene, in tal modo, l’alterità trascendente, metafisica che l’uomo ha perso divenendo Dio.

É la merce nella sua forma più astratta, cioè il marchio, che racchiude in sé il bisogno di infinito, di trascendenza di cui la finitudine umana andrà costantemente alla