L’immigrazione è un fenomeno necessariamente evolutivo, determinato dalle dinamiche economiche, per cui come cambiano i flussi economici e le aree maggiormente produttive, mutano anche i flussi migratori. Questo si riflette anche nella gestione del fenomeno, come è ampiamente emerso nei focus group. Alcuni operatori sono ancora nella fase di registrazione dei cambiamenti, ma non sono ancora in grado di cambiare il servizio e di adattarlo alle nuove esigenze, nonostante la gestione dei servizi per immi- grati non sia un fenomeno recente.
Una parte dei problemi che alcuni Eas e Comuni stanno affrontando in questa delicata fase di riorganizzazione sono simili a quelli che la pubblica amministrazione ha dovuto gestire quando si sono creati gli ambiti territo-
riali. In alcuni casi, infatti, in seguito alla chiusura degli sportelli dedicati a questo tipo di utenza, gli operatori sono tornati a dover inserire in un unico calderone tutte le fasce deboli della società anche gli immigrati, non poten- do più dedicare loro un settore con interventi specifici.
La confusione e l’incertezza che questi operatori stanno vivendo non permettono neanche di costruire l’approccio culturale con il quale affronta- re il fenomeno. Senza volerci addentrare nel complesso dibattito su questi modelli (Castles e Miller 2012), sarebbe quantomeno opportuno che i deci- sori politici chiariscano se ritengono che gli immigrati debbano adattarsi alla società italiana, presupponendo dunque il modello assimilazionista, oppure se ritengono che gli immigrati costituiscono una categoria in sé dif- ferenziata e delle cui differenze è necessario tenere conto, supponendo in questo caso un modello multiculturale. Definire questo aspetto è indispen- sabile, perché soltanto in base all’approccio scelto si potranno costruire (o ricostruire) i servizi per questa parte della popolazione. Si auspica che con il nuovo piano sociosanitario regionale amministratori e funzionari della Regione decideranno a quale modello fare riferimento. Finora, stando a quanto emerso nei focus group, non è prevalso nessuno dei due modelli, dato che ogni Eas ha fatto le sue scelte di policy in base agli orientamenti politici e alle risorse a disposizione.
Il mutamento che stanno vivendo i servizi per immigrati dovrebbero o non dovrebbero tenere conto dell’efficienza? E chi dovrebbe valutare il grado di efficienza? La questione che va problematizzata riguarda la moda- lità in cui questi servizi si conformano all’iter delle procedure socialmente accettate per raggiungere qualità ed efficienza, dunque se i criteri sono sta- biliti all’esterno dei servizi pubblici per gli immigrati si apre una prospetti- va nuova che riguarda il modo in cui il contesto sociale esercita delle pres- sioni su questi servizi, oltre ai possibili conflitti tra le regole esterne e i cri- teri interni che l’organizzazione dovrebbe seguire in rapporto alle sue speci- fiche caratteristiche. Si tratta, in altre parole, di definire il grado di isomor- fismo ai mutamenti sociali tanto dei servizi per immigrati, quanto delle istituzioni regionali e statali alle esigenze degli immigrati (Bonazzi 2008).
I servizi per immigrati sono la Cenerentola dei servizi sociali, vuoi per- ché l’utenza immigrata è, in molti casi, mutevole, così sembra che sia con- sequenziale che molti degli operatori di questi servizi siano precari, vuoi perché, in termini più generali, negli ultimi tre decenni i sistemi nazionali hanno modificato in modo sensibile le politiche sociali. Questa situazione ha indotto alcuni autori a definire la nostra epoca come “l’età dell’argento di austerità permanente” (Pierson 1996; 2001; Taylor Gooby 2002).
