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L’aristocrazia pisana attraverso lo specchio della pubblicistica del ’99.

3.2 “Albero senza radici, berretto senza testa” Ricezione popolare di simboli e ideali rivoluzionari:

4. CAPITOLO Le classi dirigent

4.1 L’aristocrazia pisana attraverso lo specchio della pubblicistica del ’99.

“Chi siete voi che con maschera in viso osate accostarvi al tempio della Ragione?”263

Uno dei temi toccato più di frequente nella propaganda filofrancese è la questione della nobiltà e dei suoi privilegi. Dalla lettura di alcuni opuscoli mi pare che grossomodo si possano tracciare due principali linee d’argomentazione sulla questione, adottate dai pubblicisti: da una parte si cerca di catturare il favore popolare attraverso la propaganda dell’abolizione dei privilegi della nobiltà e con il ristabilimento dell’uguaglianza di natura fra tutti i “cittadini toscani”; dall’altra invece, si tenta di prevenire moti antinobiliari che possano turbare la pacifica convivenza civile e provocare insurrezioni. Su questo punto è chiara l’influenza esercitata dai francesi stessi, impegnati a combattere su talmente tanti fronti da non potersi, ne volersi, permettere di mettere in discussione l’assetto socio-istituzionale del paese occupato. Rarissime infatti sono le pubblicazioni pisane di questo periodo che affrontino in qualche modo il tema di una redistribuzione della proprietà e delle ricchezze.

Per iniziare a capire quali siano stati esattamente i toni e i messaggi della propaganda antinobiliare possiamo partire dalla autodifesa sostenuta da Luigi Batacchi durante il suo processo, proponendone una lettura che tenga conto delle circostanze a cui risale la testimonianza. L’impiegato presso la dogana di Livorno, nel rispondere all’accusa di aver rivisto per una correzione un opuscolo democratico, prima che fosse consegnata alle stampe a Livorno, affermò:

È mio costume in Livorno di accordare gratuitamente lettere, dimostrazioni, memoriali, e revisioni di qualunque genere di composizione in verso e in prosa a chi me ne ricerca… Eran già varie sere che i buoni si dolevano altamente che lo scandaloso ridotto delle Stanze, sotto il nome di circolo Costituzionale, rimbombava di infami prediche. Le imprecazioni e i gridi di morte contro i nobili ed i religiosi infondevano la dissensione e il desio della strage. Io credei che la predica del Guidotti servir potesse alquanto d’argine al torrente che sempre più ingrossava. Questa predica conteneva in sostanza una lode della democrazia: le basi su cui si appoggiava, erano ormai vecchi e triti argomenti che mille volte sonosi [sic] uditi dai ripetitori di

Platone e di Rousseau.. Egli aveva, insomma, fatta in assai più basso stile una ripetizione dell’aureo discorso dell’immortal Cesarotti….264

Il Batacchi formula la sua risposta nel tentativo di difendersi di fronte agli inquirenti; nel metter le mani avanti, in primo luogo avverte che lui la revisione l’ha fatta perché questo faceva parte delle sue abitudini; e che non aveva ricevuto alcun denaro per essa, proprio perché si trattava di un servizio che prestava regolarmente e gratuitamente a chiunque glielo domandasse. Non sappiamo esattamente chi fosse questo Guidotti265. Nell’ elenco di patrioti

livornesi che lasciano la Toscana per rifugiarsi a Genova dopo la ritirata francese del 1799 troviamo un Luigi Guidotti, ma non sono disponibili altre informazioni su di lui, se non la certezza che fosse talmente implicato nell’appoggio ai francesi da preferire l’espatrio nel timore di una rappresaglia dei realisti. Tra coloro che saranno processati nella provincia di Pisa troviamo poi un intero nucleo famigliare con questo cognome. Si tratta del guardarobiere dei Bagni, Giuseppe Guidotti e dei suoi due figli. Uno di questi, Vincenzo era già stato processato per “massime democratiche” nel ’95, insieme ad altri studenti dell’ateneo pisano, dove nel 1793 si era laureato in utroque iure. Nel porsi di fronte agli inquirenti il Batacchi tenta dunque un’evidente captatio

benevolentiae in cui dipinge i reazionari come “i buoni” e i frequentatori del

“circolo costituzionale”266, come degli infami assetati del sangue di aristocratici

e religiosi. La difesa adottata dal poeta doganiere, riprende un tema che sarà usato quasi da tutti i processati per “crimine di democrazia” e consiste nell’evidenziare il carattere di moderazione del proprio operato, volto in primo luogo ad evitare una radicalizzazione degli eventi. Nel caso del Batacchi è tuttavia a mio avviso formulabile l’ipotesi di un maggiore coinvolgimento politico, al processo infatti gli saranno imputate diverse manifestazioni di “genio democratico”, sia attraverso discorsi che frequentazioni.

