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La finalità di terrorismo o di eversione

Il d.l. 625/79 costituisce il frutto di due esigenze specifiche: da un lato, l’urgenza di fornire una risposta “straordinaria” ed allo stesso tempo “idonea” a rassicurare il bisogno di tranquillità di tutti;

dall’altro lato, la consapevolezza della persistenza del fenomeno terroristico, in tutta la sua gravità, nonostante i vari sforzi compiuti attraverso le normative dell’“emergenza” fino allora emanate72.

69G. Neppi Modona, op. cit., 83.

70 G. Neppi Modona, op. cit., ibidem.

71 G. Neppi Modona, op. cit., ibidem.

72 E’ bene precisare che lo stesso d. l. 625/79 non ha subìto sorti molto diverse sotto questo punto di vista, in quanto, dopo un mese dalla sua entrata in vigore, sono stati compiuti gli assassinii dell’uomo politico Mattarella e, a Milano,

All’orizzonte di tutto ciò si intravede anche una problematica ulteriore: il rispetto della Costituzione, sotto il duplice profilo delle

“garanzie costituzionali” che vengono chiamate in causa e della

“legittimità”, secondo l’opinione pubblica, degli interventi coercitivi statali73.

Le norme che aprono il decreto legge prevedono, rispettivamente, un’aggravante generale per tutti i reati “commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art.1), una figura di

“attentato alla vita o all’incolumità personale per dette finalità (art.2), ed una nuova figura di associazione “avente finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico” (art.3); già dai primi tre articoli si denota il carattere comune a tutte le normative del decreto legge: la commissione dei delitti “per finalità di terrorismo od eversione”.

Prima di procedere ad una analisi dettagliata di tale normativa, si ritiene opportuno chiarire il significato dei termini “terrorismo” ed

“eversione”, anche al fine di una verifica circa la possibilità che questi due elementi siano scindibili l’uno dall’altro, o che, al contrario, siano strettamente legati.

Per quanto concerne la nozione di terrorismo, non si può di certo dire che costituisca un termine “remoto”: infatti, com’è stato già detto in precedenza, è stato introdotto per la prima volta dal d.l. n. 59/78, nella descrizione della figura del “sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione”.

Ciò che salta subito all’attenzione, non soltanto in relazione a questa normativa, ma anche al d.l. 625/79, è che il termine “terrorismo” si accompagna spesso a quello di “eversione dell’ordine costituzionale”.

l’assassinio di alcuni poliziotti. Cfr. D. Pulitanò, Le misure del Governo per l’ordine pubblico, Democrazia e diritto, Roma 1980, 19-29, 19.

73 D. Pulitanò, op. cit., ibidem.

L’unica eccezione sembra essere costituita dall’art. 3 d.l. 625/79, il quale, nella rubrica dell’articolo parla di associazioni aventi “finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”, mentre il testo della norma fa riferimento al “compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine democratico”, non facendo alcun accenno al termine di terrorismo. L’opinione prevalente ritiene che, in questo caso, il “fattore terrorismo” sia configurabile lo stesso anche nel testo della normativa, proprio là dove si parla del “compimento di atti di violenza”74. In un primo momento, diversi autori hanno fondato l’autonomia concettuale della finalità di terrorismo da quella di eversione in base al presupposto secondo il quale la prima si identifica nello scopo di “spargere il panico nella collettività”75. Tuttavia, quest’opinione è stata criticata almeno sotto due punti di vista: qualora si dovesse intendere la finalità di terrorismo come intento di diffondere la paura, si fonderebbe di conseguenza il giudizio di disvalore del fatto sulla base di un movente-scopo di tipo interiore, che non ha nulla a che vedere con i principi fondamentali dell’ordinamento democratico. Un’altra ragione, difficilmente confutabile, è quella relativa alla particolare contingenza durante la quale è stato “coniato” il termine di “terrorismo”: le normative in esame sono il frutto di situazioni caratterizzate da una particolare violenza, del tutto diversa da quella per la quale oggi potrebbe essere applicato qualche articolo appartenente alla legislazione dell’emergenza. Si premette che quest’ultima considerazione formerà oggetto di esame più avanti; ciò che rileva in questa sede specifica è che la violenza di cui si parla non ha più quello stesso significato che

74 P.L. Vigna-G. Chelazzi, Terrorismo, voce del Dizionario di dir. e proc. pen., a cura di G.Vassalli, Milano 1986, 1055-1093, 1056.

