DELLA NORMA
3.1 L’art. 270bis nel rapporto tra divieto di analogia ed
interpretazione estensiva.
L’intervento legislativo apportato con l’introduzione dell’art. 270bis nel codice penale attualmente costituisce oggetto di alcuni rilevanti dubbi di tipo interpretativo.
Il dibattito verte sul “principio” in relazione al quale ancora oggi si applica l’articolo in esame.
Se si considerano le esigenze legate al particolare momento storico durante il quale fu introdotta la normativa, ci si rende conto del fatto che la sua creazione sia legata ad una ben precisa ratio legis 1. Orbene, ci si chiede come sia possibile applicare, al giorno d’oggi, una norma che ha una sua ratio specifica a fatti che invece sono assolutamente differenti da quelli per i quali è stata creata.
Il quesito appena prospettato si colloca nella tematica, più generale, delle perenni “emergenze criminali” che, introdotte in periodi in cui sicuramente la lotta alla sopravvivenza era il principale obiettivo da salvaguardare, non hanno ormai più senso di esistere fra le categorie
1 P.L. Vigna-G. Chelazzi, Terrorismo, voce del Dizionario di dir. e proc. pen., Milano 1986, 1055-1093, 1058.
ordinarie di un sistema “sano”2. A riguardo, tuttavia, la dottrina si presenta controversa: la maggior parte dei teorici considera il diritto penale dell’emergenza e, in particolare quello degli anni Settanta ed Ottanta “illegittimo”3, e quindi incoerente con il complesso normativo;
un’altra parte invece sostiene che questo possa essere “ricondotto al sistema”4.
Anzitutto, è stato sostenuto che lo stato di necessità, determinato dall’emergenza, in un solo caso legittima la rottura dell’equilibrio di un sistema: nel caso di uno stato di guerra. A questo punto, sembra legittimo chiedersi se il terrorismo sia una manifestazione di guerra.
Le risposte date a riguardo sono state di tipo diverso, ma tutte alla fine negative5. Del resto le conclusioni sono compatibili con la logica dello Stato di diritto, il quale come ragione giuridica non ha di certo la
“ragion di stato”, basata sul rapporto nemico-amico, bensì conosce soltanto colpevoli ed innocenti6.
Al di là di tutto, non è stato sufficientemente precisato che la risposta data al pericolo eversivo era comunque una risposta incoerente con i canoni di un diritto penale garantista, in quanto creato come strumento di pace. Al contrario, nel mondo politico è stato sempre detto che il diritto dell’emergenza è perfettamente coerente con tutte le garanzie
2 M. Donini, Teoria del reato, voce Digesto disc. pen., Torino1987, 221-298, 296.
3 L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, Bari 1990, 869.
4 D. Pulitanò, La giustizia penale alla prova del fuoco, RIDPP, Milano 1997, I, 3-41, 3.
5 In realtà sulla questione la pubblicistica è stata sempre incerta: da una parte si è sempre negato che il terrorismo, per quanto fenomeno diretto all’eversione dell’ordine democratico, potesse costituire un tipo di “guerra civile”; tuttavia, proprio l’attacco alle basi dello Stato potrebbe essere visto come un atto di guerra.
Orbene, entrambe le ipotesi prospettate giungono comunque alla medesima conclusione: infatti, nel primo caso si può parlare di diritto “illegittimo”, mentre nel secondo caso, trattandosi di una difesa di fatto, si è di fronte ad un “non-diritto”. Cfr. L. Ferrajoli, op. cit., 869.
6 L. Ferrajoli, op. cit., ibidem.
costituzionalmente sancite, facendo così perdere di vista tutte le incongruenze che invece ci sono tra normalità ed eccezionalità.
Ebbene, è proprio questo il “punto di origine” dell’attuale dibattito:
infatti, questi mezzi eccezionali si sono radicati sia nella prassi che nei normali processi, con l’ulteriore effetto di produrre poteri non disposti a smobilitare7. Invero, non costituendo l’emergenza in sé una delle categorie fondamentali del sistema, in quanto potrebbe anche essere ricondotta ad un sottosistema normativo, occorrerà a questo punto indagare sui presupposti in relazione ai quali si continua a far riferimento a siffatta categoria, sia nell’impiego degli strumenti processuali sia in quello degli strumenti sostanziali.
Orbene, si parte dalla considerazione che i fini del diritto penale si esprimono tanto nel diritto sostanziale quanto nel processo, a tal punto da risultare praticamente impossibile tenere separate teoria del reato e realtà processuale8.