Il richiamo al Cesarotti, assurto in questo contesto a garanzia della moralità di uno stampato contrariamente alle accuse, si guardava bene dal gettar

264F. TRIBOLATI, Saggi critici e biografici, Enrico Spoeri editore, Pisa, 1891, p.289;

265 Durante l’occupazione un Guidotti sarà proposto come eventuale membro della Municipalità, ma rifiutato per la cattiva fama pubblica v. A.S.Fi, Galli Tassi Bardini, 114, c.107, n.205;

266 Il Circolo costituzionale sorse a Livorno al posto delle Stanze della Comunità come segno tangibile del cessare dei privilegi nobiliari;

combustibile sul fuoco della sovversione, incitando piuttosto alla concordia civile, ci indica come questo autore fosse ritenuto uno dei massimi esponenti della moderazione all’interno della pubblicistica democratica. A Pisa saranno stampate due opere del padovano immediatamente dopo l’arrivo dei francesi, da parte di Antonio Peverata, che sarà in pratica lo stampatore ufficiale di tutta la pubblicistica patriottica pisana. I due opuscoli267 del Cesarotti, saranno le

uniche opere della corrente “giacobina” italiana stampate a Pisa268. C’è da

chiedersi se l’incipit della stampa patriottica a partire da queste due moderatissime composizioni fosse dovuto più all’impreparazione dei democratici pisani, che non avevano ancora avuto il tempo di scrivere nulla, o piuttosto ad una precisa scelta politica. L’estrema moderazione e l’invito al ristabilimento della concordia civile parrebbero infatti il modello prediletto di propaganda da parte degli occupanti e mi appare piuttosto verosimile che tramite la stampa del Cesarotti si sia voluto fornire ai patrioti locali un esempio da emulare.

La scelta di citare l’erudito padovano da parte del Batacchi si spiega facilmente tendendo un occhio alle vicende dell’Abate in seguito alla ritirata francese. Il Cesarotti infatti, seppur prestatosi alla redazione di alcuni opuscoli in favore del nuovo governo della Cisalpina, rassicurato dalla garanzia d’ordine impersonata dalla figura del Bonaparte, aveva costantemente dimostrato idee tiepidamente moderate e non esiterà a scrivere le lodi dei sovrani restaurati, non appena la ritirata francese lo renderà possibile.

L’analisi di uno di questi opuscoli, intitolato il patriottismo illuminato. Omaggio di

un cittadino alla patria, ci può mostrare tuttavia alcune peculiarità della

pubblicistica pisana. Prima della stampa, infatti, il testo viene rivisto e completato con alcune integrazioni per adattarlo alla realtà toscana. E’ soprattutto in ragione di queste interpolazioni che mi sembra opportuno analizzarlo, in quanto segnano un divario dalla pubblicistica apparsa in Italia nel corso del triennio, da ricondursi in ultima analisi al retaggio della stagione delle riforme leopoldine, considerate le premesse della successiva rigenerazione democratica. Nelle prime righe vengono descritti i caratteri della nobiltà

267Istruzione di un cittadino a’ suoi fratelli meno istruiti e il patriottismo illuminato. Omaggio di un

cittadino alla patria, Pisa, 1799;

toscana, diversa dell’aristocrazia “imperiosa e superba” delle altre parti d’Italia e d’Europa:

Aristocratico non vol dire altro che Nobile dominante: questo animale imperioso e superbo non è mai nato nel clima della Toscana. Guardiamoci dal far che questo nome non passi dal senso proprio al figurato, e che non divenga un aggiunto metaforico applicabile alle persone o alle cose. …temiamo che il nome di aristocratico non divenga il punto centrale ove vadano a collimare tutte le inimicizie private, le avversioni, i pregiudizj, le invidie: temiamo che non divengano aristocratiche le sostanze dei ricchi, le discordanze d’opinione, i consigli liberi, la superiorità dei talenti269.

