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5. Rileggere la periferia: l’appropriazione

5.2 L’arte di fare la periferia

All’interno delle dinamiche di trasformazione delle periferie, si assiste a un doppio processo di cambiamento. Da un lato la periferia si trasforma per gli interventi esterni con cui i diversi attori la investono, variamente titolati a trattare le pratiche di trasformazione del territorio a partire da principi di potere, sapere e legittimità formale. Dall’altro lato si assiste a un processo di cambiamento interno legato al vivere quotidiano degli abitanti (Cremaschi 2008) e agli «innumerevoli modi in cui le collettività trasformano lo spazio naturale in

spazio sociale e ne modellano gli usi» (Gans in Cremaschi 2008: 13).

Si individuano così, accanto alle forme e agli elementi che determinano e definiscono il cambiamento in ambiente urbano, frutto di piccole e grandi

trasformazioni materiali (trasformazioni urbanistiche, infrastrutturali,

immobiliari, etc.), gli elementi caratteristici della trasformazione di un quartiere in quanto spazio sociale, a partire dall’uso che le popolazioni che lo abitano e lo attraversano ne fanno e ne hanno fatto (Gans, 2002).

Il cambiamento deriva quindi anche da un riposizionamento delle categorie interpretative di vita locale e convivenza, che si riflettono con evidenza nel mutamento delle pratiche: «cambiano i dati materiali, i numeri, i volumi e i

valori. Ma cambia soprattutto la significazione dello spazio locale rispetto all’agire degli abitanti» (Cremaschi, 2008: 19).

Queste trasformazioni ‘endogene’ sono quindi connesse all’agire degli abitanti e alle pratiche dei luoghi che costituiscono insieme il modo di abitare inteso come «une combinaison durable de manières d’être et de faire» (la

Mache, 2002); «la question de l’habiter est donc fondamentalement une

question de pratiques, associées aux représentations, valeurs, symboles, imaginaires qui ont pour référent les lieux géographiques» (Stock, 2004).

Nell’atto di abitare un grand ensemble, ogni abitante sviluppa un insieme di abilità singolari che si regolano e mescolano alle abilità messe in campo dagli altri abitanti: comprendere «l’acte d’habiter» porta «à comprendre comment,

saisissant la matière brute du logement et puisant dans les forces de leur existence, des individus fabriquent pour les investir des espaces et des lieux» (la

Mache, 2002).

In questi atti di produzione di spazi e luoghi si individua, citando de Certeau (1990), «l’art de faire» la banlieue, attraverso la quale si ricercano e si tentano di comprendere «les manières de faire» che ciascuno, singolarmente e in gruppo, esercita sui luoghi nell’atto di abitare la periferia; le attitudini degli individui per adattarsi alle condizioni materiali dell’alloggio, dell’edificio, del quartiere, elementi di cui gli abitanti si appropriano e trasformano attraverso il loro modo fare, introducendo in essi una propria parte di soggettività.

Questo modo di ‘usare’ i luoghi nasconde una forma di produzione ‘invisibile’ dello spazio da parte degli abitanti che si disvela, attraverso le pratiche, nelle forme di appropriazione esercitate, permettendo agli abitanti di produrre uno ‘spazio altro’ rispetto a quello imposto dagli attori riconosciuti come unici produttori dalle politiche urbane.

Nell’‘arte di fare’ la periferia si va alla riscoperta del modo, consapevole o meno, con cui gli abitanti di queste realtà si pongono come produttori alternativi, e non riconosciuti, del proprio ambiente di vita all’interno di regole formali e sociali imposte da un sistema di produzione dello spazio codificato e legittimato.

Con la diffusione dell’habitat collettivo del dopoguerra, ispirato agli schemi promulgati dal razionalismo, il rapporto tra comunità e luoghi - che ha rappresentato l’elemento determinante nella storia degli insediamenti per la produzione della qualità diversificata dei contesti locali - si è rotto in maniera definitiva (Decandia, 2000: 255).

I grands ensembles, come prodotto del processo di industrializzazione dell’habitat le cui forme geometriche e standardizzate emergono ex nihilo nei dintorni dei centri urbani con la pretesa di portare localmente risposte definitive alla questione abitativa, dimostrano chiaramente la rottura di questa relazione.