Il mutamento dei sistemi di protezione sociale potrebbe avere un ri- svolto positivo se si direzionasse verso un empowerment, nel quale si dovrebbero coinvolgere operatori, stakeholder e decisori politici, come
in parte è stato fatto nei focus group. In ogni caso è un percorso che gli operatori dovrebbero tentare di intraprendere rivendicando il loro know- how ai decisori politici, ponendosi in maniera del tutto differente a co- me si sono posti durante i focus group, vale a dire in modo assertivo, proprio in funzione della costruzione di un empowerment (Paci 2005). In fondo gli operatori con il loro modus operandi agiscono da decisori politici, anche se in molti casi la loro azione comporta delle ambiguità, dovute alla relazione che instaurano con i decisori politici. La questione ruota attorno al loro margine di manovra sia con l’utenza, sia con gli stessi decisori politici e l’aspetto più rilevante è se e come riescono a influenzare questi ultimi.
In una fase di riorganizzazione è indispensabile avere chiaro l’assunto di base di quale deve essere il modello di welfare e valutare quali sono le possibilità per continuare a offrire servizi in maniera universale e gratuita. Per restare fedeli a questi due principi, quello che sembra essere il modello più realistico è il community welfare, a cui recentemente si fa sempre più riferimento (Ministero del Lavoro 2009; Cittalia, Fondazione Anci 2012). Il community welfare è una forma ampliata di welfare mix, perché comprende sia lo Stato, la famiglia e il mercato, sia le associazioni e più in generale la comunità. Gli elementi che contraddistinguono il community welfare dal welfare mix sono quattro:
• la compresenza di differenti categorie di regole o logiche di azione; • il posizionamento dei differenti soggetti (pubblico, privato profit, pri-
vato sociale, famiglie, comunità);
• il ruolo dei cittadini che diventa duplice, in quanto sono sia uten- ti/clienti, sia stakeholder/produttori di servizi;
• la ridefinizione del target, in quanto il community welfare non si limita a soddisfare le esigenze dei singoli utenti, ma pone l’attenzione al be- nessere della collettività.
Il community welfare in fondo è il prodotto dei processi di rescaling, perché in esso si sovrappongono e si mischiano oltre ai soggetti, i sistemi di regole e logiche di azione, che giungono a una pluralizzazione e diversifi- cazione dei modelli regolativi (Ponzo 2014). Tuttavia, si è visto che questa varietà di modelli e di offerte non è positiva, ma in ogni caso in questo quadro di riferimento dirigenti e operatori dei servizi per immigrati dovreb- bero sempre tenere presente che il territorio, con le sue istituzioni e le sue politiche sociali può svolgere un ruolo attivo nella realizzazione di forme avanzate di inclusione dei migranti, giungendo a un arricchimento recipro- co tra vecchi e nuovi residenti.
Arrivano perché sul nostro territorio ci sono familiari o ultimamente più ami- cizie, quindi si appoggiano spesso a persone che vivono loro stessi un disagio, que- sti non hanno la capacità di inserimento all’estero che avevano gli emigranti italia-
ni, perché anche le persone a cui si appoggiano hanno bisogno di un sostegno. Questo sostegno non si concretizza né da parte della famiglia o dei conoscenti, né da parte delle istituzioni, perché noi non abbiamo delle risposte mirate, abbiamo delle risposte quasi nulle. Probabilmente in questo territorio le catene migratorie non svolgono l’azione efficace che svolgono in altri territori. Di solito gli immi- grati che hanno un’occupazione difficilmente si rivolgono a noi, però poi vediamo che le persone che vengono da noi non hanno un ulteriore appoggio, e nel mo- mento in cui dobbiamo dare un aiuto ci troviamo in difficoltà.
Nel momento in cui i servizi sociali non hanno gli strumenti per aiutare le persone che vivono condizioni di fragilità il concetto di territorio andreb- be allargato e reso accessibile a tutti coloro che lo vivono, senza distinzioni di origine etnica o di passaporto, perché nel contesto attuale le catene mi- gratorie non riescono più a svolgere la loro funzione di supporto al- l’integrazione. Grazie a esse molto spesso gli immigrati appena giunti in Italia raramente si rivolgevano ai servizi sociali, ultimamente, invece, vi si rivolgono con sempre più frequenza.