L’autore sottolinea dunque l’assenza in Toscana di una aristocrazia prepotente e presuntuosa, sempre pronta a vessare i sottoposti. Ammonisce poi gli ascoltatori a non forgiare “false immagini” per poi applicarle ai più ricchi o a tutti i coloro che si distinguono per superiorità di ricchezza o talenti. L’autore sembra quasi voler marcare ancora di più la differenza fra il contesto francese, dove una rivoluzione era potuta sbocciare proprio per l’estrema ingiustizia del privilegio, e quello toscano, dove i nobili “alla francese” non esistono e ogni identificazione in tal senso rappresenterebbe soltanto un mascheramento della realtà. Così facendo si danno rassicurazioni sull’eventualità che il Granducato possa essere teatro di una nuova rivoluzione.

Tema peculiare della stragrande maggioranza dei libelli democratici è infatti questo sdoppiamento della nobiltà in due rappresentazioni distinte. La prima è quella che assume su di se tutte le caratterizzazioni negative di origine rivoluzionaria, in cui si sottolineano gli aspetti di prepotenza, inutilità e la necessità di sradicare questo ceto dalla comunità. La seconda invece tradisce la natura convenzionale e retorica della prima, e senza curarsi della contraddizione, propone una descrizione di segno opposto della nobiltà locale, che lungi dal costituire una minaccia, sarebbe oggettivamente incline alla nuova concordia civile proposta dai democratici, per la semplice ragione che in Toscana il livellamento delle condizioni è già in gran parte avvenuto. In questo

stralcio dell'opuscolo del Cesarotti l’idea che non occorra un radicale rivolgimento civile viene esplicitata, e si invita espressamente a non pregiudicare l’esito dei processi politici in atto attribuendo alla nobiltà quelle caratteristiche odiose che non trovano riscontro in alcuna parte della realtà sociale italiana. Non ci dimentichiamo infatti che questa è una delle parti originali del testo del padovano, scritta in origine per il contesto politico della Cisalpina e non modificata per essere applicata esclusivamente alla Toscana. Sostanzialmente si mette in guardia i “patriotti” dal diffondere un ritratto polemico dell’aristocrazia che fomenti insurrezioni popolari, e se ne delegittimano i caratteri, insistendo sul fatto che l’aristocrazia dispotica sia coerente soltanto al contesto di una società feudale sul modello della Francia e sia perciò estraneo all’Italia.

Questa osservazione in Toscana viene amplificata e legata all’eredità spirituale del riformismo leopoldino. Il censo è l’unico elemento di distinzione a cui si fa riferimento per caratterizzare la stratificazione della società del Granducato. È interessante come il libello ricada ripetutamente sul tema della ricchezza, a cui fanno da pendant gli ammonimenti al rispetto della proprietà. Si teme che i ricchi possano sostituirsi all’aristocrazia nel mirino dell’odio popolare. Il vecchio motto libertè, fratenitè ed egalitè, sembra adesso riformulato in un “libertè,

fraternitè e proprietè”, mutamento di valori che in realtà rispecchiava con

precisione la politica direttoriale nel ’99. È finito anche in Francia il tempo dei giacobini. Il professore padovano sorvola accuratamente su qualsiasi accenno alla disuguaglianza. Nella sua argomentazione il tema dei privilegi è deliberatamente ignorato, non c’è una reale analisi di quale ruolo abbia l’aristocrazia nella società, ma ci si limita al declamare che:

L’Aristocrazia non è più nemmeno un fantasma, le nostre ire non avrebbero più né soggetto, né titolo, né dignità. È viltà l’insultare i vinti, è barbarie il calpestar i cadaveri

Questa è la soluzione retorica adottata da più di uno dei libelli democratici: presentare il problema dei privilegi aristocratici come qualcosa di già morto. Dopotutto i francesi avevano effettivamente fatto in modo di abolire il più

velocemente possibile i simboli più vistosi di quei privilegi. È in questo contesto che ci si era affrettati a eliminare i titoli nobiliari, ad abolire l’ordine di S. Stefano e ad aprire il Casino dei nobili al resto della cittadinanza. Non si era tuttavia tentata alcuna riforma delle disparità sociali ed i nobili continuavano di fatto ad avere pressappoco la stessa preminenza all’interno della società, in nome di quell’autorevolezza su cui i francesi facevano tanto conto per ricevere un aiuto nel mantenere pacifica la popolazione. Che questa sia la specifica funzione attribuita dai nuovi governanti alla nobiltà appare evidente nel partito del consiglio della Municipalità dell’11 aprile:

Incaricarono i cittadini Angiolo Roncioni, Vincenzo Cosi del Vollia, Francesco Franceschi, Cammillo Borghi, Giovanni Simonelli, Dott. Cammillo Arrighi, Giuseppe Soldaini, Sisto Benvenuti, Matteo Prini, Ansano Perpignani, Andrea della Stufa, e Francesco Mastiani, perché si facciano un dovere come persone popolari d’invigilare, che non si facciano complotti, e di calmare lo spirito di chiunque si mostrasse inclinato alle ciarle, e alla dissensione.

