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La demolizione dei quartieri di habitat sociale Un dibattito ancora aperto?

4. Rifare la periferia: la demolizione

4.3 La demolizione dei quartieri di habitat sociale Un dibattito ancora aperto?

Fin dall’epoca dell’abbattimento dell’edificio Debussy (18 febbraio 1986), barra di 367 alloggi nel quartiere de La Courneuve a Parigi, evento emblematico nella storia delle demolizioni dei quartieri di habitat sociale in Francia per la forte mediatizzazione cui è stato sottoposto, gli osservatori stranieri preconizzavano l’apertura di un dibattito allargato sul futuro delle periferie riconoscendo validità, in campo internazionale, a un tema che altrove presentava già una sperimentazione avanzata, come a esempio negli Stati Uniti (cfr. La Cecla, 2006).

L’importanza del tema è legata anche alla rilevanza - come già sottolineato in precedenza - che l’Unione Europea ha assegnato alla diffusione dei programmi di sostituzione urbana attraverso l’interesse dimostrato nell’ambito delle politiche urbane alle strategie e alle azioni rivolte alla rigenerazione della città (Manzo, 2006).

Attraverso il Fondo europeo per lo sviluppo regionale, l’Unione Europea ha avuto una funzione trainante nel promuovere i primi Progetti Pilota Urbani e ha reso possibile nel corso delle successive programmazioni l’affermarsi di un insieme di politiche urbane comuni (Urban, Interegg, etc.): il bisogno di recuperare i tessuti insediativi storici, la necessità di riqualificare aree periferiche degradate e la questione legata alle aree dismesse hanno rappresentato i fattori di spinta verso l’applicazione di questi programmi.

La riqualificazione urbana, basata su programmi di ‘rottamazione e rifunzionalizzazione’ di parti di città, ha la finalità di risolvere i problemi che si rintracciano nella generale condizione di disagio e degrado che caratterizza le aree d’intervento (Di Palma, 2012: 151), riscontrando, in ambito europeo, dei fattori di criticità comuni ai differenti sistemi insediativi locali.

Il declino economico e sociale, il deterioramento della qualità della vita, dell’ambiente urbano e della coesione sociale urbana sono i temi alla base della comunicazione della Commissione Europea «Verso una strategia tematica

prestazioni ambientali e assicurare agli abitanti delle città europee un ambiente di vita sano, rafforzando il contributo ambientale allo sviluppo urbano sostenibile e tenendo conto, nel contempo, dei connessi aspetti economici e sociali» (2004:

5).

Oggi si può affermare che le diverse esperienze dirette in questo senso non sono rimaste isolate, dando luogo allo scambio culturale e informativo che le varie sperimentazioni hanno consentito, in alcuni casi mediante fenomeni di contaminazione extra-europei (Di Palma, 2012: 151).

L’approccio strategico del rinnovo dei quartieri di edilizia pubblica tramite demolizione e successiva ricostruzione ha aperto diversi fronti di riflessione sull’opportunità economica e sociale della sua attuazione, sulla coerenza operativa nell’ambito delle politiche urbane, sull’efficacia nei confronti delle finalità individuate, infine sulla sua valenza politica generale.

In Francia, le modalità operative basate su operazioni di sostituzione urbana hanno raggiunto una definizione di rilevanza nazionale; esse costituiscono il fulcro della politica urbana del Paese, concentrata sulle azioni di intervento nei quartieri di habitat sociale.

Le problematiche legate alle condizioni di degrado riconosciute in questi ambiti urbani sono oggi affrontate partendo dal punto di vista dell’assetto morfologico dell’habitat, per la modifica del quale si presenta come necessaria un’operazione di ‘reset’ dello stato di fatto: la demolizione si è trasformata così nello strumento operativo più utilizzato e divulgato nei progetti di rinnovo urbano dei quartieri di edilizia residenziale pubblica sostenuti dal Programme

National de Rénovation Urbaine.

Qui la demolizione costituisce una delle principali operazioni mirate a ristrutturare i quartieri classificati in «zones urbaines sensibles» nell’obiettivo della mixité sociale e dello sviluppo sostenibile, migliorandone la qualità di vita. La demolizione, infatti, offre contemporaneamente i margini di manovra spaziale e di investimento finanziario necessari alla riqualificazione, alla riorganizzazione di spazi per attività economiche e commerciali, alla costruzione di nuove strutture pubbliche o collettive e, soprattutto, alla trasformazione radicale della aree residenziali.