75 Così F. Palazzo; G.A.De Francesco; cfr, P.L.Vigna- G.Chelazzi, op. cit., 1057.

aveva durante gli “anni di piombo” e per la quale sono stati emanati provvedimenti legislativi, ed è per questo che si è ritenuto di poter individuare la ratio della finalità di terrorismo in una definizione sicuramente più neutrale: in altre parole, nello scopo di usare la violenza quale strumento per il perseguimento di obiettivi politici76.A questo punto, ci si chiede se la finalità di terrorismo ed eversione siano diverse e, se è così, per quale motivo.

Nella maggior parte dei casi le due finalità si presentano distinte, in base al fatto che a renderle diverse è la congiunzione “o”. Tuttavia, se si presta attenzione all’art. 270bis, si denota che le due finalità sono congiunte. In conformità a questa considerazione, che a sua volta si fa forte di una precedente, che si fondava sull’espressione “ordine democratico”, poi sostituita da “ordine costituzionale”77, si è rilevato che le due finalità sono congiunte e si risolvono nello scopo di far valere richieste politiche mediante la violenza anziché mediante il metodo democratico previsto dalla Costituzione78.

Orbene, se la presenza, sotto svariate forme, del ricorso alla finalità di terrorismo o di eversione costituisce sicuramente un forte impatto simbolico dal punto di vista della lotta alla criminalità terroristica, non si può neanche negare che un ricorso così frequente di detta finalità non determini anche il sorgere di alcuni dubbi.

In campanello di allarme è dato dalla “panoramica normativa”

contenuta nel disegno di legge n. 601 del 197979, convertito con modificazioni nel d.l. 625/79. Tra le normative in esso contenute si

76 P.L. Vigna- G. Chelazzi, op. cit., 1058.

77 Vigna. Cfr. P.L. Vigna-G. Chelazzi, op. cit., ibidem.

78 P.L. Vigna- G.Chelazzi, op. cit., 1059.

79 Disegno di legge n. 601, presentato al Senato il 18 dicembre del 1979, concernente “Misure per la lotta alla criminalità terroristica ed organizzata”. Cfr.

denotano, in particolare, le figure di “reati associativi”, quali

“l’associazione avente finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico”, e movimenti o gruppi “di carattere militare”80.

Carattere di novità presentano, invece, altre norme: detenzione di documenti o cose per finalità di terrorismo o di eversione, pubblicazione di documenti istigatori o apologetici per finalità di istigazione od apologia di dati delitti, “fiancheggiamento” ad appartenenti ad organizzazioni di matrice terroristica. Ebbene, se è vero che è stata ampliata la repressione penale, a causa di un’impellente situazione di emergenza, è anche vero che l’intera linea di intervento va incontro ad alcuni nodi di fondo, che vanno al di là della formulazione delle norme, per scontrarsi con l’esigenza di una politica criminale razionalmente fondata.

Anzitutto, una vivace discussione ha avuto ad oggetto la pubblicabilità di documenti dei terroristi, in quanto al limite fra una violazione della libertà di informazione e l’eventualità che possa costituire una “cassa di risonanza” della politica eversiva. Un’altra questione è quella relativa all’“appoggio” ad organizzazioni terroristiche. Certo, la normativa avrebbe potuto applicarsi nel caso di condotte materialmente accertate, in quanto indizianti dell’esistenza di una collaborazione con organizzazioni eversive81, ma questo non basterebbe comunque a far assurgere a elemento di prova l’appartenenza all’associazione; in questi casi, infatti, l’appartenenza potrebbe essere quella di punire un fatto come reato in base ad “una buona verosimiglianza” con la fattispecie.

D. Pulitanò, op. cit., p. 19; F. Palazzo, La recente legislazione penale, Padova 1980, 51.

80 D.d.l. 601 del 1979. Cfr. D.Pulitanò, op. cit., 22.

81 Ad esempio, un’occasionale distribuzione di volantini. Cfr. D. Pulitanò, op cit., 24.

Alla sopra descritta questione dell’appoggio sembra rapportabile anche la questione relativa alle pubblicazioni di contenuto istigatore o apologetico. Questa normativa ha costituito oggetto di molte preoccupazioni, soprattutto da parte dei giornalisti: il dolo specifico della finalità di terrorismo od eversione non è una garanzia sufficiente ai fini della salvaguardia della libertà d’informazione82. Considerando che, nella maggior parte delle pubblicazioni eversive, il fine era mascherato molto abilmente, il criterio in relazione al quale distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è, non è tanto l’ancoraggio al dolo specifico, quanto stabilire “se queste pubblicazioni abbiano o non abbiano, per il loro contenuto oggettivo, il diritto di liberamente circolare”83.

