Il contributo dei linguaggi artistici per favorire i processi di inclusione
4. Quale significato dare all’inclusione oggi?
Alla luce del percorso che sino a qui abbiamo tracciato, possiamo ora ripensare al termine usato e abusato di inclusione. Fino a qualche anno ad- dietro il vocabolo impiegato in Italia era integrazione, altri autori (vedi, per
esempio, Palmariggi 2013) hanno effettuato studi molto interessanti sulla genesi e sul significato dei due termini. Riassumiamo la questione dicendo che negli ultimi anni è stato introdotto inclusione, un inglesismo, che ha as- sunto i principali significati del suo predecessore integrazione, per neces- sità di adeguamento alla terminologia internazionale. Sottopongo alla vo- stra attenzione il parallelismo dei termini usati per le persone disabili, stra- niere o a rischio di marginalità. In tutti questi casi ci si propone l’inclu- sione. Sembra che tutte le persone fragili abbiano bisogno di interventi spe- ciali, dedicati, per trovare una piena riconoscibilità o diritto all’esistenza nel mondo in cui viviamo.
Ma ognuno di noi non attraversa fasi di fragilità nella propria vita? Allora la fragilità appartiene a ciascuno, è parte connaturata alla stessa umanità, il rischio, se si escludono le questioni correlate alle scelte perso- nali (il libero arbitrio), è di natura sociale o meglio dovuto alla condizione, non voluta, in cui una persona nasce, è spesso legato al Paese/famiglia/con- dizione sociale piuttosto che all’individuo.
Nonostante ci siano politiche precise e progetti europei, l’inclusione pa- re ancora un traguardo molto lontano. Se andiamo oltre ai corsi di forma- zione, agli addetti ai lavori, la civile convivenza o anche solo l’idea che si possano e si debbano trovare strade per una scuola, per servizi, per una so- cietà multiculturale è molto lontana dal pensiero mainstreaming. Non oc- corrono grandi approfondimenti culturali per comprenderlo, è sufficiente leggere un quotidiano, guardare un qualsiasi telegiornale o anche ascoltare la gente per strada o sui mezzi pubblici, per rendersi conto che la possibilità di convivenza tra popolazioni provenienti da diverse parti del mondo è for- temente messa in discussione anche qui, nel nostro Paese. Nonostante i progetti, i libri e gli studi la possibilità di inclusione pare essersi allontanata dalla visione della gente, anziché avvicinata. Tutti noi comprendiamo che, perché un cambiamento sia possibile, perché si possano mettere in atto strategie per raggiungere un obiettivo, occorre che questo sia pensabile.
A voi e a me rivolgo questo quesito: oggi, qui, in Italia, nella città dove abitate, è pensabile l’inclusione?
Mettere in atto strategie concrete per l’inclusione significa allora, oggi più che mai, tenere in grande conto la situazione in cui viviamo, non chiu- dere gli occhi ma continuare a osservare, a comprendere il nostro tempo, ad annusare l’aria, perché le progettualità messe in campo non siano la mera copia di altre o strategie di moda o mutuate da libri, ma la precisa risposta a ciò che l’analisi della situazione richiede. Il dibattito internazionale sui mi- granti si riverbera sulle posizioni contrapposte in Italia, ma se si scava al fondo delle varie tesi e discussioni, troviamo il grande tema della differen- za. La differenza è trattata, generalmente come un problema insormontabile da rigettare, rifiutare e possibilmente nemmeno vedere.
Saremo condannati per sempre a non comprendere che l’incontro con l’altro è parte integrante della storia umana e che tutte le soluzioni che han- no prodotto pesanti discriminazioni hanno condotto a sofferenze infinite e sono state storicamente perdenti?
Personalmente credo che, proprio in questo difficile e controverso pre- sente, occorra prendere in mano la propria storia e le sorti dell’umanità, al- meno per quel pezzetto che ce ne compete, testimoniando con la propria vita e con il proprio lavoro che le cose possono essere diverse, che un pre- sente e un futuro più umano e solidale è possibile e non è un atto benevo- lenza nei confronti di altri ma, in prima istanza, un cambiamento positivo per noi stessi che lo promuoviamo.
Oggi, in un tempo in cui, a causa della crisi economica e sociale, la sensazione di insicurezza rispetto ai beni di sussistenza e ai valori è diffusa tra la gente, è importante fornire uno spazio di riflessione e di pensiero sui limiti della nostra soggettività, del nostro punto di vista. I modelli che ci hanno insegnato, che sono stati tramandati attraverso le generazioni, non appaiono più adeguati per rispondere alle domande della realtà del mondo in cui viviamo. Occorre trovarne di nuovi ed efficaci per il tempo che stia- mo attraversando.
In un orizzonte come questo non ci sono ricette miracolose e neppure certezze. Una sola ci pare la strada: quella del lento e faticoso andare con tutti, nessuno escluso, utilizzando i problemi stessi come risorsa per il cammino. In questa dimensione progettuale sono compresi anche i bam- bini e i loro genitori, a maggior ragione se stranieri. I bambini sono capa- ci, se debitamente considerati, di esprimere la propria filosofia verso le cose più importanti della vita, hanno pensieri ed emozioni che possono essere da guida anche per gli adulti. In Italia abbiamo avuto la legge 285/19971, un testo breve ma denso che ha insegnato a tutto il Paese il la-
voro sociale attuato con progetti, partendo dai bambini, dalle loro fami- glie e dal loro ben-essere. I finanziamenti legati alla legge 285/1997 sono terminati da anni, se si escludono le grandi città metropolitane, credo in- vece che le strategie apprese non vadano dimenticate: una rivoluzione co- pernicana, passare dalla logica riparativa a quella della prevenzione attra- verso tavoli di lavoro territoriali multidisciplinari. E allora, se vogliamo progettare efficacemente per le nuove generazioni, ripartiamo in primo luogo proprio da loro e dai genitori, imparando dalle buone pratiche mes- se in atto sul territorio nazionale negli anni precedenti. Se, invece, consi- deriamo i professionisti che lavorano nei servizi è poi così vero che sono aperti a un mondo multietnico?