Il dibattito francese si è concentrato sugli effetti attesi dalle operazioni demolitive, ospitando spesso posizioni di forte critica; un esempio riguarda l’efficacia nei confronti della disuguaglianza e segregazione sociale di certi principi perseguiti a priori come quello della mixité, artificialmente ottenuta

attraverso la distruzione degli organismi edilizi di habitat sociale e la conseguente diversificazione dell’offerta residenziale.

Le critiche sono volte a sottolineare come il perseguimento di tale obiettivo possa condurre a derive del tutto opposte, rafforzando le logiche di distanziamento sociale, limitando le possibilità di accesso agli alloggi sociali da parte delle categorie più svantaggiate, assecondando i processi di gentrification, interrompendo le reti di solidarietà che la prossimità dei ceti popolari garantisce.

E’ lo stesso modello di integrazione ‘alla francese’ ad essere messo in discussione: «è smettendo di fare della mixité un punto di riferimento centrale

dell’organizzazione socio-spaziale della civiltà francese, riconoscendo appartenenze, identità e lingue altre e permettendone la loro espressione territoriale che l’integrazione sociale potrà compiersi» (Oberti, 2006: 192)

Si mette in dubbio anche la capacità stessa, da parte di questi interventi, di assicurare l’auspicata mixité: si evidenzia come «la croyance selon laquelle la

création de nouveaux ‘produits logements’ suffit à attirer des ménages d’un statut social plus élevé est très répandue» è contradetta dagli esiti deludenti

delle operazioni condotte in tal senso durante gli anni Ottanta nei quartieri sociali francesi, che conoscono presto «une forte paupérisation, ainsi que des

taux de vacance et de rotation très élevés» (Bonetti, 2004: 39). Ceti sociali

troppo lontani tendono a chiudersi gli uni agli altri:

«Il suffit de visiter les grands ensembles qui jouxtent des zones

pavillonnaires, des copropriétés ou des immeubles locatifs occupés par des classes moyennes pour constater que les occupants de ces logements fréquentent rarement la population des grands ensembles, et essaient plutôt de s’en protéger en installant des clôtures, jusqu’à ériger parfois des murs de séparation hauts de plusieurs mètres» (Ibid.: 40).

 

Fin dagli anni Settanta importanti ricerche hanno evidenziato la presenza di tensioni e conflitti di coabitazione derivati dal raggruppamento eterogeno all’interno dei grands ensembles (Chamboredon, Lemaire, 1970); a tali considerazioni si affiancano quelle frutto di più recenti ricerche che evidenziano tre scenari possibili per i quartieri in rénovation urbaine indirizzati alla mixité

sociale: la «gentrification», la «poursuite de la paupérisation» e la

«fragmentation urbaine» (Lelévrier, 2005: 37).

La rinascita sociale e urbana legata ai processi di demolizione-ricostruzione delle periferie è invece fortemente auspicata dagli architetti del Nouvel

Urbanisme europeo. Secondo il gruppo A vision of Europe «il vero rinascimento

urbano deve partire da un’operazione simbolica di rigenerazione del tessuto

fisico e sociale della città»; riconoscendo nelle periferie venutesi a costituire

negli ultimi cinquant’anni lo «scempio maggiore» perpetrando nei confronti del paesaggio urbano, si considera necessario intervenire avviando «un processo

virtuoso di trasformazione di aree degradate e insicure in veri e propri quartieri urbani integrati per rispondere e corrispondere alle attese dei cittadini»74.

La soluzione proposta è espressa nell’enunciato con cui il gruppo sintetizza la propria visione per promuovere la ‘rinascita’ della città europea: «vers une

politique pour démolir les banlieues obsolètes et construire villes et quartiers eco-compacts»75. L’architettura che andrebbe a sostituire il demolito non

dovrebbe comunque essere più definita «da un design innovativo ed

autoreferenziale, ma dall’imitazione degli archetipi costruttivi, organizzativi ed estetici che sono profondamente radicati in ogni cultura locale»76.

L’enfasi è dunque posta sugli aspetti simbolici e tradizionali del contesto urbano e si riconosce piena fiducia alla capacità dei progettisti di generare, seguendo in tal modo principi compositivi meno astratti, ambienti cittadini in grado di soddisfare nell’immediato le aspettative dei residenti e, in prospettiva futura, di migliorare la società.