Dal loro contenuto oggettivo si può distinguere, infatti, il mero dissenso antistituzionale, garantito dalla Costituzione poiché rientrante nella libertà di manifestazione del pensiero, dall’apologia vera e propria, in quanto pensiero contrastante con i valori contenuti nella Costituzione. L’indeterminabilità del contenuto oggettivo, in questo caso, è la conseguenza naturale degli interessi posti in gioco: l’unica cosa da evitare, a questo punto, è una risposta affrettata, la cui unilaterale preoccupazione per uno soltanto degli interessi in gioco finisca per stravolgere la considerazione dell’insieme84.

Alla luce di quanto detto si può affermare che, scontata una rigorosa repressione delle associazioni aventi finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, oppure di azioni, quali ad esempio gli attentati effettuati sempre per la medesima finalità, situazioni entrambe lesive della vita, dell’incolumità e di altri valori essenziali, si

82 D. Pulitanò, op. cit., ibidem.

83 D.Pulitanò, op. cit., 25.

84 D. Pulitanò, op. cit., 25.

debba procedere invece con estrema cautela per quanto concerne la vasta area del fiancheggiamento o del dissenso antistituzionale ma non violento85.

In effetti, dopo quanto detto, si può sostenere che il tipo di garanzia sotteso al dato soggettivo della finalità di terrorismo ed eversione, ossia ancorare la punibilità al presupposto che quella azione sia compiuta in vista del perseguimento di una finalità di terrorismo ed eversione, non sia molto fondato per quanto riguarda le pubblicazioni, in quanto per queste è più utile un riferimento di tipo oggettivo, quale la natura, il tipo di diffusione, il livello di “presa sociale” che hanno86. Al contrario, a precisare l’importanza della presenza del dato soggettivo è la stessa relazione al disegno di legge per la conversione del decreto legge, nella quale anzi, l’esigenza di punire il disvalore derivante dalla condotta si configura nella stessa ragione giustificatrice dell’introduzione dell’art. 270bis: “l’art. 3 mira anch’esso a colmare una lacuna, creando una figura criminosa associativa che si affianca a quelle già esistenti nel codice penale.

Mancava infatti una fattispecie che prevedesse come illecito autonomo la condotta di coloro che promuovono, costituiscono, organizzano o dirigono, associazioni aventi finalità di terrorismo o di eversione e di coloro che partecipano ad esse”87. D’altra parte, è stata ulteriormente

85 D. Pulitanò, op. cit., 22.

86 D. Pulitanò, op. cit., 25.

87 Sempre nel medesimo testo viene precisata anche la ragione dell’entità della sanzione, al fine di troncare alla radice eventuali problemi di legittimità costituzionale, che già si manifestarono con l’art. 270 c.p. e che furono ritenute infondate dalla Corte costituzionale: "nel considerare l’elevato livello delle pene si deve tener conto che la gravità del comportamento, che le finalità di terrorismo e di eversione integrano, doveva trovare una punizione adeguata nella stessa norma incriminatrice”. Cfr. P.L.Vigna, La finalità di terrorismo o di eversione, in La legislazione dell’emergenza, 8, Milano 1981, 19-100, 89.

precisata dall’allora Ministro di grazia e giustizia88 la necessità di affrontare al meglio tutte le possibili ipotesi di reati associativi, attraverso la previsione di un ampio numero di fattispecie che, per quanto possano essere causa di problemi di tipo applicativo,

“costituiscono un essenziale garantismo per il cittadino, mentre con fattispecie troppo ampie e generiche si rischierebbe di condurre la società su vie molto preoccupanti”.

Orbene, la situazione delineata sino ad ora non è altro che lo

“specchio”, seppur deformato a causa dell’emergenza, di una tendenza che, a partire dagli anni cinquanta, si manifesta sempre più prepotentemente, e che attribuisce un rilievo maggiore che in passato tanto al “disvalore dell’azione” quanto a talune finalità della condotta.

Nel campo della legislazione speciale, poi, si manifesta un ricorso piuttosto consistente a questo tipo di tecniche di tutela, soprattutto in relazione a nuovi interessi da proteggere89 e con una realizzazione dell’illecito molto anticipata rispetto a beni “finali”90.

