Data tale cornice, è inevitabile l’esprimersi di proposte di welfare non omogenee, di modelli differenti nella gestione delle diversità etniche e cul- turali2, di procedure socioassistenziali o, all’opposto, di strategie orientate a
emancipare gli immigrati, considerati in veste di attori capaci di partecipare in modo attivo alle iniziative che li riguardano. Pertanto, se alcune realtà comunali si limitano a offrire servizi di base che operano soprattutto sul piano informativo-orientativo, in altre è registrabile un ventaglio di presta- zioni di dettaglio e servizi specializzati (quali l’orientamento e la mediazio- ne al lavoro, la formazione linguistica e quella professionale, l’accompa- gnamento, il tutoring) che aiutano a limitare le situazioni di diseguaglianza e a facilitare i contatti con la società ospite.
Dunque, il piano dei servizi per l’utenza straniera, oscillando fra propo- ste standardizzate di base e interventi promozionali, dà segno della man- canza, nella zona, di una prospettiva integrata quantunque la Regione Abruzzo, attraverso la legge regionale 13 dicembre 2004 n. 46 “Interventi a
universali ed elaborazione di relazioni positive tra autoctoni e immigrati, per tutelare nei primi il senso di sicurezza e il sistema valoriale e culturale e garantire, nei confronti dei se- condi, il rispetto della propria cultura e risposte ai loro bisogni. È sulle risposte a queste esi- genze che poggia la legge 40/1998 e il successivo Testo unico 286/1998 sull’allestimento di un quadro istituzionale e politico omogeneo in materia di immigrazione. Ma proprio il Testo unico 286/1998 e il successivo regolamento di attuazione hanno anche attribuito a Regioni e Comuni il ruolo di capofila delle politiche territoriali per il governo dei processi migratori e dei percorsi di integrazione interculturale.
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Il riferimento qui è al modello assimilazionista, in base al quale il sistema di welfare locale fornisce prestazioni omogenee per tutti gli stranieri presenti sul territorio; o al mo- dello multiculturale che, invece, tende a costruire percorsi di integrazione differenziati.
sostegno degli stranieri immigrati” abbia riconosciuto il fenomeno migrato- rio quale componente strutturale e organica del contesto regionale, e si sia dotata di uno strumento regolativo in materia di integrazione dei cittadini stranieri. Confermano quanto si dice tre fattori di sostanza.
Il primo, metodologico, segnala che le strategie utili a creare conver- genze fra le istituzioni, gli attori sociali e le associazioni degli immigrati sono sporadiche, deboli e incerte; e riflettono, nell’approccio alla soluzione dei problemi, atteggiamenti empirici, settoriali, spesso inceppati nell’ero- gazione dei servizi che, se fanno fronte a richieste ed esigenze immediate, non si traducono in un modello organizzativo. Tale procedura emerge in particolare dalle attività degli Enti d’Ambito Sociale che – avendo lo scopo di pianificare e programmare i servizi sociali dei Comuni in un’ottica asso- ciata e integrata di interventi, anche in relazione con altri soggetti pubblici e privati del territorio – rivestono un ruolo prioritario non solo per verificare il tipo e la qualità delle proposte erogate a favore degli stranieri, ma anche per conoscere il sistema organizzativo di gestione che li caratterizza.
Ebbene, l’analisi fornita dai rappresentanti e dagli operatori degli Eas descrive uno scenario decisamente problematico (praticamente privo di punti di forza) derivante, in particolare, dalla penalizzazione che l’Ente Re- gione, nell’ultimo piano di zona, ha riservato al tema dei servizi per la po- polazione straniera. Ciò ha comportato l’interruzione dei fondi dedicati a tale utenza, lo scompaginamento di servizi consolidati e la difficoltà di far fronte a situazioni di disagio se non attraverso provvedimenti tampone. Ma, soprattutto, è stato rilevato che lo stesso dettato che giustifica l’esistenza degli Eas è stato vuoi disatteso, vuoi talora interpretato solo formalmente. Manca, infatti, un policy network strutturato (la cui assenza dà luogo a frammentazioni e a sprechi) verosimilmente determinato sia dalla gracilità o dall’assenza di una filosofia condivisa sulle politiche da adottare nei con- fronti dell’utenza straniera; sia dagli spazi di indeterminatezza delle norme che possono consentire forme discrezionali sul versante delle scelte appli- cative; sia dallo scollamento fra fabbisogni percepiti nel territorio e quote economiche assegnate per la gestione della realtà migratoria; sia dalla scar- sità dei finanziamenti e dalla costante erosione dei fondi per l’area delle politiche sociali; sia dalla mancanza di volontà politica di mettere in campo interventi di coordinamento e programmazione in tale settore3.