Il processo penale, in quanto luogo di applicazione del diritto, incide molto spesso sulle categorie sostanziali, in particolar modo nell’ambito della prova. Il più delle volte ciò accade in relazione ai casi di estensione della punibilità: infatti, l’incriminazione viene estesa in via interpretativa, sia che si operi sull’elemento oggettivo sia che su quello soggettivo 9. Un esempio paradigmatico è dato dalla categoria dei reati associativi: infatti, questa tipologia di reati si presentano molto spesso problematici rispetto ai principi di materialità e di necessaria offensività in quanto, almeno quelle più significative, fanno riferimento ad oggetti giuridici di macroscopiche dimensioni, quali la personalità dello Stato o, ancora oltre, l’ordine pubblico. Tutto
7 L. Ferrajoli, op. cit., p. 870.
8 M. Donini, op. cit., p.296.
9 L. Donini, op. cit., p. 297.
questo ovviamente si ripercuote poi sul piano processuale, per le difficoltà probatorie che possono presentare fattispecie aventi una oggettività giuridica che è impossibile “racchiudere” entro ben precisi confini. Basti pensare all’art. 270bis c.p. per avere una valida dimostrazione di quanto detto: poiché non si richiede alcun comportamento che si dimostri funzionale al raggiungimento della finalità di terrorismo ed eversione dell’associazione, la condotta di partecipazione puntualmente finisce col risolversi con la semplice adesione10.
Questo tipo di problematiche, solitamente, hanno come risultato finale quello di chiedersi quale possa essere l’attuale valore della legge nel sistema penale, e di farlo nell’ottica del processo.
Una trattazione sufficientemente esauriente richiede uno svolgimento articolato in due filoni: in primo luogo, ci si interroga sull’attuale attendibilità del “principio di legalità” in senso lato o, come viene anche detta, “formale”, ossia del sistema penale governato nel suo complesso dalla legge, quale entità “diversa” rispetto a chi è tenuto ad applicarla; poi, sulla legalità in senso sostanziale, ossia dal punto di vista del principio di determinatezza della legge penale e delle sue sorti qualora questa passi “al servizio” del processo. In altre parole, ci si chiede cosa possa accadere qualora il processo divenga fulcro del sistema penale11.
Dopo quanto detto, si denota che da un sistema imperniato sulla supremazia della legge, si passa ad un sistema incentrato sul potere del giudice.
10 S. Moccia, La perenne emergenza, tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli 1997, 66.
11 M. Nobili, Principio di legalità e processo penale (in ricordo di Franco Bricola), RIDPP, Milano 1995, II, 649-660, 650.
L’origine storica del principio di legalità non è precisamente penalistica, bensì politica12. La ragione della sua introduzione è stata configurata nell’esigenza di sottoporre l’esercizio di ogni potere dello Stato alla legge13.
È anche da dire, però, che la magistratura ha sempre, in modo più o meno evidente, manifestato atteggiamenti di “superiorità” nei confronti del prodotto legislativo14. Basti pensare alla giurisprudenza di rimessione: si è giunti ad avanzare l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni, prevalentemente di carattere procedurale, in relazione all’articolo 25, II comma, ed addirittura in relazione all’art.
101, II comma della Costituzione. I risultati che si sono avuti sono del tutto stupefacenti: la legge in alcuni casi15 è praticamente un ostacolo inaccettabile, tanto da determinare l’esercizio, da parte della magistratura, del suo “valore prioritario” rispetto ad essa.
Il nostro sistema, allo stato attuale delle cose, presenta un carattere alquanto “pericoloso”: infatti, dopo quanto detto, non si può di certo sostenere che esso sia “limpidamente” incentrato sulla supremazia delle norma giuridica, ma non si può neanche affermare che sia, di fatto, puntato sul potere degli amministratori della giustizia; infatti, ci si sta dirigendo verso l’attuazione del secondo modello, nonostante il sistema non sia per nulla cambiato, essendo ancora incentrato sulla supremazia della legge16.
12 La sua matrice risale alla dottrina del contratto sociale. Cfr. Fiandaca- Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna 1996, 47.
13 Gli illuministi, preoccupati di limitare ogni possibile forma di arbitrio dello Stato assoluto, si fanno fermi sostenitori della sottoposizione del giudice alla legge, quale corollario del principio della separazione dei poteri. Cfr.G. Fiandaca-E. Musco, op. cit., ibidem.
