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L’identità Concetto ambiguo e rischioso: mappa concettuale

la prospettiva transculturale tra accoglienza, azione pedagogica e processi d’inclusione

1. L’identità Concetto ambiguo e rischioso: mappa concettuale

Parlare del fenomeno migratorio e delle pratiche di mediazione favore- voli ai processi d’inclusione socioculturale e alla costruzione di una società veramente multiculturale e meticcia implica una riflessione sui concetti che utilizziamo come rappresentazione e mappa mentale per orientarci e defini- re il nostro rapporto con l’altro, quindi con noi se stessi.

Di cosa parliamo quando utilizziamo le parole immigrazione, emigra- zione, migrazione, società multietnica, multiculturalità, interculturalità, transculturalità, meticciamento, integrazione, inclusione, assimilazione? Sono termini che leggiamo e utilizziamo quotidianamente ma di cui, molto spesso, non conosciamo il significato.

È evidente che le tematiche della società multietnica e pluriculturale ri- guardano quelle dell’identità e del suo rapporto necessario con l’alterità, cioè con l’altro diverso da sé. Non esiste nessun discorso sull’identità che non sia anche un discorso sull’alterità, cioè un discorso sull’altro, o meglio, sul rapporto di sé con l’altro che non è solo fuori da noi ma ci costituisce e ci sta dentro.

Il discorso sulle categorie dell’identità e dell’alterità è anche un discor- so sul Noi in una prospettiva che non sia più dicotomica: non più Noi e gli altri, ma un Noi collettivo, aperto e accogliente che comprende una varietà di modi di essere e di pensare culturalmente.

Partiamo dalla parola identità: su questo tema si sono scritte decine e decine di volumi in ambito filosofico, antropologico e psicologico sia

riferendosi all’identità della persona oppure di una comunità (nazionale, internazionale). La costruzione dell’identità avviene inevitabilmente tramite il racconto di sé, cioè tramite quello che Rousseau considerava l’atto fondatore della personalità cioè l’atto autobiografico; sappiamo anche dagli studi sulla psicologia dell’identità che per questo occorre che ci sia un linguaggio interiore e intrapsichico (come ha ben dimo- strato Lev Vygotskij in Pensiero e Linguaggio, 1934) in grado di dare un senso e un significato all’esperienza vissuta socialmente e culturalmen- te. Sappiamo anche dagli studi di Jacques Lacan, nel suo famoso saggio sulla funzione dello specchio nella costruzione dell’io, che il ritratto che ognuno fa di se stesso passa attraverso la dialettica intersoggettiva degli sguardi e il gioco di specchiamento che avviene nelle relazioni che sono insieme affettive, sociali e culturali: mi costruisco un’immagine di me stesso specchiandomi nello sguardo degli altri, cominciando da quello materno fin dalla nascita. Insomma, siamo sempre un prodotto relazio- nale dell’incontro con l’altro, ed è per questo che l’altro non è solo un corpo estraneo ma è una parte integrante di noi, l’altro o gli altri ci stan- no dentro. Questo spiega perché non si può parlare di identità al singola- re, non siamo una cosa sola, ma ben più cose contemporaneamente; siamo anche simili e diversi.

Ha ragione Claude Lévi-Strauss l’antropologo francese a parlare di unità nella diversità, nel suo libro Tristi tropici (1994), considera Jean- Jacques Rousseau come il vero fondatore dell’antropologia moderna; in ef- fetti, è quest’ultimo che definisce l’altro come un altro io diverso da me. Un altro io perché appartenente come me al genere umano e proprio in quanto umano prova le medesime emozioni (tristezza, gioia, rabbia, allegria ecc.), ma che esprime le sue emozioni e i suoi sentimenti tramite delle modalità apprese nella propria cultura e nella propria educazione. Ognuno di noi è simile all’altro, ma il suo modo di essere simile lo rende anche irrimedia- bilmente diverso.

Come si può bene vedere, la questione dell’identità è una questione complessa e che va manipolata con prudenza perché, in effetti, nella sua storia l’uomo ha anche prodotto dei danni e addirittura degli orrori in nome dell’identità.

Amin Maalouf, scrittore e saggista di origine libanese e di lingua fran- cese, scrive nel suo libro Le identità omicide (1995), che l’identità chiusa e autoreferenziale finisce per eliminare l’altro; è ciò che è successo per anni in Libano nel rapporto tra le diverse comunità etnolinguistiche; nel mede- simo modo l’economista indiano Amartya Sen, nel suo libro Identità e vio- lenza, mostra come l’idea di assolutizzazione della presunta identità finisce per diventare un’aggressione all’altro. Interessante notare che l’aggressione all’altro avviene molto spesso non perché l’altro è diverso, ma perché ci as-

somiglia e ci rimanda, come effetto specchio, un aspetto della nostra perso- nalità che abbiamo rimosso e che non accettiamo; è ciò che il filosofo fran- cese René Girard chiama la vendetta mimetica nel suo testo dedicato alla costruzione del capro espiatorio.