I quartieri di alloggi sociali degli anni Sessanta rappresentano il compimento di un progetto di razionalità che apre la via alla meccanizzazione e

standardizzazione dei modi di riproduzione dell’habitat e di consumo domestico. Gli abitanti di queste nuove realtà urbane si trovano a dover sottostare alle regole d’uso imposte dagli attori pubblici, dagli architetti, dal mercato attraverso la produzione e diffusione dei nuovi modelli abitativi. Nello stesso tempo, la costruzione di alloggi per un pubblico ‘anonimo’ impone norme di comportamento legate alla fruizione dei nuovi immobili: « devant la difficulté de

construire pour un client anonyme, on a tenté de répertorier des besoins ‘moyens’ auxquels le logement devait satisfaire, en espérant répondre ainsi aux aspirations des habitants » (Haumont, 1968: 180).

Questa nuova concezione si basa sul concetto di «confort» che trova nell’inquadramento normativo i fondamenti per la sua riproduzione in serie. In questo percorso è utile comprendere ciò che è lasciato indietro dall’imposizione di questa visione tecnicistica e normativa, che Pinson (2001) individua come causa delle anomalie («le gigantisme des opérations», «le panoptisme interne»,

etc.) scaturite dalla distinzione tra il concetto di «confort» e quello di

«habitabilité» e alla base della rapida ‘svalutazione’ che colpisce i quartieri d’habitat sociale. L’«habitabilité» è indicata come «une somme de qualités qui

ne renvoient pas seulement aux exigences de l’hygiène (…), mais à un ensemble de qualités spatiales qui, par une adhésion forte de l’habitant, contribuent à sa construction comme être social, habitant-citadin-citoyen» (Ibid.: 44).

La modernità come rottura o come movimento di trasformazione radicale decreta la predominanza definitiva dei saperi e delle soluzioni professionistiche nella produzione della città, allontanando definitivamente l’abitante dalla possibilità di partecipazione alla produzione dello spazio.

Nel periodo che coincide con la produzione degli alloggi di massa e con la destrutturazione dell’habitat popolare, numerose critiche si sollevano nei confronti del funzionalismo (Fijalkow, 2011: 29), in cui i modi di abitare sono ridotti a delle tecniche che negano rapidamente i modelli culturali in nome del «pouvoir de la mécanisation» (Pinson, 2001: 45).

L’introduzione della nozione di «modèles culturels d’habitat», che appare all’interno delle scienze sociali alla metà degli anni Sessanta, permette di superare la visione di un alloggio pensato in solo termini tecnici di standard abitativi per recuperarne la dimensione sociale e simbolica (Segaud, 2010).

Nel 1968, Nicole Haumont in «Habitat et modelès culturels» analizza la situazione francese del dopoguerra, caratterizzata dalla diffusione d’immobili collettivi alle periferie delle grandi città. Il sociologo riscontra tra gli abitanti dei nuovi alloggi un alto grado di soddisfazione; essi dichiarano, infatti, di trovarvi migliori condizioni abitative rispetto alle precedenti. Nonostante ciò, gli stessi

abitanti, se posti in una condizione di scelta, affermano la predilezione per un diverso tipo di sistemazione, dimostrando come l’alloggio non possa essere ridotto alla soddisfazione delle sole esigenze funzionali:

«Le logement n’est pas une ‘machine à habiter’ susceptible de procurer

une ‘vie harmonieuse’ par la satisfaction de besoins répertoriés une fois pour toutes, quel que soit l’individu auquel il est destiné. On ne peut pas demander à l’habitant de s’adapter à un logement qui lui es ‘attribué’ sans tenir compte de ce que signifie pour lui le fait ď ‘habiter’» (Ibid.: 181).

