1.Ordine del discorso antropologico: vita, organismo sociale, lavoro
3. Il discorso di verità “oikonomico”
3.5 Liberalismo e neoliberalismo
Siamo giunti al cuore dell’analisi foucaultiana della governamentalità liberale. Come ho precedentemente sottolineato, il discorso liberale, a partire dal XIX secolo, si inserisce nell’orbita della razionalizzazione delle pratiche governamentali, costituendo un regime di verità che si fonda sull’“autolimitazione del governo”50. “Naissance de la biopolitique” parte dall’interrogativo: perché si dovrebbe governare? Tale quesito rappresenta uno spunto di riflessione che consente di porre in primo piano la società ed il rapporto complesso che questa intrattiene con lo stato. Come sottolinea Senellart, il paradigma economico liberale esige che la governamentalità si eserciti attraverso la critica, che l’obiettivo della sicurezza coesista con la libertà. Foucault, in realtà, si chiede se possa esistere, dal punto di vista delle pratiche governamentali, un regime di verità definito come liberalismo. Scorrendo le pagine del corso del 1978/79 ci si rende conto, in effetti, che l’uso che l’autore fa del termine liberalismo non è specifico; egli conduce, infatti, un precorso che spesso accomuna l’ordine del discorso liberale e neoliberale. Tale scelta, che potrebbe sembrare arbitraria nell’ottica di una ricostruzione storica del pensiero economico moderno, è in realtà indirizzata ad un fine teorico specifico: porre in primo piano il “contenuto di verità” che, al di là delle differenti prassi governamentali, accomuna le prospettive liberale e neoliberale. Si potrebbe dire che Foucault intenda, insomma, intraprendere un percorso teorico che miri a cogliere l’ordine del discorso del liberalismo al di là delle pur importanti prassi economiche. Naturalmente, nonostante ponga le riflessioni liberali e neoliberali in assoluta continuità tra loro, l’autore non intende misconoscerne le differenze. Al contrario, è proprio il passaggio dall’approccio liberale a quello neoliberale che mette in luce il differente rapporto intervenuto tra stato e mercato. Sviluppare una genealogia governamentale del discorso economico significa, infatti, tenere sempre presente come evolvono i rapporti tra queste due sfere.
L’etica economica neoliberale abbandona l’idea del laissez faire e si impegna, grazie ad una specifica prassi governamentale, nell’estensione della sfera economica verso ambiti che non erano stati precedentemente toccati dall’economia come la vita individuale. Il neo – liberalismo diviene, dunque, biopolitica dispiegata. Ciò appare
49
M. Senellart, Nota del curatore in M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège
de France (1977 – 1978), op. cit., p. 287.
50
163
vero, ad esempio, nelle teorie economiche che si fondano sulla centralità del concetto di “capitale umano”. Nel passaggio dal liberalismo al neoliberalismo e nelle influenze dirette che la scuola tedesca di Friburgo ebbe su quella americana di Chicago si intravede una trasformazione fondamentale: lo stato agisce interamente in funzione del mercato. Nel neoliberalismo, dunque, non prevale l’imperativo del non interventismo statale e della completa libertà del mercato dai vincoli governamentali; il governo vive costantemente sul limite tra intervento e non intervento ma, in ogni caso, ciò avviene in vista del mercato, per il mercato. Si potrebbe dire, dunque, che l’ordine del discorso governamentale si sovrappone completamente a quello economico nella misura in cui l’intervento dello stato è auspicato dalle dottrine neoliberali sempre in funzione dell’estensione della logica economico – capitalistica. Alla domanda foucaultiana, dunque, si può dare una prima, parziale risposta: si governa per il mercato.
Tale risposta non è premessa al percorso teorico dell’autore ma emerge nelle dense pagine del Corso. Vorrei provare a seguirne gli sviluppi fondamentali. Il punto di partenza è costituito dal rapporto problematico e mutevole che si instaura nella dottrina liberale tra produzione della libertà e tutto ciò che, producendola, la limita e la distrugge. Si tratta di un meccanismo di potere che media la relazione tra libertà e
sicurezza.