L’identità è una realtà complessa ed è sempre plurale, relazionale, di- namica, situata nel tempo e nello spazio. Per esempio, gli italiani di oggi non sono quelli del 1915, l’identità italiana è un insieme di elementi che si sono formati attraverso l’esperienza storica, come aveva capito molto bene Giuseppe Mazzini, padre fondatore della patria italiana: la penisola è un in- sieme di mescolanze e un mosaico di culture e tradizioni diverse. Nella sua storia l’Italia, fin dall’antichità, è stata attraversata dall’incontro/scontro, quindi dalla mescolanza con altri popoli come etruschi, greci, latini, germa- ni, galli, bizantini, austriaci, normanni, arabi, francesi, spagnoli, tedeschi, senza dimenticare le varie minoranze etnolinguistiche di origine rom e al- banesi. Insomma l’Italia è una società meticcia che non sa di esserlo; per esempio è evidente che un italiano di Palermo è più vicino culturalmente a un tunisino che non a un piemontese che, a sua volta, sarà più vicino a un francese. L’identità come relazione con l’altro è anche il frutto di un rac- conto che cambia anche nel tempo e si evolve. Non vi è dubbio che l’Italia di oggi abbia una nuova conformazione antropologica e culturale: la pre- senza di più di 5 milioni di immigrati, il fatto che ci sono più di 800.000 alunni stranieri nelle nostre scuole (di cui più dell’80 per cento sono nati in Italia e costituiscono la cosiddetta secondo generazione), fa dell’Italia una nuova realtà multietnica e pluriculturale.

Occorre anche soffermarsi sui concetti di etnico e cultura; esiste in proposito una letteratura sterminata a livello scientifico, sociologico e antropologico. In Europa, a differenza degli Usa, non si utilizza più la pa- rola razza (visto i drammi della seconda guerra mondiale e lo sterminio di ebrei, rom e slavi), parola comunque inutilizzabile sul piano scientifico come aveva ben dimostrato l’antropologo americano di origine ebraica Franz Boas nei primi del Novecento.

Ma ancora troppo spesso i termini etnia ed etnico veicolano un sot- tinteso razzista: basta pensare che è sempre etnico quello che è del- l’altro, si parla di musica etnica o cibo etnico quando si parla di musica senegalese o di cibo marocchino, ma mai quando si parla di musica ita- liana e o di cucina italiana. Quindi anche la parola etnico va usata con prudenza. Sono gli antropologi italiani Francesco Remotti, Anna Maria Rivera e Ugo Fabietti che ci hanno insegnato a manipolare con prudenza il concetto di etnico poiché portatore di grosse ambiguità mentre l’an- tropologo francese Jean-Loup Amselle parla di logiche meticcie e di connessioni per sottolineare il carattere plurale delle culture. Le culture sono sempre meticciate, connesse tra di loro e dei miscugli di tanti ele-

menti nel campo della lingua, dei costumi, delle mentalità, dei miti e dei rapporti sociali. Questo vale anche per le strutture di parentela come ci hanno insegnato Claude Lévi-Strauss e Françoise Héritier: le strutture familiari sono organizzate come delle configurazioni simboliche e le re- gole che le fanno funzionare sono dei codici di lettura e d’interpre- tazione del mondo e della vita in società. A questo riguardo occorre ri- cordare lo studio del 1952, ormai classico, degli antropologi americani Alfred Kroeber e Clyde Kluckhohn che individuarono 164 definizioni diverse del concetto di cultura.

Lo stesso tipo di ragionamento vale per i concetti di integrazione e in- clusione.

Oggi si tende a utilizzare la parola inclusione in sostituzione di integra- zione; questo può sembrare un gioco formalistico di parole, eppure ricopre un cambiamento di prospettiva. La parola integrazione (pure nelle sue de- clinazioni diversificate nei diversi contesti storico-culturali europei) veicola un’ambiguità che può identificarla con assimilazione: la persona che si de- ve integrare, lo deve fare rispetto a una norma e deve adattarsi a quella la- sciando dietro di sé la propria particolarità o specificità culturale. La coppia integrazione/assimilazione ha accompagnato la storia del colonialismo, in- fatti lo sguardo coloniale è quello del colonizzatore che si considera come normativo rispetto al colonizzato. Come ci hanno spiegato molto bene Franz Fanon e Albert Memmi, la dialettica colonizzato/colonizzatore ri- guarda anche la dialettica maggioranza/minoranze etnoculturali e quindi la concezione che si ha della presenza, del ruolo e della posizione sociale, culturale e giuridica degli immigrati nella società. Questo spiega perché può esserci integrazione economica e non inclusione socioculturale dell’im- migrato, cioè questo esiste come forza lavoro ma non come cittadino e sog- getto con identità e diritti.

