1.Ordine del discorso antropologico: vita, organismo sociale, lavoro
3. Il discorso di verità “oikonomico”
4.2 Capitalismo cognitivo
Nel sistema capitalistico moderno sembrano coesistere differenti modi di produzione. Accanto al modello taylor/fordista è emerso e si è consolidato il discorso di verità della knowledge economy. L’economia della conoscenza ha il proprio perno nella valorizzazione del capitale cosiddetto “immateriale”, definito anche come “capitale
umano”, “capitale conoscenza” o “capitale intelligenza”. I numerosi studiosi che si
sono occupati di analizzare tale complessa ed interessante compresenza/transizione tra modelli economici hanno sottolineato la non assoluta novità di questi concetti. Una definizione approssimativa di capitale cognitivo è già presente in alcuni passi dei “Grundrisse” nei quali la conoscenza è collegata all’attività relazionale – celebrale dell’uomo. Nel linguaggio marxiano il general intellect, inteso come “sapere sociale generale”, è quella parte della conoscenza diffusa socialmente e trasferita, attraverso il corpo del lavoratore, nella macchina. Quest’ultima rappresenta il capitale fisso nel quale confluiscono le componenti di valore – lavoro e valore – conoscenza sociale del lavoro alienato.
La natura non costruisce macchine, locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi meccanici, ecc. Questi sono prodotti dell’industria umana; materiale naturale, trasformato in organi della volontà dell’uomo sulla natura o del suo operare in essa. Sono organi dell’intelligenza umana creati dalla mano umana; potenza materializzata del sapere. Lo sviluppo del capitale fisso mostra in quale grado il sapere sociale
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Cfr. N. Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, trad. it. di I. Katerinov, Bur, Milano, 2007.
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generale, la conoscenza, si è trasformato in forza produttiva immediata, e quindi fino a che punto le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo dell’intelligenza generale, e rimodellate in accordo con essa. In quale misura le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, bensì come organi immediati della pratica sociale; del processo reale della vita13.
Marx mostra, dunque, che il general intellect è l’esito di un sistema di produzione nel quale il plusvalore generato dalla forza lavoro umana si trasferisce al capitale fisso macchinico, trasformando il sapere sociale generale nell’attore fondamentale del processo di produzione. Ciò in quanto il carattere cooperativo dell’attività lavorativa trasforma la capacità tecnica in mezzo di lavoro e questo, paradossalmente, nel principale “vettore” di una sussunzione totale del lavoratore. In tal modo si determina la trasformazione di tutto il tempo di vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro dedicato alla valorizzazione del capitale. La critica marxiana, dunque, appare molto prossima ad una definizione del general intellect come una forma astratta e socialmente determinata di capitale che oggi potremmo definire cognitivo. Di grande impatto è anche l’accenno che compare in alcuni passi delle opere di Marx alla drammatica sottomissione che non solo il corpo ma l’intera esistenza del lavoratore subisce, in primo luogo, a causa dell’espropriazione di quel sapere condiviso o “sapere sociale generale” che si incorpora nello stesso agire tecnico dell’uomo. In altre parole Marx aveva già previsto che le logiche ed i metodi del capitalismo dispiegato non avrebbero soltanto comportato l’alienazione del lavoratore dal frutto del proprio lavoro e la trasformazione del suo corpo in un’appendice della macchina; avrebbero comportato un’integrale espropriazione del sapere sociale (saperi socialmente condivisi, cultura del saper fare diffusa) o una deprivazione di mondo con trasferimento del plusvalore lavorativo dal lavoratore alla macchina. Nell’ottica marxiana, infatti, il capitale fisso condensato nelle macchine e negli impianti riveste un ruolo di primo piano. Dunque, la differenza fondamentale tra general intellect e capitalismo cognitivo non può essere valutata alla luce della teoria dell’alienazione di Marx. Essa semmai risiede nella lenta cancellazione delle dicotomie valore d’uso/valore di scambio e soprattutto capitale fisso/capitale variabile. Per Marx, infatti, il general intellect si cristallizza nel capitale fisso ed il sapere espropriato al lavoratore si materializza nelle macchine e nei mezzi di produzione capitalistici.