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Per esempio, a tale situazione si potrebbe ovviare allestendo un sistema di monitorag- gio dei problemi dell’utenza straniera per gestirli in modo sistematico ed efficiente; coinvol- gendo i mediatori culturali nella programmazione dei Piani di zona; incentivando i Comuni a istituire la figura del consigliere comunale aggiunto; inscrivendo i servizi dedicati al- l’utenza straniera nell’ambito dei Livelli Essenziali di Assistenza (Liveas); creando una rete di collaborazione fra gli Eas e le aziende presenti sul territorio al fine di attivare stage a fa- vore di lavoratori e tirocinanti stranieri; attivando corsi di formazione di qualifica o riquali- fica per chi è disoccupato; cercando, in accordo con le agenzie interinali, le modalità perti-
Il secondo fattore, politico, rinvia alle strategie deboli, adottate dalle autorità locali sul fronte della rappresentanza degli interessi dei residenti immigrati. Certifica quanto si afferma, per esempio, la realtà dell’associa- zionismo straniero. Questo, che potrebbe giocare un ruolo fondamentale nel processo di promozione sociale e culturale dei suoi associati, soffre di mar- ginalità in termini di risorse economiche, rappresentanza istituzionale, par- tecipazione nei processi decisionali, riconoscimento politico. Ciò conferma, per un verso, la difficoltà di tale realtà aggregativa a definire il proprio ruolo nella società ricevente; per un altro verso, la radicalizzazione della rappresentazione dell’immigrato come soggetto passivo e destinatario pas- sivo di politiche pensate e attuate da altri per lui, salvo casi eccezionali (quando, per esempio, le istituzioni locali cooptano le associazioni stesse nella loro struttura); e, per un altro verso ancora, il ritardo delle istituzioni e delle agenzie di socializzazione a intrattenere relazioni conoscitive con questi nuovi cittadini.
Per converso, proprio il decentramento e l’autonomia dei poteri locali potrebbero semplificare e alleggerire la loro azione negli ambiti specifici rivolti agli stranieri, se coinvolgessero con sistematicità le associazioni di immigrati nella programmazione delle politiche migratorie, ne riconosces- sero il ruolo di soggetti paritetici con l’Ente programmatore, ne sollecitas- sero la trasformazione in strutture per fare impresa e offrire servizi adeguati con personale formato e contrattualizzato.
Ma il fatto che ciò non avvenga (o avvenga in modo solo sporadico) documenta che la realtà provinciale analizzata è ancora restia a promuovere relazioni fra vecchi e nuovi residenti, e stenta a riconoscere il ruolo forma- tivo e non solo aggiuntivo o oppositivo dei secondi. Di qui la rappresentati- vità debole di queste realtà associative che, lontane dal praticare forme di interlocuzione sociopolitica con le istituzioni del territorio, seguono moda- lità autoreferenziali e volontaristiche che rischiano, da un lato, di enfatizza- re le chiusure delle varie appartenenze etniche e, dall’altro, di non rendere visibile il loro fare.
Il terzo fattore, culturale, suggerisce infine che è ancora gracile lo spazio dei meccanismi di comprensione della prospettiva interculturale fra autoctoni e immigrati. Pur nella consapevolezza che le differenze cul- turali non si esauriscono in un benevolo scambio di idee e di conoscenze ma possono chiudere in trinceramenti e irrigidimenti, il percorso inter- culturale è l’unico in grado di promuovere legami fra culture diverse; dar luogo a una sorta di coesistenza a bassa conflittualità; mantenere le disso- nanze entro un livello accettabile e gestibile. Va da sé che per raggiungere tale obiettivo vanno messe in atto strategie e modalità pertinenti ad attiva- nenti di valorizzazione delle competenze lavorative e professionali degli immigrati per ren- derle spendibili sul mercato del lavoro.
re forme di reciprocità consapevole, percorsi di adattamento reciproco e regole condivise fra autoctoni e stranieri. Tuttavia, tale presupposto sten- ta, come si accennava, ad affermarsi anche all’interno delle istituzioni che dovrebbero promuoverle.
Ne costituisce prova la filosofia dominante in una delle principali agen- zie di socializzazione: la scuola. Nelle aule scolastiche la presenza della componente straniera si traduce prevalentemente in proposte formali (quali l’individuazione nel corpo docente del referente intercultura4) e non sembra
investire risorse in approcci sistemici sul dialogo interculturale che viene lasciato all’impegno discrezionale e alla buona volontà di docenti disponi- bili. A ciò si aggiunga, per un verso, la difficoltà a inscrivere nel sistema formativo iniziative sui significati e sugli esiti di una società che ha cam- biato forma e passo a seguito della presenza di questi nuovi cittadini; per un altro verso, la conoscenza ancora marginale del corpo docente sui fenomeni migratori e sul rapporto fra culture; e, per un altro verso ancora, la mancan- za, nella maggior parte delle scuole, della figura del mediatore linguistico- culturale e, quindi, l’inconsistenza di prassi in materia di inserimento e di protocolli di accoglienza.