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Metafisica della vita: paradossalità antropologica, volontà, desiderio

1.Ordine del discorso antropologico: vita, organismo sociale, lavoro

2.3 Metafisica della vita: paradossalità antropologica, volontà, desiderio

Se la riflessione kantiana inaugurò una stagione filosofica che pose l’uomo al centro di un vero e proprio paradosso, la misura ed i confini dello scarto antropologico si ampliarono nella filosofia di A. Schopenhauer. La ripresa delle tematiche kantiane, infatti, ha nella filosofia schopenhaueriana la duplice conseguenza di consolidare il dualismo tra fenomeno e noumeno, indicando nella condizione umana la dimensione del limite, ed operando una svalutazione della sfera esperienziale. Infatti, mentre Kant pose a fondamento dell’inconoscibilità noumenica delle cose la loro autonoma

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esistenza fenomenica, Schopenhauer, partendo dal medesimo dualismo che impone la reciproca non appartenenza tra cosa in sé e fenomeno, condusse la propria riflessione verso la svalutazione del mondo sensibile. Questo diviene un vero e proprio teatro di ombre nel quale i fenomeni si rapportano tra loro sottoforma di

rappresentazioni. Al di sotto dei fenomeni esiste, invece, una volontà unificante che

costituisce il nucleo nascosto ma vitale di tutte gli enti. Dunque, per Schopenhauer la cosa in sé contiene ed attrae nella propria unità la molteplicità delle apparenze, componendole in un’immagine del mondo46.

In questo contesto l’uomo occupa una posizione particolare. Le forme dell’intelletto umano, infatti, costituiscono ed ordinano il mondo percepibile. La costruzione del mondo materiale procede secondo il principio di ragione che, strutturando i fenomeni in rapporti reciproci di connessione e limitazione, fa di questi l’oggetto della nostra conoscenza ed intuizione. I fenomeni, infatti, si dispongono in rapporti di reciproca limitazione in base alle categorie dello spazio e del tempo; la categoria di causalità, invece, determina delle relazioni di concatenazione per cui ogni fenomeno diviene causa di quello successivo. Nell’uomo, al contrario degli oggetti inanimati e delle piante, la causalità assume il nome di motivazione47. I rapporti naturali, dunque, sono strutturati intorno a questi equilibri causali che fanno degli oggetti delle realtà sperimentabili per l’intelletto umano solo in forma limitata, relativa, finita. Dunque, l’intelletto umano opera ponendo i contenuti fenomenici in rapporti di connessione causale e di limitazione reciproca che attribuiscono agli oggetti un proprio posto specifico. L’oggettivazione avviene attraverso la reciproca auto – limitazione dei

fenomeni che trovano il loro posto nel mondo per mezzo di un processo di

determinazione dall’altro.

Ma anche la relatività del mondo può per Schopenhauer essere considerata una modalità dell’Essere, una delle molteplici forme che la volontà assume nella sfera della rappresentazione. Di questa, infatti, si può intuire l’origine a partire dalla consapevolezza che la concatenazione assoluta delle cause deve avere un principio

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Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit.

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Schopenhauer chiarisce questo aspetto nel saggio “La libertà del volere umano”, scritto nel 1837 in occasione della partecipazione ad un concorso indetto dalla Reale Accademia Norvegese delle scienze di Drontheim. Nel mondo inorganico, dunque, il movimento si determina sulla base di cause in virtù delle quali si generano a loro volta mutamenti meccanici, fisici e chimici. In essi azione e reazione sono sempre uguali tra loro ed il grado dell’effetto è uguale al grado della causa. Nel mondo organico vegetale, invece, la causalità si manifesta mediante stimoli, cioè movimenti che non subiscono reazioni corrispondenti alle azioni e che non sono caratterizzati da alcuna proporzionalità tra intensità della causa ed intensità dell’effetto. Il mondo organico animale ed umano, infine, è contraddistinto dalle motivazioni. In esso la causalità passa attraverso la facoltà di conoscere ed i bisogni vitali non sono soddisfatti automaticamente dagli stimoli ma sono inclusi in un regime di possibilità d’azione che schiude agli esseri più complessi la sfera della scelta. Ciò significa che l’uomo può ricercare attivamente i mezzi della propria soddisfazione attraverso la facoltà di rappresentazione dell’intelletto. Questa, inoltre, può avere differenti gradazioni, dai livelli meno specializzati del mondo animale, che trova la propria causalità in motivazioni immediate e visibili, ai gradi più complessi del mondo umano, che agisce mediante rappresentazioni che evocano o creano nell’intelletto oggetti non presenti e non immediatamente a disposizione e li organizza nella coscienza. La strutturazione motivazionale della causalità umana sulla base della facoltà conoscitiva e di scelta racchiude un importante problema della filosofia schopenhaueriana ed uno dei quesiti fondamentali che condusse il filosofo ad approfondire, sulla scia di Kant, la tematica della positività o negatività della libertà umana. Per approfondimenti si veda A. Schopenhauer, La libertà del volere umano, trad. it. di V. Morfino e M. Vanzulli, Mondadori, Milano, 1998.