Nel capitalismo cognitivo, al contrario, si verifica una progressiva sparizione della materialità sia delle merci che dei mezzi di produzione con relativa eliminazione della differenza tra capitale fisso e capitale variabile. Gli studiosi di biocapitalismo sono pressoché concordi nell’affermare che nella forza lavoro flessibile, precarizzata, reticolare della knowledge economy moderna la componente di capitale fisso si salda con quella di capitale variabile. L’intera esistenza, infatti, risulta investita da questo fenomeno di lenta ma significativa convergenza. La vita del lavoratore è, dunque, intesa non soltanto come forza di produzione ma anche come mezzo di produzione. Se i confini tra capitale fisso e capitale variabile sfumano significa che è l’assommarsi di queste due componenti nel corpo del lavoratore che definisce la
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K. Marx, Lineamenti fondamentali de critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1976, pp.718-719.
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natura della conoscenza. Si può anche dire che è la conoscenza, il general intellect, che si produce, si esprime e si moltiplica mediante i corpi e le vite messe al lavoro. Il carattere immateriale di questo tipo di capitale cognitivo fondato sulla conoscenza è, dunque, allo stesso tempo deprivazione di sapere e cristallizzazione di informazione riproducibile. Mettendo l’esistenza del lavoratore al proprio servizio, dunque, l’economia immateriale si auto – produce sulla base di una dinamica che fa coincidere il ciclo di vita del capitale cognitivo con il ciclo di vita del lavoratore. Quest’ultimo, infatti, essendo il risultato dell’assommarsi di capitale fisso e capitale variabile, è anche l’individuo che auto – producendosi, cioè operando su se stesso, formandosi come lavoratore, soggetto sociale, consumatore – produttore alimenta il ciclo della conoscenza su cui si fonda e prospera la logica capitalistica della bioeconomia moderna. In quest’ottica l’individuo diviene, dunque, lavoratore flessibile (corpo organico infinitamente disponibile, sfruttabile, ricattabile), “risorsa umana” (soggetto in continuo stato di formazione, aggiornamento, qualificazione professionale/lavorativa) o anonimo “nodo” di una rete informazionale e comunicativa che depriva, pur intensificando quantitativamente, le risorse del “comune”.
Vorrei per il momento mettere da parte la problematica dei corpi al lavoro per approfondire le caratteristiche che fanno del capitale una dimensione sempre più immateriale e cognitiva. Ciò deriva, come ho già più volte accennato, dalla crescente smaterializzazione della produzione o, per lo meno, della “produzione che conta” in un’economia di mercato. La maggior parte degli interpreti considerano la componente immateriale del prodotto (logo, marchio) come l’aspetto emergente della modernità bioeconomica. Se il modello economico fordista poneva il nucleo del processo di valorizzazione nella materialità della merce, il modello post – fordista considera di secondaria importanza i beni ed i prodotti nella loro consistenza materiale e nella loro solidità, concentrandosi sul valore cognitivo, simbolico, astratto veicolato dall’idea che la merce porta con sé. Ciò, naturalmente, non significa che venga meno o sia in via di esaurimento la produzione materiale; essa è semplicemente de – valorizzata, relegata alle fasi meno importanti ed economicamente remunerative del ciclo di produzione e vendita. Infatti, la fabbricazione vera e propria delle merci è, nella maggior parte dei casi, una fase che le imprese madri, le grandi multinazionali, delegano ad imprese sub – fornitrici che, a loro volta, attuano strategie internazionali di delocalizzazione al fine di abbattere i costi di produzione. La logica che guida questo modello economico consiste nell’esclusiva centralizzazione presso le imprese madri delle fasi di ideazione e progettazione del marchio e nella gestione dei flussi comunicativo/relazionali (es. marketing pubblicitario). Invece, le fasi della commercializzazione e vendita sono affidate a ditte sub – appaltatrici e delocalizzate. É chiaro che in questo contesto è difficile interpretare le trasformazioni che avvengono sul piano della produzione capitalistica immateriale nei termini della distinzione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio della merce. Nella valorizzazione quasi esclusiva riservata alla componente immateriale del prodotto è difficile distinguere le caratteristiche qualitative che fanno di una merce un oggetto materiale più o meno utile. Naturalmente non è vero che l’utilità non è più commisurata alle necessità vitali
