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L’approccio transculturale nella relazione di aiuto nei percorsi di accompagnamento: quali mediazioni?

la prospettiva transculturale tra accoglienza, azione pedagogica e processi d’inclusione

2. L’approccio transculturale nella relazione di aiuto nei percorsi di accompagnamento: quali mediazioni?

Ma come organizzare l’accoglienza, favorire l’inclusione nei vari con- testi di vita dalla società alla scuola, e proporre un accompagnamento ade- guato per le situazioni più complesse e difficili?

Per ragionare sulle pratiche di accoglienza e di mediazione bisogna partire dalle elaborazioni fatte dallo psicopedagogista sovietico Lev Vygotskij, dallo psicologo John. W. Berry e dal fondatore dell’etnopsico- logia e psicologia transculturale Georges Devereux che sono le tre figure di riferimento teorico e metodologico più importanti per chi si occupa nelle situazioni di transizione multiculturale e di relazione di aiuto sia nel campo dell’educazione che della cura. Dai loro lavori si è sviluppata una serie di piste di ricerche sullo sviluppo umano, gli apprendimenti, la psicoterapia e la comunicazione in contesti multiculturali e meticciati. In Italia dai loro studi si sono sviluppate una serie di esperienze interessanti sia nell’ambito dei percorsi d’inclusione a scuola che in quello dei servizi sociosanitari.

Ma quali sono gli aspetti utili oggi dei loro lavori per chi opera sul campo? Quale rapporto esiste tra i loro approcci e quella che oggi viene de- finita come resilienza?

2.1. Pratiche di mediazione e dimensione storico-culturale dello sviluppo in Lev Vygotskij: partire dalle potenzialità

Per Lev Vygotskij il linguaggio è un mediatore fondamentale nella co- municazione sociale, regola le relazioni umane, veicola delle rappresenta- zioni e svolge un ruolo importante nella strutturazione del pensiero. Secon- do lui, nel processo di apprendimento, in questa fase transculturale, siamo in una posizione di formazione reciproca e in una dinamica complessa fatta di superamento di criticità con la definizione costante di nuovi punti di equilibrio nello sviluppo. Non esiste un apprendimento fuori dal contesto storico-culturale concreto e dalle condizioni sociali, per questa ragione oc- corre partire dalla conoscenza delle persone perché questa conoscenza ci permette di comprendere e quindi di attivare delle mediazioni adeguate a favorire lo sviluppo di tutte le potenzialità del soggetto, ma anche del con- testo nel senso del riconoscimento delle differenze.

tendo dalla sua esperienza con bambini che presentano delle disabilità e dagli studi di etnopsicologia degli apprendimenti in una ricerca comparativa tra parte occidentale dell’Unione Sovietica e la parte asiatica, dimostra che esi- stono diverse forme di intelligenza e che i bambini asiatici hanno le medesi- me potenzialità di quelli europei, ma che le esprimono in modo diverso.

Mediazioni, zona di sviluppo prossimale e potenziale e dimensione so- ciale e storico-culturale sono i tre concetti fondamentali dell’approccio vygotskijano.

Mediazioni e mediatori – Il linguaggio, o meglio i linguaggi, sono i mediatori socioculturali per eccellenza, sono quelli che organizzano le nostre funzioni simboliche e strutturano le nostre capacità cognitive. Ma esistono altre mediazioni importanti come le forme dell’acco- glienza, l’organizzazione degli spazi di vita, le modalità della relazione a livello sociale e intersoggettivo.

La zona di sviluppo prossimale e potenziale – Vygotskij parte dal pre- supposto che bisogna sempre iniziare dalle potenzialità sia dei soggetti (dell’alunno che apprende, compreso il bambino con disabilità, del- l’immigrato che arriva con un bagaglio di esperienze e conoscenze) che dei contesti. Un’indicazione importante sul piano degli apprendimenti è quella di saper osservare e ascoltare l’alunno per cogliere il suo profilo potenziale di apprendimento, individuare la sua “zona di sviluppo pros- simale”, cioè la zona che c’è tra le sue capacità “naturali” e quelle che può esprimere con determinate mediazioni o l’uso di mediatori (facili- tazioni e supporti). Nell’interazione tra il soggetto e il contesto sono importanti le risorse che questo può attivare per favorire apprendimenti e inclusione.

La dimensione sociale e storico-culturale: eliminare barriere e handi- cap – Per Vygotskij occorre partire dalla situazione sociale e dalla realtà storico-culturale del contesto e del soggetto, dalle dinamiche so- ciali che possono favorire o ostacolare lo sviluppo. Sono le relazioni sociali e gli sguardi culturali che possono determinare la possibilità per uno sviluppo umano inclusivo e in grado di riconoscere le differenze. Pregiudizi, discriminazioni, forme di marginalizzazione ed esclusione diventano delle situazioni handicappanti, cioè che bloccano lo sviluppo positivo sia degli individui che della società.

2.2. L’approccio transculturale nella relazione di aiuto di John. W. Berry e di G. Devereux: relazione di cura e relazione educativa

Nella pratiche di mediazione, che sia nella società, a scuola o nel- l’ambito dei servizi alla persona, bisogna imparare a gestire le relazioni e

quindi la comunicazione in un contesto meticciato e multiculturale in cui le persone usano diversi codici e diversi linguaggi.