La nuova ragione di governo ha (…) bisogno di libertà, la nuova arte di governo consuma libertà. Se consuma libertà è obbligata anche a produrne, se la produce è obbligata anche a organizzarla. La nuova arte di governo si presenterà, pertanto, come arte di gestione della libertà, ma non nel senso dell’imperativo: “sii libero”, con la contraddizione immediata che questo imperativo può comportare. La formula del liberalismo non è “sii libero”. Il liberalismo, semplicemente, dice: ti procurerò di che essere libero51.
Emerge la dimensione paradossale del liberalismo moderno: il concetto di libertà su cui esso si fonda rappresenta, allo stesso tempo, la condizione di possibilità ed il limite del potere governamentale. La libertà è intesa, in questo senso, come l’insieme di quelle condizioni che rendono qualcuno “libero di essere libero”52. Nell’imperativo “sii libero”, infatti, si realizza sia il limite che la potenzialità espansiva della libertà moderna. Essa, dunque, non può essere “positiva”, deve sempre e comunque essere sottoposta ad una “gestione” governamentale che, tuttavia, a sua volta, non può espandersi in campi nuovi se non è limitata nel proprio esercizio. La governamentalità, allora, produce e consuma libertà nel senso che individua, di volta in volta, il limite entro il quale governare o oltre il quale concedere nuovo spazio alla libertà. Per questo motivo l’arte di governo si incentra sull’interrogazione: quanto bisogna governare? Qual è la misura o il limite oltre il
quale si consuma libertà senza produrne?
Il valore che le società moderne attribuiscono al concetto di libertà si fonda sul mantenimento di un precario e paradossale equilibrio: più si producono le condizioni
51
M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 – 1979), op. cit., p. 65.
52
164
materiali che garantiscono agli individui libertà più si estende la necessità del controllo e della gestione governamentale; viceversa, più si estendono le politiche di sicurezza e le misure emergenziali più si dà la possibilità ad un regime di verità che innalza il valore della libertà di estendersi a campi prima esclusi. Foucault sostiene anche che tale equilibrio che si forma tra libertà e sicurezza è un equilibrio pseudo – naturale. Il liberalismo è una specie di naturalismo in quanto si fonda sul concetto di
regolazione quasi - naturale di cui abbiamo parlato53. Nel Corso del 1975/76 tale pseudo – naturalità era riferita al problema dell’evoluzionismo biologico: le società moderne si basano su politiche securitarie che articolano la dialettica ordine/disordine sociale nell’individuazione di un nemico interno, considerato come una minaccia biologica. Nelle società liberali si parla di evoluzione economica esattamente negli stessi termini. Si tratta di un sistema che deve farsi carico della minaccia, che deve includerla nel sistema fin quando non è considerata disfunzionale. L’economia del potere tipica del liberalismo non consiste più in una limitazione esterna della minaccia; si tratta, al contrario, di un meccanismo di regolazione interna che fa della libertà un requisito tecnico del governo dei processi naturali. Il liberalismo mira alla realizzazione di una mediazione tra interessi individuali e collettivi e tra governanti e governati. Manipolare gli interessi significa gestire il pericolo, oramai non più riducibile alla dicotomia esterno/interno. Il liberalismo gestisce gli interessi manipolando il pericolo a fini espansivi. Per questo, l’imperativo che l’ordine del discorso liberale impone è quello “vivi
pericolosamente”. Solo così, infatti, il regime di verità che esso porta con sé potrà
realizzare le condizioni variabilmente regolate che consentono agli individui di essere liberi di essere liberi.
Ma questo “circuito” paradossale che collega libertà e sicurezza può dispiegarsi pienamente solo nei momenti di crisi. Capitalismo e crisi vanno, infatti, a braccetto. E ciò non nel senso banale che le trasformazioni economiche inducono in crisi un sistema economico per generarne un altro. La crisi economica rispecchia una crisi di governamentalità. I momenti di crisi, dunque, sono dei momenti di rottura nei quali un determinato regime di verità reinterpreta e dà un significato ai rapporti di forza presenti entro il contesto sociale, politico ed economico. Come abbiamo visto, infatti, il mercato è “luogo” di veridizione, cioè luogo di convalidazione o falsificazione di un determinato discorso di potere. Dunque, i momenti di crisi esprimono il conflitto tra diversi ordini del discorso. In contesto liberale i conflitti servono ad articolare costantemente la domanda: quanto, fino a che punto, con quali modalità bisogna
governare?