Nel primo caso, quello dell’integrazione/assimilazione, si parla di adattamento dell’immigrato visto in modo puramente strumentale sia come risorsa economica, che come potenziale pericolo, nel secondo caso l’im- migrato è accolto come parte integrante del Noi come cittadino attivo e soggetto della nostra storia a tutti gli effetti. Per usare l’espressione del- l’antropologo francese Charles Gardou non esiste vita minima, per lui il concetto centrale della società inclusiva è quello di accessibilità. Accessi- bilità ai diritti di cittadinanza, ai luoghi di vita sociale di tutti, alle stesse opportunità di fronte all’istruzione, la cura e il lavoro e anche equità e giu- stizia nel rispetto del principio di eguaglianza e del riconoscimento delle differenze. Si può qui riprendere quello che scrisse tempo fa il filosofo te- desco Jurgen Habermas nella sua teoria dell’agire comunicativo, in un libro intitolato L’inclusione dell’altro (1998), nel quale afferma (riprendendo l’imperativo categorico di Kant) che l’Altro è sempre un valore, una finalità

e mai un mezzo. Quindi l’Altro è parte di un nuovo Noi aperto e rispettoso di tutte le differenze.

Legati alla questione dell’inclusione troviamo i termini multiculturali- smo, interculturalità, transculturalità e meticciamento: per definizione tutte le società in tutti i tempi sono multiculturali (non esiste Stato o comunità che non sia stata attraversata nella sua storia da processi migratori e di me- scolanze); l’interculturalità si produce nei processi di acculturazione (cioè nell’incontro non tra culture ma tra persone portatrici di modalità culturali diverse) come possibilità del dialogo e quindi dello scambio nella comuni- cazione sociale e intersoggettiva.

Quando si parla di transculturalità e di meticciamento si parla di un fe- nomeno che riguarda, a tutti gli effetti, il fenomeno migratorio: la traiettoria migratoria (prima emigrato e dopo immigrato) implica un processo di cam- biamento sia delle persone che delle comunità (di partenza e di arrivo) ed è fatta d’incontri (più o meno positivi, più o meno negativi) che producono una realtà ibrida e creolizzata cioè meticciata. La persona immigrata che si mette a usare la lingua del Paese di arrivo e si adatta al nuovo contesto è già in un processo di mescolanze e di ridefinizione plurale della propria identi- tà. Come scrive Abdelmalek Sayad è come sospeso tra due realtà; il proces- so di transculturalità, cioè il passaggio da contesti e codici culturali (in un percorso di oscillazione costante) ad altri fa dell’immigrato un meticcio in via di ridefinizione e dei suoi figli che nascono nel nuovo Paese l’espres- sione di questa nuova realtà meticcia.

In un mondo come il nostro, globalizzato e in piena trasformazione, oc- corre anche sapere che le migrazioni rappresentano un fenomeno struttura- le, come afferma l’antropologo Clifford Geertz il locale è diventato globale in quanto anche le piccole comunità locali sono state contaminate dalle tra- sformazioni dovute ai processi migratori.

Per questo processo di cambiamento antropologico e socioculturale profondo della nostra società diventa importante costruire dei dispositivi di accoglienza, accompagnamento e mediazione adeguati a favorire l’inclu- sione e lo sviluppo di una società aperta. Bisogna andare verso un mondo meticcio in cui si fondono storie e culture diverse, in cui sia possibile la mescolanza; gli immigranti sono dei meticci e ci portano questa sfida di co- struzione di un nuovo umanesimo.

Come scriveva Léopold Sédar Senghor, grande poeta senegalese di lin- gua francese ed ex Presidente del Senegal, “noi costruiremo la civiltà del- l’universale, dove sarà bello essere diversi e insieme” e aggiungeva: “Una civiltà stagna e muore se non è animata da un possente spirito di cultura; il suo stile si cristallizza in forme vuote, in formule, se non prende in prestito da altre civiltà […]. Chi non vede che l’ideale di umanità realizzato nei po- poli meticci è quello di rendere alla Cultura il suo movimento dialettico per

farne un dialogo fecondo tra la ragione e il cuore, l’azione e il mito”? (cfr. Goussot 2011).

2. L’approccio transculturale nella relazione di aiuto nei percorsi