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dell’uomo o, come ritenevano Ricardo e Malthus, alla capacità di garantire la riproduzione della forza lavoro. Nei paesi che hanno imboccato il modello capitalistico post - fordista, a partire dalla seconda metà del Novecento, si ritiene, con infondato ottimismo, che si sia definitivamente abbandonata un’economia di sussistenza per abbracciare un’economia dell’abbondanza. Il presupposto più immediato di tale speranza è che ci si sia svincolati da un’idea di utilità definita dai livelli minimi di sussistenza. Ma questa logica non ci emancipa dal criterio dell’utile, lo esaspera. Oggi ogni bene è considerato non solo estremamente utile ma quasi vitale per la sopravvivenza. É come se la soglia di necessità fosse stata spostata sempre più in là sulla strada dei bisogni indotti, includendo, di volta in volta, beni e servizi che precedentemente non erano considerati fondamentali o di primaria importanza. Ma tale iper – estensione ed iper – stimolazione dei meccanismi desideranti è caratterizzata da una contrazione del valore d’uso della merce o dell’importanza che esso ha per il consumatore. Le qualità del prodotto sono prese in considerazione non tanto per la capacità di soddisfare un bisogno ma per il valore cristallizzato che porta con sé. In altre parole, se la qualità di un bene continua ad avere un valore, ciò dipende dal contenuto immateriale che esso veicola non tanto dalle caratteristiche che esso ha in termini materiali.
Anche su questo punto è possibile delineare delle differenze tra modello fordista e post – fordista. Nell’epoca del consumo di massa (fordismo) la merce standardizzata lasciò il posto ad una valorizzazione maggiormente incentrata sulla quantità del prodotto. La società di massa saziava la propria utopia di accrescimento moltiplicando quantitativamente i prodotti immessi sul mercato e gli stimoli al consumo. In un’economia post – fordista la quantità della produzione di massa lascia il posto alla qualità nella valutazione del valore immateriale del prodotto, in quanto la merce assume sempre più caratteristiche differenziali rispetto a specifici stili di vita ed atteggiamenti di consumo. Si può schematicamente dire che, se nell’economia fordista l’identità veicolata dal prodotto funzionava nei termini dell’uniformazione di stili vita e di consumo, nel modello post – fordista il consumo o il possesso di un determinato prodotto deve produrre identità differenziate, deve promuovere l’unicità di chi lo possiede. Il valore simbolico incluso nel marchio comprende, solo in seconda battuta ed in maniera riflessa, la qualità materiale del prodotto. Ciò che crea valorizzazione qualitativa è pur sempre l’idea che si associa alle caratteristiche del prodotto in termini di innovatività, di specificità, di espressività. Dunque, la qualità legata al valore d’uso della merce si modifica assumendo significati che prescindono quasi totalmente dalla materialità del prodotto. Ma, allo stesso tempo, il valore di scambio della merce, a causa dello svincolamento dalla materialità, è difficilmente quantificabile e valutabile. Se, infatti, la scambiabilità dei beni si fonda su una misura comune che, nell’economia classica, era quantificata nell’unità di tempo lavorativo inclusa nel prodotto, nel contesto dell’economia cognitiva è la conoscenza (ed il valore che ne deriva) che diviene unità di misura dei beni. Ma essa è difficilmente quantificabile in unità di tempo essendo, inoltre, quasi del tutto irricavabile dal lavoro materiale di produzione. Dunque, ciò che emerge come valore di scambio dell’immaterialità dei prodotti è la dimensione sociale, il retroterra comune nel quale si genera il valore – conoscenza. Se agli albori del capitalismo il
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valore d’uso della merce veniva trasformato interamente in valore di scambio e, dunque, privato della qualità materiale e del sapere in esso socialmente cristallizzato, il capitalismo dispiegato nella sua dimensione immateriale subordina anche la scambiabilità della merce ad un criterio di valorizzazione relazionale, difficilmente quantificabile e capitalizzabile. E questo, detto per inciso, potrebbe costituire anche un limite intrinseco di questa forma capitalistica, in quanto, come sostengono autori come Gorz, Fumagalli, ecc., l’economia dell’immateriale ha in sé il suo stesso limite e potrebbe cadere vittima delle sue stesse contraddizioni interne. Anche su questo argomento rimando ai paragrafi successivi.