Il discorso affronta i fondamentali problemi della teoria generale del reato, ed ha per oggetto il ruolo del disvalore d’azione e del disvalore d’evento, con le rispettive teorie “finalistica” e “causalistica” del reato.

La teoria causalistica del reato è legata al carattere decisivo del disvalore d’evento all’interno dell’illecito. Secondo questa teoria, il disvalore d’evento costituisce uno strumento irrinunciabile al fine di indicare la nota oggettiva che legittima il rigore dell’intervento

88 Morlino. Cfr. P.L. Vigna, op. cit., 89.

89 Dallo sfruttamento della prostituzione allo spaccio di droghe pesanti, da certe forme abortive ai reati ambientali. Cfr. M. Donini, Teoria del reato: una introduzione, Padova 1996, 138.

90 M. Donini, op. cit., 139.

punitivo scelto. Questa concezione del reato ha regnato incontrastata fino agli anni cinquanta, ossia fino al momento in cui inizia a verificarsi un ricorso sempre maggiore alla “soggettivizzazione”

dell’illecito, secondo gli schemi descritti dalla teoria finalistica dell’azione. Questa teoria, che ha come promotore Hans Welzel, si caratterizza per una radicale “rivisualizzazione” dei rapporti tra fatto giuridico e colpevolezza; in pratica, mentre la concezione classica del reato vede il dolo e la colpa come elementi della colpevolezza, la teoria finalistica li qualifica invece quali elementi della fattispacie91. Questa concezione è accolta in modo particolare in Germania. In Italia, al contrario, incontra diverse resistenze.

Il motivo per il quale la concezione finalistica del reato trova

“barriere” risiede tutto nel timore che, utilizzando una concezione del reato siffatta, si arriverebbe ad indebolire le garanzie che la Costituzione italiana assicura ai diritti di libertà del cittadino.

L’indebolimento delle garanzie è dovuto, secondo i più fermi sostenitori, ad una “ipersoggettivizzazione” dell’illecito che, in sede giudiziale, mette inevitabilmente il giudice in una situazione di abuso di potere, a danno dell’individuo92.

Dietro l’esigenza di tutelare le garanzie legate al diritto di libertà del cittadino, esigenza che si suole sintetizzare col termine “garantismo”, una parte piuttosto consistente della dottrina italiana si è mossa in modo praticamente antitetico rispetto alla concezione finalistica, affermando, in base all’interpretazione degli artt. 43 e 49, II del nostro codice che, nel nostro ordinamento, accanto al principio di stretta legalità, e quindi di tipicità, sussiste anche un principio “di necessaria

91 E. Morselli, L’elemento soggettivo del reato nella prospettiva criminologica, RIDPP, Milano 1991, I, 87-106, 87.

92 E.Morselli, op. cit., 88.

offensività”. In base a questo principio, un fatto non può costituire motivo d’incriminazione per il soggetto se, oltre a corrispondere alla fattispecie astratta, non si traduce, in concreto, in una offesa al bene giuridico tutelato dalla norma. Il risultato di ciò è lo spostamento del disvalore dell’illecito nella realizzazione dell’evento.

È stato rilevato, però, che proprio la maggiore “soggettivizzazione”

dell’illecito potrebbe costituire fonte di ulteriori garanzie, in quanto,

“se condotta rigorosamente nel rispetto del principio di stretta legalità, essa non può che giungere a restringere la sfera dell’incriminazione, attraverso la ricerca della sussistenza di requisiti ulteriori rispetto a quelli meramente esteriori o materiali”93. In effetti, in questo modo lo stesso principio di necessaria offensività acquisterebbe una maggior forza garantistica, poiché, accanto all’esistenza del requisito materiale di un risultato, si richiederebbe altresì l’accertamento del disvalore specifico della condotta, quale manifestazione dell’atteggiamento interiore del soggetto agente94.

Una critica più specifica che si è soliti muovere riguarda la difficoltà che comporta una simile concezione in ambito probatorio, poiché richiede una maggiore introspezione psichica da parte del giudice, con la conseguente possibilità di arbitri95.