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che le unifica. Tale intuizione a cui si giunge a partire dalla conoscenza dell’infinita relatività dei fenomeni, non implica, però, che di tale origine si possa conoscere la ragione intrinseca, cioè il modo in cui dà vita alle cose, alle forze ed alle determinazioni del mondo. La relatività del mondo riposa sulla differenza; è la differenza che rende possibile il fenomeno come riflesso illanguidito della volontà unificante. Ma ciò fa sì che il mondo appaia a Schopenhauer come irreale, come un insieme di forme separate dalla realtà che le fonda e le unifica. Se la volontà si trova dietro i fenomeni essa è celata, nascosta, inaccessibile. Da ciò il filosofo conclude che la realtà è l’opposto di ogni apparenza ed il fenomeno costituisce un puro mezzo per assegnare alla cosa in sé uno statuto assoluto.

Nello stesso tempo, però, la filosofia schopenhaueriana non può non rendere conto della relatività del mondo della rappresentazione, dell’esistenza relazionale dei fenomeni. Se è vero che esiste una differenza assoluta tra volontà e rappresentazione è anche vero che i fenomeni partecipano e portano con sé, a diversi livelli, il riflesso di quella volontà che si cela dietro di loro. L’uomo, essendo posto al vertice della gerarchia della natura ed essendo l’unico essere che agisce per mezzo di un senso

interno che si identifica con la coscienza, costituisce il cardine tra mondo

fenomenico e mondo noumenico. Da ciò l’importante funzione che la tematica antropologica assume nella filosofia di Schopenhauer. L’uomo, infatti, partecipa di una duplice natura: con il proprio corpo è inserito nella relatività dei rapporti causali e dei limiti naturali. In quanto essere naturale, dunque, egli è corpo tra i corpi e fenomeno tra i fenomeni48. La sua materialità ed il suo movimento nascono dalle leggi naturali che lo accomunano a tutti gli altri oggetti. Ma l’uomo ha anche un’essenza intima, inconoscibile all’esterno ma presente sottoforma di motivazioni che spingono all’azione. Quest’ultima dev’essere interpretata come manifestazione della volontà, non come volontà in sé. Se l’in sé della volontà, infatti, non può mai essere attuale, il desiderio come singola volizione e come atto della volontà è il riflesso dell’Essere totale che è presente al proprio interno.

Bisogna, dunque, soffermare l’attenzione sulla differenza tra volontà e desiderio. Il desiderio è ciò che si realizza nell’atto o nella motivazione mentre la volontà è quella forza o potenza che precede e segue, sia l’uno che l’altra. La differenza, dunque, non risiede nel carattere effettivo o solo motivato del volere. Singole motivazioni o singoli atti esperiti e realizzati dall’uomo non costituiscono, infatti, la volontà come cosa in sé. Esse sono volizioni o desideri che possono raggiungere o meno la condizione attuale e che investono, comunque, il corpo dell’uomo. Questo subisce, dunque, delle alterazioni, degli stimoli che sono espressione riflessa della volontà che