14 M. Nobili, op. cit., 652.
15 Soprattutto di procedura penale. Cfr.M. Nobili, op. cit., 653.
16M. Nobili, op. cit., ibidem.
Per quanto invece concerne la legalità “sostanziale”, ci si è chiesto precedentemente cosa possa accadere qualora questo principio passi al servizio del processo.
Orbene, uno dei “satelliti” della legalità in senso sostanziale è il principio di tassatività o, come viene anche detto, di sufficiente determinatezza17.
Questo principio impone all’interpretazione giudiziale che solo i casi
“espressamente” previsti da una fattispecie incriminatrice debbano essere ricondotti ad essa; da ciò discende un ulteriore principio: il divieto di analogia18; questo divieto, va ricordato, è valido quantomeno nei confronti delle norme sfavorevoli, poiché un’applicazione di questo tipo porterebbe ad eludere le garanzie di legalità prescritte dall’art. 25, II comma Cost. .
Solitamente, l’applicazione in via analogica di una normativa si ha tutte le volte in cui, per un determinato caso concreto, l’ordinamento non prevede una specifica fattispecie incriminatrice; si suole parlare così di una “lacuna dell’ordinamento”, poiché mira a rendere più esplicito il significato dell’ordinamento tutte le volte in cui il legislatore, non potendo, per impossibilità tecnica, prevedere tutte le possibili applicazioni della norma, suscettibili anch’esse di tipicizzazione per la loro univocità, le ha “coperte” sotto la locuzione
“casi simili ed analoghi”19. L’individuazione della lacuna sulla quale instaurare il procedimento presuppone sempre un giudizio di accertamento da parte del giudice; infatti, proprio durante questa fase
17 M. Nobili, cit., p. 650.
18 Sia legis, ossia in rapporto a fattispecie che regolano casi simili a quello in esame, sia iuris, ossia in relazione ai principi generali dell’ordinamento giuridico, quando questi manchino di disposizioni relative ai casi simili a quello considerato.
Cfr. T. Padovani, Diritto penale, Milano 1998, 41.
19 F. Bricola, La discrezionalità nel diritto penale, Bologna 1969, 212.
egli denota se i caratteri della determinatezza e della tassatività della norma presentano limiti “invalicabili” ai fini dell’applicazione analogica20. L’accertamento del giudice viene effettuato attraverso i criteri della logica ermeneutica, ossia un’operazione interpretativa fondata sull’esistenza o meno di un superamento della “portata massima” di una parola, secondo il suo “possibile significato d’uso”
21. È proprio in questo contesto che sovente nascono problemi.
Infatti, capita ormai piuttosto frequentemente che si dia alla norma incriminatrice un significato più ampio di quello che manifesta, mascherando questa tecnica come il frutto di una consentita interpretazione estensiva22.
Una dimostrazione di quanto appena detto parte necessariamente da una puntuale distinzione fra l’interpretazione estensiva e l’analogia.
L’interpretazione estensiva della norma costituisce uno strumento puramente interpretativo, che non oltrepassa i limiti dei possibili significati della norma, mentre l’interpretazione analogica rappresenta sicuramente uno strumento integratore del diritto, poiché parte da un qualcosa di esterno alla norma e che viene legato a questa attraverso un principio comune sia alla norma già posta sia alla norma da porre,
20 E. Morselli, Analogia e fattispecie penale, I.P., Padova 1990, 497-537,520.
21 In realtà, non tutti sono pienamente d’accordo su quanto detto. Infatti, si è sostenuto che alla base vi sia, invece, un giudizio di valore. In pratica, l’interprete non dovrà più effettuare un accertamento, bensì dovrà prendere una decisione; di conseguenza, un termine raggiungerà il suo “significato d’uso” nella sua massima espansione soltanto quando l’interprete, guidato da criteri di valore, decide che esso venga raggiunto. Seguendo un siffatto ragionamento, le possibilità di interpretazione estensiva si moltiplicano; di conseguenza, sembra legittimo chiedersi in relazione a quale parametro, oltre alla sua personale “valutazione”, l’interprete distingue i casi di reale interpretazione estensiva da quelli di un’indebita estensione analogica. In effetti, se dovessimo attenerci ad un giudizio che non sia puramente logico, ossia fondato sui “possibili significati della parola”, ma di valore, ossia basato esclusivamente su di una valutazione dell’interprete, si arriverebbe spesso e volentieri a “rendere possibile l’impossibile”. Cfr. E.
Morselli, op. cit., 521-522.
non tenendo per nulla conto dei possibili significati etimologici della formulazione.