Secondo Foucault ci sono due risposte che nell’ambito del pensiero liberale sono state date a questa domanda che presuppongono, a loro volta, una differente articolazione del circuito libertà/sicurezza. Da un lato abbiamo le teorie che partono dalla crisi del capitalismo per supportare il punto di vista dell’estensione delle politiche di securizzazione socio – politiche ed economiche. Il nucleo teorico che fa capo a questa prospettiva è individuato nel keynesismo che ha ispirato le politiche di
53
Questa affermazione è supportata anche da numerosi parallelismi presenti dei Corsi tra il concetto di società e quello di ambiente. La società, così come l’ambiente, è il luogo nel quale le relazioni tra elementi (organismi naturali o soggetti liberi) si struttura nello spazio di una pseudo – naturalità, cioè in un contesto in cui relazioni spontanee vengono organizzate e gestite in un quadro di artificialità.
165
welfare di molti paesi. Dall’altro lato abbiamo le prospettive che fanno riferimento
alla crisi del liberalismo, cioè a quei dispositivi chiamati da Foucault “liberogeni” che sostengono il punto di vista del libero mercato e della non – ingerenza dello stato nella sfera economica. Questo punto di vista si nutre di tutti quegli approcci che, volendo scongiurare il rischio di cadere in eccessi statalisti o in regimi totalitari o autoritari, vedono nel non – interventismo statale una garanzia di estensione e preservazione della libertà.
Le teorie neoliberali si incardinano in quest’ultimo presupposto presentando, tuttavia, notevoli differenze e punti di rottura. Le continuità possono essere identificate nella ripresa di quel discorso di verità che potremmo definire anti - keynesiano e nell’utilizzo nel linguaggio economico della semantica della “crisi”. Il maggiore punto di rottura, invece, consiste nel superamento del laissez faire e nell’individuazione di una politica economica che fa dello stato uno strumento per estendere la logica del mercato. Con un salto di quasi due secoli, dunque, l’autore preferisce discutere gli sviluppi della teoria liberale sul terreno delle continuità o delle discontinuità che presenta in rapporto alle teorie neoliberali. E ciò anche al fine di dare maggiore attualità politica a tale indagine genealogica. Nel contesto della riflessione foucaultiana, pertanto, si confrontano due approcci neoliberali: quello della scuola tedesca e quello della scuola statunitense. I punti di ancoraggio tra le due sono: da un lato, in termini storici, la stagione che va da Weimar al secondo dopoguerra; dall’altro, in ambito teorico, la ripresa, soprattutto nel contesto anglosassone, di pensatori liberali come von Mises e von Hayek54.
L’ordoliberalismo tedesco55 è profondamente influenzato da quell’invariante antiliberale che i teorici tedeschi identificano in una serie di avvenimenti come lo
statalismo bismarckiano, il planismo economico nazista, le politiche keynesiane. Foucault discute lungamente gli esiti che la combinazione di questi elementi ebbe nel tracciare quella che agli occhi dei teorici neoliberali appariva come una continuità storico – economica all’insegna dello statalismo. Dal punto di vista critico dei neoliberali tedeschi, infatti, la storia economica delle politiche protezionistiche del XIX secolo, del socialismo di stato bismarckiano, della pianificazione economica nazista, del dirigismo keynesiano costituiscono differenti aspetti di una medesima costante statalista ed antiliberale. Tale invariante antiliberale è invocata a fini fondativi. L’esigenza più pregnante che gli ordoliberali tedeschi si trovarono di fronte al termine della seconda guerra mondiale fu, infatti, quello di porre le basi per la costituzione di una nuova struttura governamentale e politica.
Per far ciò essi presero le mosse dall’esperienza drammatica del totalitarismo nazista. Ma la critica contro il nazismo fu interpretata essenzialmente come critica contro un concetto di statalismo nel quale erano confluite esperienze storiche eterogenee e diversificate, come abbiamo visto. La politica economica nazista, dunque, fu utilizzata come testa di ponte per poter lanciare un nuovo programma antistatalista e neoliberale che si fondava proprio su quell’invariante antiliberale che era stata
54
Per approfondimenti si veda L.von Mises, F. von Hayek, Il realismo politico di Ludwig von Mises e
Friedrich von Hayek. Antologia, a cura di G. Vestuti, Giuffrè, Milano, 1987.