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Riprendendo la nota distinzione di Bichat tra vita organica e vita animale, Schopenhauer individua la via d’accesso del mondo della volontà nella dimensione organico – vegetativa, relegando, invece, la vita relazionale alla sfera della pura rappresentazione. Dunque la condizione corporea più vicina alla sfera dell’essere è, secondo il filosofo, la pura esistenza organica. Tutto ciò è conforme alla rappresentazione epistemologica che la scienza moderna attribuisce alla condizione vitale dell’uomo. La vita è concepita in termini biologico – organici e, come sostiene Bichat, è ciò che si oppone alla morte. In linea con la fisiologia, la filosofia di Schopenhauer si pone in continuità con le tesi che fanno della morte la condizione originaria e preminente della vita. Questa constatazione nasce dall’osservazione dell’aspro conflitto che anima la natura a tutti i livelli. La lotta per l’esistenza può essere interrotta dalla preminenza di forze che si impongono su altre; è questo il senso del relativismo biologico che caratterizza la condizione d’esistenza dei corpi e degli organismi naturali.

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lo anima dall’interno. Tali stimoli possono essere piacevoli o dolorosi a seconda che siano conformi o meno alla volontà che li ha originati. Lo stimolo non conforme alla volontà e, come tale, doloroso non è escluso dalla sfera delle sensazioni corporee dell’uomo. Nella filosofia schopenhaueriana non esiste dolore che in assoluto l’uomo può non volere. Il carattere doloroso di un’impressione, infatti, non è la causa della volontà ma solo la conseguenza di questa. Ciò significa che non è il dolore che spinge a non volere una cosa ma il non volere a generare dolore. Dunque, il dolore costituisce la violenza della nostra volontà che si riflette sul corpo. Anche le affezioni piacevoli non sono che la conseguenza della forza con cui la volontà fa sentire i propri impulsi sul corpo. Sia piacere che dolore, dunque, non sono semplici intensità emotive ma rappresentano le differenti modalità fenomeniche attraverso cui la volontà si esprime.

Essi sono segnali di una condizione esistenziale che è ontologicamente negativa. Infatti, la condizione di dolore che secondo Schopenhauer contraddistingue la vita non è una semplice manifestazione dello squilibrio quantitativo delle sensazioni spiacevoli rispetto a quelle piacevoli. Essa non è semplice affezione ma è carenza ontologica. Ciò significa che, a fianco alle sensazioni di dolore e piacere che si rincorrono tra loro nei singoli atti o moventi, esiste il dolore come condizione antropologica. Il dolore struttura l’esistenza dell’uomo nella misura in cui racchiude l’incessante ed incolmabile scarto presente tra il volere e la volontà. La vita umana, infatti, come quella di tutti gli altri enti che con intensità diverse sono in rapporto tra loro nel mondo sensibile, si esprime in un’incessante sete di volere, cioè in un’infinita successione di desideri e di atti volitivi che racchiudono nella loro incolmabilità la scissione tra volontà e rappresentazione. La vita dell’uomo, in particolare, essendo sospesa tra queste due sfere è lo scenario nel quale si struttura il paradosso costitutivo del desiderio: la sua essenza è riposta nella sua impossibilità. La vita, dunque, è dolore nella misura in cui è impossibilità. Ciò a cui la vita fisica aspira, infatti, è di ricongiungersi con l’essere che l’ha generata, cioè la volontà. Ma vita fisica e volontà non possono in alcun modo coincidere. La vita è solo il riflesso illanguidito, la maschera che la volontà assume nel mondo della rappresentazione. Per questo la vita è dolore, lo è al fondo di se stessa. Addirittura, Schopenhauer si spinge a sostenere che la vita dovrebbe semplicemente negare se stessa, ritornare alla totalità da cui deriva.

Questo esito estremo non costituisce l’ultima parola della riflessione schopenhaueriana. Le vie che il filosofo propone per liberare la vita dall’angoscia e della noia alle quali è sospesa sono quella estetica, non pienamente risolutiva, e quella ascetica. Da ciò si può concludere che la volontà umana deve essere intesa come una non - volontà di vita, o meglio, come una volontà che o si accontenta di essere il riflesso sbiadito di una dimensione più profonda, inaccessibile o trova un senso solamente nella negazione di se stessa. La condizione che caratterizza la vita umana è, dunque, l’impotenza, cioè la ricerca costante di una potenza che le sfugge che non può realizzare, di una volontà che non può essere colmata nel mondo della rappresentazione.