Chiamati nel seno della Municipalità i suddetti cittadini fu loro comunicato il tenore di suddetto decreto, e tutti si dichiararono da buoni cittadini di fare ogni sforzo possibile, perché tutto vada con tranquillità270.

Il decreto fu emanato durante la stessa riunione municipale nella quale si diedero istruzioni per il controllo della qualità del pane e fu fatto presente il problema di garantire una sorveglianza all’albero della libertà affinché non venisse a subire danneggiamenti da parte di reazionari. Si colloca dunque all’interno delle prime misure per il controllo dell’ordine pubblico, dopo appena due settimane dall’ingresso delle truppe francesi.

È significativo ricostruire per sommi capi un profilo dei personaggi citati nel documento; Angiolo Roncioni, il patrizio colonello delle Bande l’abbiamo già incontrato. Matteo Prini invece proveniva da una famiglia di recente nobilitazione, originaria di Lastra a Signa. I Prini si trasferirono a Pisa nel Seicento con un Matteo che ricoprì gli uffici di Maestro di Posta e Camerlengo della Dogana e che divenne infine Provveditore del magazzino delle galere; con

270A.S.PI, Comune Div. D, f. 174, c. 362;

il nipote comincia l’ascesa economico-sociale della famiglia; questo infatti avvia una “bottega delle cere” che nel Settecento aveva il monopolio delle forniture ecclesiastiche e del Casino dei nobili271. Diventò inoltre guardarobiere reale. Nel

1729 la famiglia creerà una fabbrica di vetri per finestre, specchi e cristalli. Nel corso del Diciottesimo secolo inoltre l’ascesa sociale verrà definitivamente sancita da matrimoni con antiche casate pisane, come gli Aulla, i Leoli, i Rosselmini Ricciardi e i Nervi. Nel palazzo in via S. Maria ereditato dai Nervi, I Prini ospiteranno l’Alfieri nel 1785. Solo nel 1792 la famiglia, ormai molto ricca, otterrà l’iscrizione all’Ordine di S. Stefano con una commenda di padronato a Ghezzano272.

I Del Mosca, invece erano una famiglia di antico patriziato, presente in città già nell’XI secolo con un Palazzo sul Lungarno Gambacorti. E’ un esempio di uno di quegli antichissimi casati che ormai non riescono più a far fronte ai costi imposti dal tenore di vita nobiliare, anche a causa di un’amministrazione non sempre accorta dei possessi terrieri. Camillo ne sarà l’ultimo e orgoglioso esponente. Ricoprirà il ruolo di Governatore della Pia Casa di Misericordia e quello di Provveditore del magistrato della grascia nel 1754; alla sua morte, sopravvenuta nel 1808, lascerà la moglie piena di debiti, per far fronte ai quali fu necessario vendere quasi tutto il restante patrimonio. Francesco Franceschi, fratello dell’arcivescovo di Pisa, era l’erede di una famiglia di origine corsa, che si era arricchita con la guerra di corsa e aveva preso residenza a Livorno nel Seicento. Nella città labronica furono Priori e Gonfalonieri. Nell’attuale generazione il fratello Lelio sposerà Antonia, l’erede dei conti Galletti, ereditando il patrimonio dei Gualandi che le spettava da parte di madre. I Franceschi alla fine del Settecento saranno tra le famiglie più ricche di Pisa. Cammillo Ranieri Borghi era invece l’ultimo esponente di una famiglia di nobiltà semplice che però vantava ascendenze dalla più illustre famiglia dei Dal Borgo. Fu un letterato e pittore dilettante. Anche Francesco Mastiani, tra i più ricchi patrizi di Pisa, fu l’ultimo della sua schiatta. Aveva ricoperto diverse cariche all’interno della comunità, come quella di Presidente delle vettovaglie dopo che Ferdinando III ne istituì la carica. Il Simonelli, di famiglia nobile, si laureò in legge presso l’Ateneo. Sisto Benvenuti, invece non era nobile né

271 v. A.ADDOBBATI, Il Casino dei nobili, op.cit.; 272v. A.PANAJIA, ll casino dei Nobili, op.cit., pp.97-98;

patrizio, ma un possidente terriero nella zona di Campiglia, dove acquisto diversi beni a seguito delle alienazioni leopoldine dei fondi del Regio Scrittoio tra il 1766 e il 1788. Ansano Perpignani invece viene nominato nelle Relazioni sul governo di Pietro Leopoldo come soprintendente dello scrittoio delle possessioni di Pisa. Il Granduca lo descriverà come “onesto, esatto, attento,

pieno di premure e capacità, ma molto minuto”273. Non sono riuscita a

ricostruire chi fosse Soldaini; ho notizie soltanto di un Ranieri Soldaini, procuratore, che sarà processato e assolto per “crimini di democrazia”. Anche Cammillo Arrighi è un procuratore cittadino. Le persone che godono dunque di popolarità e prestigio presso la popolazione sono un mèslage di aristocratici di recente o antica acquisizione, possidenti terrieri e affermati professionisti nell’ambito legale.