Per impostare in modo adeguato la relazione di cura o quella educativa bisogna usare gli strumenti e le metodologie dell’etnopsicologia e della psi- cologia transculturale. In questo campo si possono fare i nomi del britanni- co John. W. Berry con il suo studio Psicologia transculturale: teoria, ricer- ca e applicazioni (1999); in questo testo egli sviluppa la tesi del rapporto tra acculturazione, migrazione e ridefinizione dell’identità e afferma che “L’acculturazione (parte integrante del percorso migratorio) è il processo di cambiamento culturale e psicologico che deriva dal contatto interculturale”. Berry nota che vi sono quattro strategie di adattamento culturale (strategie che possono essere negative o positive): la strategia d’integrazione (non usa la parola inclusione), di assimilazione, di separazione e di marginalizzazio- ne. Nelle ultime tre, che sono il prodotto di un’interazione negativa e molto problematica con la società di arrivo del migrante, i gruppi minoritari ten- dono o a negare le proprie origini (aprendo grossi conflitti interiori), o a volersi separare identificandosi in modo rigido con le proprie origini al punto da marginalizzarsi dal resto della società oppure vivere una condi- zione di escluso disgregato.

Troviamo delle considerazioni simili nel lavoro di Georges Devereux, considerato il fondatore dell’etnopsichiatria e della psicologia transcultura- le, anche se nel suo caso vi è un’attenzione particolare al metodo e al nesso tra cultura, personalità, psicopatologia e percorsi di cura. Per la sua espe- rienza di meticcio culturale (figlio di una famiglia di origine ebraica e ma- giara in una città rumena, trasferito a Parigi poi negli Usa e in Vietnam do- ve svolge un lavoro antropologico con gli indiani delle riserve e le tribù Se- dang Moi, oltre che con gli immigrati) sviluppa una teoria, una metodologia di lavoro transculturale nell’ambito psicoterapeutico.

Ma quali sono le sue indicazioni pratiche utili per gli operatori dei servizi sia nell’ambito sociosanitario che scolastico-educativo? Per Devereux l’identità è sempre plurima e in evoluzione, è sempre relazionale e situata in un contesto storico e socioculturale specifico; l’identità è suddivisa in due dimensioni essenziali: la dimensione idiosincratica e quella etnoculturale.

La prima riguarda i meccanismi della psicologia del profondo (le emo- zioni che tutti gli umani provano a tutte le latitudini) che sono eguali per tutti gli esseri umani, il fondo comune, l’unità psichica del genere umano (che si palesa nelle situazioni di sofferenza) e la seconda che riguarda i contenuti di questi meccanismi che sono il prodotto di codificazione cultu- rali specifiche apprese attraverso l’educazione. Per questa ragione siamo tutti quanti insieme simili e diversi.

Per Devereux il modo migliore per comprendere l’altro è avere un approccio complementaristico che integri psicologia, sociologia e antro-

pologia nel processo di ascolto e di conoscenza dell’altro; a questo biso- gna aggiungere un atteggiamento aperto alla ricerca e adottare il princi- pio di indeterminazione, cioè l’idea che si possa conoscere l’altro fino a un certo punto, poiché esiste anche un’irriducibilità dell’identità di ognuno. Questa è la ragione che spinge Devereux, dal suo lavoro antro- pologico e psicologico con gli indiani delle riserve del Nord America e con gli immigrati, a soffermarsi sui processi di acculturazione (notando, come Berry, che esistono varie forme di acculturazione a secondo delle condizioni nelle quali avviene l’incontro tra persone di culture diverse) e sul loro impatto sullo sviluppo psicologico della persona migrante. Deve- reux elabora un modello di relazione di aiuto e di cura che si basa su al- cuni principi metodologici importanti in quella che, oggi, viene chiamata clinica transculturale:

• partire dalla traiettoria della singola persona e dai suoi vissuti;

• lasciare spazio al racconto e alla narrazione che la persona fa di sé, va- lidare il suo linguaggio e i codici che usa per raccontarsi;

• ascoltare mettendo tra parentesi i propri giudizi;

• gestire il proprio controtransfert, vale a dire gestire ciò che proiettiamo sull’altro (emozioni positive o negative, simpatie, antipatie, pregiudizi) e non difenderci da quello che proviamo a contatto con l’atro poiché è proprio ciò che ci permette di costruire lo spazio umano per l’incontro; • utilizzare la tecnica del decentramento che è una pratica di mediazio-

ne tra sé e sé, ma anche tra sé è l’altro; è un imparare ad autosservarsi nella relazione con l’altro e contemporaneamente un sapere essere in- sieme coinvolto sul piano umano e distante sul piano cognitivo e ri- flessivo;

• la relazione d’aiuto è dialogante e non giudicante; • tre rischi da evitare:

– medicalizzare comportamenti culturali che non capiamo; – culturalizzare la sofferenza psichica e tratti patologici;

– identificare la persona con un’unica dimensione della propria per- sonalità identitaria (tipo: è musulmano, è africano, è trisomico ecc.) perché la persona etichettata in modo “unidimensionale” subisce un impoverimento del proprio repertorio potenziale umano;

• creare uno spazio di ascolto comprensivo e di fiducia reciproca.

Questo approccio è quindi di tipo meta culturale; non si tratta di elabo- rare un dispositivo di terapia etnica poiché le realtà sono meticce e bisogna partire dalle singole biografie con i loro elementi soggettivi e collettivi. Sulla scia dei lavori di Devereux si è sviluppato tutto un filone di studi e di esperienze nell’ambito della clinica transculturale in Francia (vedi Marie- Rose Moro) e in Italia (vedi Piero Coppo, la Fondazione Cecchini Pace di Milano ecc.).

3. Inclusione scolastica e mediazione pedagogica: l’emergenza