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Nonostante ciò, l’uomo è l’unico essere che può avvertire il riflesso interiore della volontà nel mondo fenomenico. L’esserci pratico dell’uomo è contraddistinto dall’interrelazione tra oggettività e soggettività. L’essere umano, da una parte si auto – osserva come oggetto nel mondo fenomenico, dall’altra è soggetto dotato di senso interno. Mentre, infatti, l’uomo nell’atto conoscitivo si percepisce come fenomeno, ha, però, anche coscienza di derivare da qualcosa. Dunque, si percepisce sia come vita oggettiva, fenomenica, sia come riflesso cosciente dell’essere originario. Ciò non significa che l’essere umano possa in alcun modo accedere all’origine; egli può, però, percepirsi come riflesso fenomenico di questa e può pensare la propria natura fisica come animata dal fondo inaccessibile e segreto che struttura tutte le cose. Anche in questo contesto, così come nella filosofia kantiana, possiamo notare la duplice costruzione che anima il paradosso dell’umano; l’uomo è allo stesso tempo condizione di possibilità e limite, spettatore ed attore della propria esistenza. Il soggetto schopenhaueriano è, come suggerisce G. Simmel, “cittadino dei due

mondi”:

Su questa posizione del soggetto come proprietà comune dell’apparire e della cosa in sé, come cittadino dei due mondi, si radica la metafisica di Schopenhauer e si stabilisce la direzione del percorso, secondo la quale egli perviene all’assoluto dell’Esserci. L’uomo trova sé come apparenza corporea, corpo tra corpi. La sua materia ed i suoi movimenti sono stabiliti secondo una legge così naturale come tutti gli altri oggetti, i suoi atti avvengono nella stretta causalità di impulsi, stimoli, motivi. Così dunque è evidente la nostra vita, se la consideriamo in modo puramente oggettivo, tanto comprensibile come ogni altro fenomeno, quanto enigmatica secondo la sua essenza intima. I movimenti del nostro corpo, però, ci sono dati ancora in un modo del tutto diverso da questo esteriore, nello stesso tempo, cioè, come azioni della nostra volontà. Ciò che diventa visibile come nostro movimento è intimamente azione della nostra volontà e viceversa: ogni vero atto della nostra volontà è inevitabilmente e immediatamente anche un’innervazione fisica.49

La duplice natura dell’uomo costituisce, dunque, il confine tra singolarità e totalità, tra accidentalità spazio temporale e volontà. La tematica della libertà umana, mai pienamente incondizionata, nasce proprio da questa paradossale posizione che fa dell’uomo il limite ed, insieme, la possibilità dell’Esserci. La libertà, infatti, si dischiude nell’uomo solo come spazio di possibilità non attuate né attualizzabili. La libertà, si identifica, dunque, con la volontà libera che, però, solo nella sfera noumenica può essere considerata positiva. La coscienza dell’uomo può cogliere solo il riflesso di quella positività che gli viene restituita sempre in forma negativa, fenomenica. La sfera intermedia tra l’essere ed il conoscere si riflette nella terzietà antropologica che è caratterizzata dalla libertà negativa dell’agire umano. Sospeso tra la volontà assoluta e lo scacco del desiderio o della motivazione l’uomo, infatti, può ritagliarsi una sfera di libertà che è parziale presa di distanza dalla necessità fisica. Schopenhauer affronta la problematica della libertà in un saggio dal titolo “La libertà

del volere umano”50. In esso l’autore mette esplicitamente in relazione il concetto di

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G. Simmel, Schopenhauer e Nietzsche, a cura di A. Olivieri, Ponte alle Grazie, Firenze, 1995, pp. 42 - 43.

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libertà con quello di necessità. L’accezione positiva può discendere solo da una definizione astratta della libertà, escludente la dimensione della necessità. Questa è intesa come ciò che segue una ragion sufficiente. Ogni qual volta una ragione è data ne scaturiscono delle conseguenze. La necessità sorge proprio dal fatto che ogni ragione dà luogo a delle conseguenze. Dunque, quando noi riconosciamo qualcosa come conseguenza di una ragione data, ne riconosciamo la necessità. Ora, il mondo fenomenico è fondato sulla ragion sufficiente, ossia ogni azione che l’uomo compie, pur essendo apparentemente sottoposta ad alternative, segue sempre una medesima volontà che la origina e che non si risolve né nei moventi (o motivi) né nelle azioni che spesso li seguono. Dunque, la volontà è libera in astratto ma non in riferimento alla sfera dell’agire umano che rimane contrassegnata dalla necessità che inchioda l’uomo al mondo. Una volontà assolutamente libera sarebbe, dunque, quella che non fosse determinata da ragioni, cioè da nulla; sarebbe una volontà le cui manifestazioni singolari sorgerebbero in modo originario indipendentemente da ogni legame causale e da ogni regola logica. In questo caso, cioè, il principio di ragione dovrebbe essere eliminato in tutti i suoi significati.