55
Il termine ordoliberalismo deriva dalla rivista “Ordo”, fondata da Eucken nel 1940. Intorno a questa rivista si riunirono i più importanti intellettuali ed economisti della scuola di Friburgo.
166
elaborata tenendo insieme esperienze economico – politiche molto distanti tra loro. Dunque, l’interpretazione del ruolo storico, politico ed economico che nel contesto nazista ebbe lo stato fu profondamente influenzata all’obiettivo antistatalista che tali teorici si proponevano. Essi non presero in considerazione il ruolo ben più importante che l’orizzonte del sangue e del Volk avevano rispetto allo stato. Inoltre, non si considerò né il principio di funzionamento fondante della catena di comando nazista, il Fϋhrertum (principio della conduzione), né la centralità della burocrazia di partito rispetto a quella dello stato. È evidente, dunque, che i teorici neoliberali tedeschi cercarono e trovarono nel nazismo un modello che fungesse da invariante
antiliberale e che costituisse uno strumento di validazione del discorso di potere che
si accingevano a proporre. Ciò li condusse a rovesciare la prospettiva liberale che ammetteva la coesistenza di libertà di mercato e controllo statale. Gli ordoliberali, infatti, sostennero che fosse necessario fare della libertà di mercato non tanto uno strumento di limitazione del potere statale quanto un principio regolatore di questo. All’individuazione dell’invarianza, dunque, seguì un’operazione teorica che pose l’economia di mercato alla base di un nuovo principio oikonomico – governamentale. In altri termini, non si trattava più di concedere spazi di libertà all’economia ma di fare del mercato un modello di riforma delle società e dello stato. È questa l’importante posta in gioco del neoliberalismo tedesco: spostare l’ordine del discorso governamentale verso il mercato, porre lo “stato sotto la sorveglianza del mercato” e non il “mercato sotto la sorveglianza dello stato”56.
È interessante sottolineare che tale spostamento dell’ordine del discorso non si determina al di fuori delle regole del diritto ma presuppone la politica del low ed
order che i neoliberali tedeschi e sopratutto americani ereditarono dalla tradizione
liberale. Infatti, è all’interno del quadro dello stato di diritto che va posta la progressiva presa in carico dello stato da parte del mercato. Nella dottrina liberale questo presupposto aveva scardinato l’idea dell’esistenza di un ordine naturale di mercato già a partire dal XIX secolo. Le teorie neoliberali ottocentesche, rispetto a quelle diffuse nel secolo precedente, non solo non credettero più al laissez – faire ma ritennero necessario esprimere un quadro generale e formale entro il quale il sistema di mercato potesse diffondersi ed affrontare i processi di cambiamento. I neoliberali, ad esempio, recepirono le teorizzazioni di Schumpeter nei termini di un superamento della prospettiva pessimistica che avrebbe condotto l’economia capitalistica al declino. Tale riflessione ebbe il merito di mostrare i cicli di trasformazione economica del capitalismo, di raccontare la nascita ed il declino del capitalismo. La crisi del capitalismo, secondo Schumpeter, doveva essere imputata a fattori esterni al capitalismo stesso. Ad esempio, analizzando il sistema della concorrenza, l’autore poneva l’attenzione sui fenomeni monopolistici che erano considerati come dei processi estrinseci alla logica del mercato concorrenziale. I fattori di squilibrio, dunque, dovevano essere ricercati all’esterno, nel clima istituzionale, sociale, politico, ecc.
A questo pessimismo i neoliberali risposero proponendo un modello economico fondato sulla regolazione giuridica di quadro. La crisi del capitalismo, essendo dovuta a fattori esterni al mercato, poteva essere scongiurata presupponendo una
56
167
politica economica che prevenisse gli squilibri del sistema. Ciò, però, attraverso delle misure giuridiche che, al contrario delle politiche di piano, fornissero solo delle indicazioni generali e formali entro le quali i veri e propri processi economici fossero liberi di svilupparsi.