Uno dei modi con cui gli aristocratici avrebbero dovuto contribuire al mantenimento di una tranquilla convivenza civile, nonostante il cambio di governo, era assicurare l’impiego di una parte il più cospicua possibile della popolazione in lavori agricoli e manifatturieri. Infatti la nobiltà era senz’altro la classe che ancora possedeva la maggior parte delle proprietà terriere. Secondo i municipalisti tuttavia, l’aristocrazia pisana, e toscana in genere, si sottraeva a questo compito, dimostrando una quanto mai indiretta e mascherata forma di opposizione attraverso un massiccio licenziamento di contadini e lavoratori alle loro dipendenze, giustificato con la recessione e le ristrettezze dei tempi di guerra e col peso delle contribuzioni. L’intenzione di incrementare la massa di disoccupati e disperati che avrebbe poi potuto ingrossare le fila di un’eventuale rivolta canalizzata dalle prediche dei religiosi non veniva sottovalutata dagli esponenti del novo governo, che si produrranno in una consistente quantità di appelli e pressioni affinché i licenziamenti non superassero un certo livello di guardia. Questo fenomeno viene variamente denunciato dai patrioti. Ne troviamo diversi accenni in una lettera che il Municipalista Iacopo Nardi invia all’amico Tito Manzi, incaricato di patrocinare gli affari della Comunità a Firenze; il Nardi manda al collega un ragguaglio sulle difficoltà che si stavano manifestando ai patrioti, che pian piano riuscivano ad ottenere ruoli di maggior responsabilità all’interno delle magistrature comunitative. Una di queste era

rappresentata dall’atteggiamento dei nobili all’indomani del mutamento di governo:

I nobili ci ricattano col tacere, non far niente e affettar miseria. Mastiani ha licenziato già sei domestici. Proseguirà, e sarà imitato. La calma del nostro Popolo non è che apparente274.

Francesco Mastiani Brunacci era il patrizio più facoltoso della città. Solo nel suo Palazzo impiegava ben dodici domestici. Difficilmente i futuri Municipalisti avrebbero potuto far fronte ad una politica di sabotaggio portata avanti da un uomo così potente, soprattutto viste le disastrose condizioni economiche delle Casse comunitative, ed in previsione delle retribuzioni a cui sarebbero stati costretti a sottostare. Il patrizio pisano era senza dubbio tra le maggiori personalità pisane e forse quella con più alto profilo internazionale. Dopo la rivoluzione soggiornò per diverso periodo nella Parigi del Direttorio, con la moglie, la contessa Elena Amati. Otterrà poi diverse cariche di governo durante l’età napoleonica.

Abbiamo poi diversi accenni alla questione dei licenziamenti negli articoli del «Monitore Fiorentino», dove compare una denuncia di un altro Municipalista, il Certellini275; questo episodio sarà commentato nella stessa lettera del Nardi, e le

sue notazioni ci permettono di intravedere qualcuno dei retroscena e degli interessi tra i quali anche i Municipalisti si trovavano invischiati:

L’imprudenza di Certellini che mandò costà un articolo di gazzetta riguardante la cessazione dei lavori d’Alliata, Mosca, per contro la verità del fatto necessita ad inserire nel p. Monitore l’articolo che ti accludo. Fallo pervenire al redattore. Non importa estrema segretezza perché Castinelli ne va d’accordo stretto più dalla paura

274A.S.Pi., fondo Manzi, Busta V, Carteggio tra Iacopo Nardi e Tito Manzi, carta non numerata, datata Pisa 5 aprile 1799;

275«Monitore Fiorentino», n.4, 29 marzo 1799/ 9 germinale anno VII: «Molti dei nostri Patrizj, appena giunti i francesi hanno disordinato il lavoro delle loro fabbriche. Una folla non indifferente di muratorie manovali si sono trovati nell’impotenza di sussistere con le loro numerose famiglie. Il popolo artigiano,