Tuttavia, se in teoria non si presentano difficoltà di comprensione in ordine alle differenze, sul piano pratico la distinzione finisce col diventare sottile ed incerta. Infatti il giudice molto spesso opera delle commistioni, e l’inconsapevolezza, a riguardo, da parte sua non fa che renderne ancora più complicata l’individuazione23. Le commistioni di cui si parla costituiscono, a loro volta, l’oggetto di accuse fatte più volte al sistema giudiziario, in relazione all’ “esigenza” di voler
“sanare” il sistema normativo con un’interpretazione spregiudicata ed incerta, che mira esclusivamente a realizzare i bisogni di “giustizia sostanziale” dettati dalle carenze della nostra normazione24, compensandole però con un’elusione vera e propria divieto di analogia in malam partem. Al fine di comprendere il meccanismo per mezzo del quale accade questo, si ritiene opportuno un discorso più dettagliato, partendo da ciò che è basilare.
Nell’ambito dell’accertamento, il giudice utilizza due poteri diversi:
un “potere di denotazione giuridica” o d’interpretazione della legge25, ed un potere di “denotazione fattuale” o di interpretazione dei fatti26. In entrambi i casi vi è praticamente un’ etero-integrazione della legge per via giudiziaria. Questo fenomeno, per quanto alcune volte sia
22 A. Cadoppi-M. Donini etc., Introduzione al sistema penale, Torino1997,145.
23 R. Rinaldi, L’analogia e l’interpretazione estensiva nell’applicazione della legge penale, RIDPP, Milano 1994, I, 195-226, 196.
24 R. Rinaldi, op. cit., 195.
25 Che consiste nel “denotare”, appunto, un soggetto fattuale, ad esempio “un bacio”, con un predicato legale da lui ridefinito specificamente con estensione determinata (per esempio, “sono osceni tutti i baci dati in pubblico”). Cfr. L.
Ferrajoli, Diritto e ragione, Bari1989, 106.
26 Che esercita nel momento in cui denota con un predicato legale, per esempio,
“osceno”, un soggetto fattuale da lui connotato con i termini di estensione indeterminata usati dalla legge (ad esempio, “Tizio ha baciato Caia oscenamente”). Cfr. L. Ferrajoli, op. cit., ibidem.
inevitabile, mina alle sue basi la legittimità politica della funzione punitiva nello Stato di diritto; infatti, ne subiscono le conseguenze principi quali la divisione dei poteri, il monopolio legale del potere di denotazione penale e la soggezione del giudice soltanto alla legge, senza dimenticare, tra l’altro, che ne risulta compromessa anche la legittimità giuridica dei principi di stretta legalità e di stretta giurisdizionalità, in quanto principi di rango costituzionale.
Dunque, si può affermare che il potere giudiziario presenta sempre un certo tasso di irrazionalità e di illegittimità sia politica che giuridica, con la conseguenza che può diventare facilmente anche una forma di arbitrio qualora i termini adoperati nel giudizio siano viziati a tal punto da escludere ogni riferimento empirico o di carattere estensionale 27. Per questo, si ritiene di dover iniziare a precisare che i rapporti tra giustizia e politica riconducono unitamente al principio di legalità, unico “limite invalicabile” per la garanzia della libertà individuale28.
I punti nodali delle tensioni di cui si è parlato risiedono, quindi, proprio nell’interpretazione ed applicazione della legge: la dottrina, nel confronto con la giurisprudenza, ne ha evidenziato l’aspetto liberalgarantista, soprattutto in riferimento alle ormai frequenti interpretazioni estensive della norma penale29.
Il tema della legalità nell’interpretazione della legge deve essere dunque ricondotto a quello delle responsabilità rispettive del legislatore e degli operatori della legge. L’interprete del diritto opera
27 L. Ferrajoli, op. cit., ibidem.
28 D. Pulitanò, Il diritto penale alla prova del fuoco, RIDPP, Milano 1997, I, 3-41, 15.
29 È quanto emerge dagli atti del seminario dell’ISISC dell’ottobre 1990 su “le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale”, Napoli 1991. Cfr. D.
Pulitanò, op. cit., ibidem.
seguendo una sorta di “percorso”: parte dalla determinazione degli scopi politici ultimi della norma, si articola nel sistema legale per poi realizzarsi nella qualificazione giuridica di casi di specie. È proprio in questo “crescendo” di responsabilità che si realizza il rapporto tra politica legislativa e politica criminale sublegislativa dei giudici, formalmente vincolati alla legge, ma competenti alla sua interpretazione. Il legislatore, dal canto suo, nell’emanare norme penali non fa altro che assolvere ad un suo ben preciso dovere.