In realtà, in diversi casi il codice penale italiano richiede una particolare introspezione psichica. Nella parte speciale del codice sono molte le ipotesi che possono essere chiamate in causa in tal senso; a titolo meramente esemplificativo, si possono ricordare le ipotesi di vilipendio, lo stabilire se il fatto sia avvenuto “fraudolentemente” e

93 E.Morselli, op. cit., 89.

94 E. Morselli, op. cit., ibidem.

95 N. Mazzacuva, Il soggettivismo nel diritto penale: tendenze attuali ed osservazioni critiche, F.I., Roma 1983, 45-64, 62.

così via. Quanto detto ovviamente vale più che mai per quanto concerne il 270bis, poichè anch’esso, in modo piuttosto evidente, fa parte di quest’ambito: di questa figura di reato associativo è difficile stabilirne l’effettivo ambito di operatività, se non attribuendo importanza decisiva all’accertamento della finalità di terrorismo ed eversione96, ed anch’essa, come è facile intuire, appartiene all’ambito psichico97.

Tuttavia, il tentativo di adesione alla tesi finalistica del reato si inceppa proprio su di un punto di decisiva importanza: se è vero che il dolo appartiene al fatto tipico, non è però altrettanto vero che il dolo consista nel fine dell’azione98. In effetti, soltanto in una minima parte dei fatti dolosi previsti dal nostro codice, e precisamente quelli a dolo diretto di primo grado, o intenzionale, è ravvisabile una struttura tipicamente finalistica, ossia la realizzazione di un risultato che il soggetto si pone come fine della sua azione. Se si fa riferimento, invece ai reati a dolo diretto c.d. di secondo grado, o indiretto, si denota che non vi è alcun rapporto finalistico, in quanto l’evento non è voluto direttamente, ma si configura come conseguenza certa o fortemente probabile di un altro evento, invece voluto. A maggior ragione si può negare tale ricorrenza nel dolo eventuale, nel quale vi è una mera accettazione del rischio che si verifichi un evento che non si vuole, neppure in modo indiretto. Per quanto riguarda poi i fatti omissivi dolosi, ve ne sono alcuni99 in cui manca una vera e propria

96 N. Mazzacuva, op. cit., 48.

97 P.L. Vigna-G. Chelazzi, Terrorismo, voce del Dizionario di dir. e proc. pen., a cura di G. Vassalli, Milano 1985, 1055-1093, 1061. A riguardo, è stata anche sostenuta l’importanza del fattore dell’introspezione psichica nel processo penale, poiché, utilizzando anche questo tipo di mezzi, verrebbero evitati il più possibile gli errori giudiziari. E. Morselli, cit., 103.

98 E. Morselli, cit., 90.

99 Ad esempio l’omissione di soccorso. Cfr. E. Morselli, cit., 91.

decisione di omettere, ma nonostante ciò si è sempre in dolo e non in colpa, mentre si è in colpa in altri casi di omissione100, in cui il soggetto può voler omettere, però l’omissione si configura in pura negligenza e non in vera e propria malafede.

Dunque, si può concludere che il dolo non è finalità; tuttavia, questo non vuol dire che bisogna prendere atto del fatto che l’unica concezione possibile sia quella classica, poiché, dalla panoramica sopra fornita, si deduce che se il dolo non è finalità, non è neanche, nella maggior parte dei casi, volontà dell’evento nei termini strettamente intesi dalla concezione classica.

Orbene, con una configurazione del dolo piena di interrogativi quale quella appena delineata, non rimane altro da fare che andare a fondo della questione.

È stato detto, anzitutto, che vi è “un dolo ed una colpa che non sono ancora colpevoli”101. Si parla più esattamente di una duplice dimensione del dolo, in quanto presente sia nella tipicità che nella colpevolezza.

Secondo questa osservazione, esiste una componente dell’elemento psicologico legata al come l’elemento soggettivo condizioni le modalità dell’azione, nella sua valenza fenomenica, non ancora pervenuta ad un giudizio di disvalore sociale; in altre parole, si è di fronte ad un livello di responsabilità non ancora definito in punto di colpevolezza102. Questa componente è molto rilevante ai fini del conseguimento di effetti penalmente rilevanti: infatti, ogni giudizio riguardante la responsabilità penale di un soggetto dovrà sempre

100 Quali ad esempio l’omissione di atti d’ufficio. Cfr.E. Morselli. Ibidem.

101 M. Donini, Teoria del reato, voce Digesto disc. pen., Torino 1987, 221-298, 276.

102 M. Donini, op. cit., 276.

valutare anche oltre la soglia del dolo pertinente alla realtà di fatto, mancando, altrimenti, la colpevolezza inerente ai coefficienti di tipicità soggettiva. In virtù di questo suo carattere, questa viene

valutare anche oltre la soglia del dolo pertinente alla realtà di fatto, mancando, altrimenti, la colpevolezza inerente ai coefficienti di tipicità soggettiva. In virtù di questo suo carattere, questa viene