Haumont rileva come lo spazio abitato non sia né neutro né omogeneo ma carico di significati strettamente legati all’esistenza dell’abitante stesso. È il modello culturale di riferimento proprio dell’abitante, definito come « ces

manières de faire, […], comme des modes opératoires, des recettes, qui préforment les pratiques de tout un chacun dans une société» (Segaud, 2010:

106), a determinare il modo in cui egli si appropria dello spazio:

«Celui-ci s’approprie l’espace habité par un marquage en référence à des

modèles culturels transmis par l’éducation. C’est l’étude de ce marquage, et de sa socialisation qui devrait permettre de mieux comprendre le besoin général ‘d’habiter’ et la satisfaction que lui apportent des modes de logement différents» (Haumont, 1968: 181).

Nelle forme di appropriazione dello spazio esercitate dagli abitanti si rendono evidenti «les manières de faire» attraverso cui gli individui cercano di ricostruire uno spazio adeguato alle proprie esigenze - funzionali, sociali e simboliche - che non sempre coincidono con quelle imposte dal sistema di potere corrente ed esprimono il proprio modo di pensare e vivere ‘l’abitare’.

Il quadro urbano rappresenta allora, allo stesso tempo, un «contrainte-

ressource» con il quale l’individuo «doit faire et composer» come possibilità per

tornare a inventare la periferia (Garcia, 2002: 230): «ce faire avec» i luoghi che caratterizza il modo di abitare dell’habitat popolare non è un semplice accomodamento ma, al contrario, suppone dei margini d’iniziativa da parte degli abitanti. In queste forme di appropriazione non previste né pianificate si può riconoscere la capacità degli abitanti di intervenire nella produzione di un habitat alternativo che corrisponda maggiormente alle proprie aspirazioni; si può riconoscere in questa ‘arte di fare’ «le geste qui, en définitive, invente la ville» (Ibid.: 231).

5.2.1 Appropriazione dello spazio: oltre il marquage e gli indizi ambientali

Per introdurre l’espressione ‘appropriazione dello spazio’, centrale nella presente esposizione, possiamo ricorrere per la sua definizione alle parole di Lefebvre: «un gruppo si appropria uno spazio, quando […] lo modifica secondo i

propri bisogni e le proprie possibilità» (1976: 169). Approfondendo la nozione

possiamo anche dire che intendiamo per appropriazione «l’ensemble des actions

des hommes dans l’espace, consistant simultanément à lui donner des configurations spatiales matérielles et des significations» (1970: 203).

L’autore rende conto della complessità del concetto di spazio inteso nella sua dimensione pratico-simbolica. Egli introduce con il concetto di appropriazione la distinzione tra lo spazio così come concepito dai professionisti della città e ciò che accade al suo interno, che deriva dal vissuto degli abitanti e da ciò che essi percepiscono e immaginano per la città: un sistema di rappresentazioni dello spazio che associate alle pratiche di uso della città supportano la creazione di un sistema di segni e di simboli importanti per comprendere il valore attribuito allo spazio dagli individui o gruppi sociali che lo abitano.

La nozione di appropriazione così introdotta è in realtà polisemica. Dalle diverse definizioni di appropriazione dello spazio rilevate dalla lettura dei testi delle scienze sociali (Korosec-Serfaty, 1976; Pinson, 1993; Raymond et al. 2001; Segaud, 2010) si arriva a una prima distinzione tra modalità di appropriazione dello spazio a dominante materiale da quelle a dominante ideale (Ripoll, 2006: 18).

Nel primo gruppo rientra la «pratique ou l’usage autonome» (Ibid.) che corrisponde alla possibilità di usufruire dello spazio liberamente, in assenza di costrizioni sociali esplicite. Questo controllo dello spazio può essere più o meno forte e può comportare azioni più o meno visibili: può includere azioni di sistemazione, trasformazione, modifica dello spazio, così come anche la semplice occupazione (Ripoll, Veschambre, 2005).

Delle modalità a dominante materiale fa parte anche la «pratique ou

l’usage exclusif» che, individuale o collettiva, comporta solitamente pratiche di

chiusura dello spazio per dei dispositivi materiali. A queste forme si può aggiungere «le contrôle de l’espace» che non prevede sempre la pratica di un luogo ma può anche essere esercitato per mezzo di persone interposte (forze dell’ordine, agenti di sorveglianza, etc.) (Ripoll, 2006: 18).

Se queste forme di appropriazione possono considerarsi «inséparables