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Legge 28 agosto 1997, n. 285, “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportu- nità per l’infanzia e l’adolescenza”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 5 settem- bre 1997.
Ricordo Marcelo M. Suarez-Orozco, un luminare di chiara fama, in una conferenza a Milano, nel 2010, affermava, dati alla mano, che il mondo in- terculturale è una realtà mondiale e che anche nella vecchia società europea bisogna prendere atto che questo è già il presente e sarà il futuro del- l’umanità; eppure la nostra situazione contingente sembra essere molto lontana dal comprendere questo orizzonte di pensiero. Lavorare, oggi, per l’inclusione significa affrontare in senso contrario un fiume in piena, ma è uno sforzo che occorre compiere, pena l’imbarbarimento e il ritorno a posi- zioni di antica intolleranza.
In uno scenario come quello tratteggiato, quali strategie mettere in atto per supportare l’inclusione dei bambini e ragazzi stranieri e dei loro genito- ri? Si tratta di strategie specifiche o forse il cambiamento è da ricercare in una rimodulazione del modo di intendere la società in cui viviamo?
Non a caso, sempre più spesso, oggi, si cerca di condurre interventi che rinsaldino o addirittura creino legami all’interno del gruppo di appartenen- za, perché si costituisca una comunità in cui tutti abbiano posto, in cui, con il venire meno della disponibilità economica, ogni persona divenga risorsa per gli altri.
Forse, la chiave di accesso e successo, potrebbe essere la considerazio- ne dell’unicità e irripetibilità di ogni essere umano insieme alla necessità di dare ordine al caos, cercando di mettere in relazione tutti i problemi e le ri- sorse umane ed economiche per il conseguimento di un unico obiettivo, raggiunto non da un singolo professionista per un singolo utente, ma da é- quipe di lavoro multidisciplinari unite alle comunità di riferimento.
Senza presunzione, potrei affermare, a partire dalle pratiche educative condotte sul campo ma anche dalla letteratura, che una buona modalità progettuale per un lavoro inclusivo sul territorio e per la prevenzione del disagio dovrebbe contenere:
• un allargamento della rete sociale, in modo tale che possa comprendere sia le fasce alte che le fasce marginali della popolazione (se preferite porvi obiettivi più ampi mirate a un intervento di comunità o welfare generativo);
• porre al centro dell’intervento i bambini e i ragazzi stessi, le loro fami- glie, stranieri e autoctoni, in modo che non siano più fruitori di un ser- vizio ma creatori dello stesso;
• ricerca continua sia sul versante dei bambini e dei ragazzi, attraverso un’attenta mappatura dei bisogni, pensieri e fantasie delle nuove gene- razioni, sia attraverso tavoli di lavoro a cui partecipino team multipro- fessionali;
• utilizzo di linguaggi artistici per l’espressione e la comunicazione dei ragazzi partendo dalla vita di ogni giorno e non da temi, testi o percorsi precostituiti;
• produzione di cultura bambina con restituzione ai cittadini del territo- rio;
• costruzione di una mentalità che superi i particolarismi campanilistici che, tenendo conto delle peculiarità di ogni Paese, città, gruppo, etnia ecc., lavori su progetti comuni di ampio respiro;
• formazione continua, operativa e di qualità degli operatori inseriti nel progetto;
• ricostruzione della solidarietà e del dialogo tra le generazioni;
• sistematizzazione e restituzione dei dati raccolti attraverso pubblicazio- ne e pubblicizzazione degli stessi a livello locale e, se possibile, a più ampio respiro;
• la scuola deve essere uno dei poli principali dell’intervento, ma non il solo, e le azioni non devono essere condotte solo dagli insegnanti, ma da una pluralità di professionisti.
Questo elenco naturalmente non è esaustivo, può essere arricchito e modificato a seconda dei bisogni/problemi emergenti sul territorio di rife- rimento.
Vorrei ancora sottolineare che una delle doti che deve guidare gli ope- ratori sociali per scegliere la strategia più adatta è la curiosità, la voglia di assaggiare di tutto, per poter scegliere sensatamente rispetto al proprio contesto di applicazione, questo non significa continuare a cambiare moda- lità di intervento, ma avere una gamma più ampia di scelta. Occorre intra- prendere un ideale viaggio attraverso le buone pratiche inclusive, per cono- scere e comprendere quello che altri hanno fatto con successo per poter tracciare, anche in piccolo, il proprio. E, se non esiste un progetto perfetto, c’è il desiderio di compiere il proprio dovere civile al meglio, scegliendo in modo aderente alla realtà che ci circonda, ascoltando i bisogni della gente e, in questo caso, dei bambini e dei ragazzi, anche di quelli che ci paiono lontani o contrapposti al nostro modo di essere.