Schopenhauer respinge tale definizione della libertà in relazione alla sfera fenomenica dell’uomo. La libertà umana può essere solo negativa, in quanto, è inconcepibile nel mondo della rappresentazione pensare gli enti some assolutamente indipendenti dalla necessità che può assumere la forma di cause, stimoli o motivazioni. Quest’ultime contraddistinguono l’uomo e sono le forme più elevate e autonome della libertà empirica, in quanto consentono di agire non soltanto per costrizione o contiguità tra stimolo e riflesso, tra causa ed effetto, ma mediante la produzione intellettuale di rappresentazioni che aprono lo spazio di possibilità entro la sfera dell’agire. Nonostante ciò l’agire umano non può dirsi libero in senso positivo. Esso è doppiamente determinato, in primo luogo dal carattere che nell’uomo rappresenta una disposizione individuale, empirica ed innata ed in secondo luogo dalla necessità esterna. Tra questi due vincoli si apre uno spazio di

autonomia che è anch’esso negativo. Dunque, l’illusione dell’uomo di essere

animato da un volere che lo rende libero è infondato se si pensa tale libertà come possibilità di scelta autonoma. Il volere è libero solo in se stesso. “Io sono libero

perché sono volontà”: questa è l’espressione adeguata alla libertà positiva. Questa,

dunque, è caratterizzata da un puro volere privo d’oggetto e di fini. Le singole volizioni o i desideri, infatti, danno luogo ad un agire libero solo in quanto necessario. Ciò dipende dal fatto che l’uomo è già quello che vuole. É questa la base della dialettica paradossale della volontà. Il volere è un rincorrere una volontà irraggiungibile e la libertà umana è lo spazio che si apre tra un desiderare ed un altro. Se nella filosofia kantiana lo spazio di libertà dell’uomo è ritagliato a partire dall’imperativo categorico che pone la forma universale del dovere morale come presupposto dell’autonomia, in Schopenhauer la libertà umana si trasforma in un paradossale reciproco vincolo tra volontà e necessità. La liberta negativa dell’uomo non discende più dall’impossibilità di estendere alla conoscenza ciò che è pensabile; essa nasce dall’impossibilità di conoscere la volontà come essenza autentica delle cose, dunque, di conoscere l’essere. Sul piano fenomenico ciò che non è pensabile esiste anche se nella forma riflessa della rappresentazione. Ma questa rimane

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separata, inaccessibile in profondità. Dunque, ciò che è esiste ma per far ciò deve negare il fenomeno attraverso il quale solo può manifestarsi.

Questa contraddizione non si pone solo sul piano logico: rappresenta il cuore della metafisica schopenhaueriana. Tra conoscenza ed essere si estende la sfera infinita della metafisica che investe anche l’uomo sospendendolo tra volere e volontà, tra forme viventi e vita. Lo slittamento significativo dalla ragione alla volontà introduce l’essere umano ad una metafisica della vita, di cui la volontà libera rappresenta il principio vivificante. Ma da ciò deriva anche una conseguenza che potrebbe, come nota Simmel, attenuare la portata pessimistica della filosofia schopenhaueriana. Se la condizione di impossibilità è la dimensione che rende la vita costitutivamente negativa e la conduce verso l’annullamento di se stessa, rappresenta, però, anche l’apertura alla possibilità di cui ogni esistenza attuale ha estremamente bisogno per vivere. Con apertura alla possibilità Simmel intende la speranza che è riposta in ogni oltrepassamento, cioè la felicita che preannunzia la proiezione di ciò che è attuale in ciò che è potenziale. Il filosofo sostiene che nella filosofia schopenhaueriana l’incolmabilità del desiderio può essere sfumata dalla seguente considerazione: il