Per ora vorrei sottolineare, tornando al paradigma marxiano, come il modello D – M – D’ si trasformi in D – M (K) – D’, dove K rappresenta il fattore conoscenza che, associandosi alla merce, ne definisce il valore immateriale. Dunque, anche D’ è in realtà D’(K). Il denaro come equivalente generale porta alla sparizione della merce (D – D’) ma genera – è questa l’ultima frontiera del capitalismo cognitivo – anche la virtualizzazione di se stesso nei circuiti della finanza moderna. Basti pensare al mercato dei derivati che crea valore economico sul “come se” del denaro, sulla virtualità della speculazione borsistica. In questo quadro è allora chiaro che i concetti di valore d’uso e di valore di scambio sfumano e divengono indistinguibili, confondendosi nelle dinamiche che pongono il ciclo di vita della conoscenza al centro dei meccanismi di valorizzazione del capitale.
L’espressione ciclo di vita non è usata a caso con riferimento alla conoscenza. Una delle ipotesi che guida la presente riflessione, ma anche alcuni interessanti contributi su tematiche bio – capitalistiche, si focalizza sulla considerazione che la dimensione conoscitivo/relazionale sia schematizzabile con le stesse categorie bio – organiche che connotano i cicli di vita degli individui. Con ciò si chiarisce l’assunto esposto all’inizio della presente trattazione: la semantica della vita si congiunge e si confonde con quella del lavoro e – aggiungerebbe Foucault – con quella del linguaggio definendo un nuovo regime di verità e nuovi dispositivi di potere. Ho definito tali dispositivi nei termini del paradigma gestionale oikonomico evidenziando come si sviluppa nelle dottrine neoliberali moderne. Ma questo percorso oikonomico può anche essere discusso alla luce dell’emergenza di un modello capitalistico che presenta sia continuità che discontinuità rispetto al passato: il capitalismo dell’immateriale. Questo si basa su un modello bio – organico scandito dall’idea di un equilibrio non armonico né perfetto e dalla necessità di adattamenti ed interventi continui dall’esterno. È caratterizzato, dunque, da principi di regolazione imperfetti che generano esclusioni e producono “esternalità”.
Diventando la base di una produzione di valore fondata sull’innovazione, sulla comunicazione e sull’improvvisazione continua, il lavoro immateriale tende in definitiva a confondersi con un lavoro di produzione di sé. Gli operatori dell’economia di rete sono gli attori di un’organizzazione in via di autorganizzazione incessante. Il loro prodotto non è una cosa tangibile ma, innanzi tutto, l’interattività che alimenta l’attività di ciascuno. Ciascuno deve prodursi come attività, per dar vita ad un processo risultante dal lavoro di tutti e che supera la somma delle attività individuali14.
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A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore, capitale, trad. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 15.
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Ritengo che il ciclo di vita del capitalismo cognitivo, cioè lo spazio/tempo nel quale nasce, si sviluppa, si moltiplica e si estingue il valore – conoscenza tenda ad assumere la conformazione del ciclo di vita biologico di un organismo, inteso sia in senso individuale che collettivo. Ognuno di noi non appena nasce è inserito in una cultura ed in un contesto sociale nel quale sono veicolate, attraverso processi di socializzazione ed individualizzazione, determinate forme di sapere che, emergendo da un retroterra comune, si evolvono sulla base dell’esperienza vitale del singolo, della storia particolare che ognuno di noi porta con sé. Si tratta, dunque, di un retroterra di saperi condivisi e socialmente riconosciuti che entrano a far parte dell’esperienza di vita di un soggetto che, nel tempo, aggiunge, in forme e modalità diverse, conoscenze a questa base sociale acquisita. Il sapere che si assomma nel ciclo di vita individuale può derivare da differenti fattori educativi, familiari, personali, lavorativi, relazionali, ecc. Anche per questo il sapere, a differenza del lavoro sociale generale di Marx, non è riducibile a quantità di lavoro astratto, coprendo una grande varietà di capacità eterogenee, prive di una misura comune, tra le quali possiamo citare la capacità di giudizio, l’intuizione, il senso estetico, il livello di formazione, la quantità di informazioni formalizzabili e trasmettibili, la facoltà di apprendimento e di adattamento, la mobilità, la capacità di reazione ad eventi imprevisti, l’abilità nello svolgere attività eterogenee, ecc. É proprio tale eterogeneità, che è spesso riassunta sotto il termine di “risorse umane”, a rendere non misurabile sia il valore della forza lavoro che quello delle merci. Questa sfera, infatti, si articola essenzialmente intorno a ciò che nell’economia classica cade al di fuori del valore di scambio, cioè non ha un valore economico. Faccio riferimento, ad esempio, alle ricchezze naturali, ai beni comuni, al patrimonio culturale che possono essere appropriabili e riproducibili solo se delimitati e circoscritti da barriere artificiali che ne riservano l’esclusivo godimento a chi detiene un diritto di accesso e di sfruttamento su di essi. Come sottolinea Gorz, la privatizzazione delle vie d’accesso è la forma privilegiata di capitalizzazione delle ricchezze immateriali, compresa la conoscenza ed il sapere del corpo.