La differenza tra pianificazione economica e politica di quadro è messa in evidenza anche da von Hayek (“The road to Serfdom”). Egli enumera alcune caratteristiche del piano economico. Questo possiede una finalità o un obiettivo da raggiungere; in secondo luogo, non è sempre rettificabile; infine, è realizzabile solo da un potere pubblico che esercita funzioni di decisione. In ogni caso, una politica di piano implica sempre scelte sostanziali che siano prese da autorità pubbliche in campo economico. A questo modello, dunque, l’autore contrappone l’interventismo giuridico che si sviluppa sul piano dello stato di diritto. Tale sistema, fondato sulla generalità della legge e sulla separazione tra potere legislativo e potere amministrativo, muove dall’applicazione di principi formali ed implica che l’ordine giuridico - economico escluda di fatto l’esistenza di un soggetto universale capace di dominare dall’alto i processi, di fissare i fini e di sostituirsi agli agenti economici nel processo decisionale. Ciò significa che sulla base della costituzione formale e generica della “regola” garantita dallo stato di diritto è possibile prendere decisioni “empiriche” via via applicabili che non interferiscono nel merito degli atteggiamenti e delle condotte economiche degli agenti. È questa la concezione complessiva dell’interventismo giuridico e governamentale al quale fanno riferimento teorici neoliberali come Eucken e Röpke.
Ma c’è un altro aspetto centrale della dottrina ordoliberale che confluirà in quella che viene definita come economia sociale d’impresa: la centralità della sfera giudiziaria. Se è vero che la costituzione formale della legge pone le regole del gioco economico entro le quali ciascun attore economico rimane padrone di se stesso e dei propri comportamenti, allora “il giudiziario, anziché essere ridotto alla semplice funzione
dell’applicazione della legge, finisce con l’acquisire un’autonomia ed un’importanza nuove”57. La formalità della legge non soltanto comporta l’inevitabile aumento delle frizioni interne ed un’intensificazione dei poteri di arbitraggio ma organizza i poteri dello stato intorno alla centralità delle istituzioni giudiziarie.
Insomma, più la legge diventa formale, più l’intervento giudiziario diventa frequente. E quanto più gli interventi governativi della potenza pubblica tendono a formalizzarsi, quanto più l’intervento amministrativo arretra, tanto più la giustizia tende a diventare, e deve diventare, un servizio pubblico onnipresente58.
Mettendo in luce questo punto di vista Foucault sottolinea alcuni aspetti centrali della dottrina neoliberale che professa, accanto alla libertà di mercato ed alla tutela della proprietà privata, l’esistenza di apparati giuridici regolatori e di istituzioni giudiziarie che dirimano i conflitti. L’ordoliberalismo, infatti, si appella ad un importante concetto di giustizia sociale su basi economiche. Ciò nonostante ritengo eccessiva la netta schematizzazione foucaultiana per cui l’economia sociale di impresa condurrebbe ad un rafforzamento del potere giudiziario e ad un arretramento di
57
M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 – 79), op. cit., p. 148.
58
168
quello amministrativo. Non bisogna dimenticare che molti teorici hanno sottolineato l’enorme influsso che l’intensificazione dei poteri amministrativo – regolamentari hanno avuto nelle politiche securitarie di molti paesi capitalisti moderni. L’estensione delle misure di intervento straordinario anche in situazioni che richiederebbero un ordinario trattamento legislativo testimonia dell’inesorabile erosione della legge e dello stato di diritto anche entro contesti considerati formalmente democratici. Si tratta, sostiene G. Agamben riprendendo fondamentali argomentazioni benjaminiane59, di situazioni che implicano il ricorso sempre più massiccio a misure emergenziali che divengono misure “normali”. Nel momento in cui, infatti, lo stato d’eccezione diviene permanente si ha una lenta erosione della legge a vantaggio della norma e della legittimità legislativa verso la normatività amministrativo – emergenziale. Dunque, in questo caso, non sarebbe il potere giudiziario a prevale su quello amministrativo ma viceversa. Credo che tale dicotomia possa essere superata sulla base di uno dei presupposti fondamentali della dottrina neoliberale: la formalità della legge.
Ricorrendo alla nota distinzione schmittiana tra legittimità e legalità60, ritengo che un sistema economico che si vuole fondato sulla formalità della legge non escluda il rischio di degenerazioni amministrative che potrebbero fare della discrezionalità o