Qualora questo dovere non sia adempiuto secondo i criteri puntualizzati anche dalla stessa Corte Costituzionale30, allora c’è da aspettarsi che gli operatori del diritto penale colmino questa “lacuna”.
Il rilievo dei criteri precisati dalla Corte Costituzionale permette di denotare che manca, a tutt’oggi, un’adeguata tutela costituzionale contro l’interpretazione analogica in malam partem della legge penale.
Tuttavia, questo non vuol dire che un tentativo in tal senso non vi sia stato: infatti, nel novembre del 1997, la Commissione bicamerale del Parlamento ha approvato l’art. 129 del Progetto di riforma costituzionale. Questo articolo è stato inserito quale prima normativa nel settore delle norme sulla “giurisdizione”31. È bene però precisare che la volontà che trapela dal progetto di riforma è chiaramente quella di vincolare in futuro il legislatore penale ad un programma esplicito di riduzione dell’area di intervento, ossia realizzare concretamente il criterio di extrema ratio dell’intervento penale e di sussidiarietà. In
30 Nella sentenza 364/88 sull’art. 5 c.p.: “a fronte dei doveri dei cittadini stanno doveri dell’ordinamento statuale attinenti alla formulazione, struttura e contenuto delle norme penali”. Cfr. D. Pulitanò, cit., 16.
31 M. Donini, L’art. 129 del progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997, Critica del diritto, Napoli 1998, 95-163, 96.
realtà, dunque, il peso è tutto del legislatore, assai prima che della
“giurisdizione”.32
Gli obiettivi dell’articolo si denotano già dalla disposizione di apertura: infatti, stabilendo il primo comma dell’art. 129 che “le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale”, viene subito fatto chiaro che si intende modificare l’assetto costituzionale dei poteri relativi alla politica criminale33.
Il terzo comma, che è in realtà quello che interessa per la natura del presente lavoro, stabilisce: “le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo”. A parte il fatto che questa costituisce l’unica norma sulla giurisdizione, si può dire che qui si entri nel paradosso, poiché sembrerebbe che si voglia sottrarre al giudice lo stesso potere di interpretare la legge. Ritornando per un’attimo quell’“adempimento dei doveri” da parte del legislatore di cui si è parlato sopra, alla luce del III comma dell’art. 129 si può ora rispondere che solo un legislatore capace di adempiere sul serio ai suoi compiti, senza necessità alcuna di doverli delegare
32 M. Donini, op. cit., 99.
33 Questa normativa costituirebbe per la Corte Costituzionale una “rinnovazione”
nell’attività di controllo che esercita nei confronti della politica criminale del legislatore, poiché fino ad ora le questioni di costituzionalità rimesse alla Corte hanno avuto ad oggetto la verifica della mera ragionevolezza delle incriminazioni.
In fondo, il problema dal quale muove è tutto di autentica “democrazia penale”:
infatti, la sfiducia nei confronti della capacità del Parlamento di autodelimitare la politica criminale è talmente elevata che si ritiene necessario un garante superiore, immune dai giochi politici. Anche il secondo ed il terzo comma prospettano identiche problematiche di assetto democratico nell’esercizio del potere penale. Il comma II stabilisce che “non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività”. Qui ciò che si chiede è una valutazione dell’offensività che sia “reale” in vista della applicazione della fattispecie, poiché di una norma con i confini “precisi” non si può che apprezzarne la serietà; allo stesso modo, è stata evidenziata anche l’urgenza di spazi che il giudice dovrebbe avere, nel rispetto, naturalmente, di criteri predeterminati, non solo nella valutazione di un fatto come inoffensivo, ma anche nei casi di microlesioni, di offese esigue da parte di autori non pericolosi e così via. Cfr. M. Donini, op. cit., 98.
implicitamente ai magistrati, può permettersi di “sognare” un divieto di interpretazione estensiva 34. Vediamo perché si è arrivati a dire questo.
Un divieto costituzionale di interpretazione estensiva sottostà a sua volta ad un’interpretazione fortemente restrittiva: questo perché se i confini tra l’analogia e l’interpretazione estensiva sono alquanto
Un divieto costituzionale di interpretazione estensiva sottostà a sua volta ad un’interpretazione fortemente restrittiva: questo perché se i confini tra l’analogia e l’interpretazione estensiva sono alquanto