Per comprendere questo punto è necessario distinguere differenti tipi di conoscenza che operano attraverso i soggetti, seguendo i loro cicli biologici, nel contesto del capitalismo cognitivo. Gorz distingue tra sapere e conoscenza codificata. Il sapere indica soprattutto un saper fare, una capacità pratica legata alla corporeità che sfugge alla possibilità di formalizzazione. Si tratta di una serie di competenze che non si insegnano ma si apprendono nella pratica, all’interno di determinati contesti culturali e sociali. Esse, inoltre, circolano facendo appello alla capacità del soggetto di produrre se stesso, generando una competenza tacita e radicata che contribuisce alla definizione della soggettività. Ma tali saperi non sono confinati al soggetto; essi scaturiscono dall’interazione sociale. É nel contesto culturale che le nuove conoscenze si integrano con il sapere comune e circolano attraverso i soggetti. Al contrario, maggiore è il livello di codificazione e formalizzazione delle conoscenze, minore è la possibilità che una cultura si arricchisca e venga liberamente incorporata dai singoli individui o divenga parte dell’esperienza personale di questi.
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Nel corso del XX secolo un numero crescente di saperi comuni sono stati trasformati in conoscenze codificate e professionalizzate, limitate nei diritti di accesso e di godimento e sottoposte ad un regime di profitto economico. La professionalizzazione ha squalificato le pratiche ed i saperi comuni riducendo fortemente il contenuto simbolico – relazionale che queste portavano con sé. Tuttavia, tale tipo di formalizzazione non riesce a ridurre la totalità dei saperi comuni a conoscenze formalizzate: esiste sempre un “resto” difficilmente formalizzabile in quanto incarnato nella vita, nel saper fare, nell’esperienza esistenziale del soggetto. La codificazione di una conoscenza può avvenire sempre e solo ponendo una barriera d’accesso ed un criterio di oggettivazione, cioè delle metodologie o delle pratiche che trasformino la conoscenza tacita in un sapere quantificabile economicamente. Ciò avviene, soprattutto, con la conversione della conoscenza tacita in atti auto – evidenti, cioè in azioni che la rendono evidente esplicandola in codici e linguaggi. Ma la codificazione di tali atti implica necessariamente, secondo Gorz, il trasferimento di una serie di attitudini incorporate nel sapere da cui scaturiscono, in primo luogo, dinamiche soggettivanti, orientamenti, stili di vita, tecnologie del sé. Ciò significa, però, che il saper fare personale, il vissuto soggettivo, le dinamiche identitarie che l’individuo mette in campo nelle attività relazionali e comunicative vengono, in un certo senso, espropriate e trasformate in atti quantificabili, suscettibili di produrre valore economico. Tutto ciò induce Gorz a ricordare che:
I saperi comuni attivati dal lavoro immateriale esistono solo nella e per la pratica vivente. Essi non sono stati acquisiti o prodotti in vista della loro messa a lavoro o della loro messa in valore. Non possono essere staccati dagli individui sociali che li praticano, né valutati in termini di equivalente monetario, né comprati o venduti. Essi risultano dall’esperienza comune della vita in società e non possono essere legittimamente assimilati a capitale fisso15.
A tal proposito C. Marazzi propone di parlare di un “nuovo capitale fisso” per