In opposizione al Nouvel Urbanisme si muovono le considerazioni di chi, contrario alle demolizioni, afferma che «les grands ensembles constituent le plus

gros patrimoine architectural existant en France» (Vayssière, 2002: 77).

Si individua quindi un valore architettonico e patrimoniale legato a questi episodi dell’urbanistica popolare: «la conception urbanistique originale de ces

quartiers, caractéristique de l’après-guerre, leur confère une représentation culturelle importante, c’est-à-dire une qualité patrimoniale potentielle»

(Linossier et al., 2004: 25).

Oltre al valore patrimoniale, ai grands ensembles è riconosciuto «une

valeur sentimentale certaine pour leurs habitants», cui si aggiunge «une dimension symbolique pour la société urbaine»; ma l’irreversibilità e la radicalità

che caratterizzano le azioni di rinnovo urbano non lasciano spazio «au processus

d’apprentissage collectif nécessaire à la prise en compte de leur qualité patrimoniale» (Ibid.).

                                                                                                               

74 Comunicato stampa del gruppo A Vision of Europe del 5 maggio 2008, disponibile in linea: www.avoe.org.

75 http://www.avoe.org/homeFR.html.  

76 Charter of The City of the New Renaissance, International Conference The City of the New Renaissance, Bologna, 28-29-30 Marzo 1996, traduzione dell’autrice.

Questo approccio rischia però di confondersi con quello di coloro che

«nourrissent une véritable vénération à l’égard de ces quartiers et de leurs concepteurs initiaux» e rifiutano di «porter atteinte à ces formes dans le traitement de ces bâtiments en refusant toute adjonction de balcons ou de toiture à deux pentes, et toute intervention qui atténuerait leur uniformité et leur massivité»; tale orientamento formale «renforce souvent la conception d’origine en reproduisant sa logique» contribuendo «à accroître les vides urbains et la minéralisation de l’espace» (Bonetti, 2004: 35).

Le tipologie d’intervento ascrivibili al campo della demolizione possono avere diverse connotazioni: si può trattare della demolizione totale di interi settori urbani oppure possono avere un carattere più mirato, nel caso di demolizioni parziali di complessi edilizi o se effettuate solo per parti di edifici.

Anche a questo riguardo le posizioni assunte da parte dei ‘professionisti della città’ sono innumerevoli; agli appelli di chi incita a «demolire le invivibili

periferie, i brutti edifici. Condannare parti intere di città, riscoprire in qualche punto, raschiando fino alla radice, le tracce e i tracciati, il suolo vergine del paese» (Purini, 1989: 27) si affiancano gli approcci diversificati di architetti e

urbanisti che rifiutano la demolizione come modo d’intervento sistematico. C’è chi, come Renzo Piano, afferma che è meglio recuperare, fare diventare centri le periferie, dotarle di servizi e di spazi pubblici; oppure chi, come l’architetto svizzero Lucien Kroll, avvia processi di partecipazione in varie periferie d’Europa per dimostrare che queste sono curabili con interventi di diradamento edilizio, di arricchimento formale, ma anche con processi che creino rapporti di vicinato e di comunità (La Cecla, 2006).

Roland Castro parla invece di «remodelage», operazione attraverso cui piccoli edifici sono inseriti negli spazi vuoti dei grands ensembles per ricostituire la forma degli isolati, ritrovare il tracciato di una via, inventare un primo piano e uno sfondo; gli immobili sono spezzati, rimodellati, per trovare altezze variate; le barre sono divise in blocchi separati; le hall d’entrata sono aperte sulla via da doppie altezze; gli appartamenti sono ingranditi e le facciate illuminate da bow-windows (Castro, Denissof, 2005).

Altri autori vedono nel riferimento alla demolizione un «termine troppo

aggregato cha va affinato, articolato entro una ridefinizione più complessiva del progetto spaziale nella condizione urbana contemporanea» (Zanfi, 2008: 232).

La demolizione allora può essere innalzata ad attrezzo del progettista, ma solo se rimodulata più consapevolmente nel termine di «sottrazione» in quanto «strumento più minuto e preciso, controllabile e progettabile»; il concetto di

demolizione è riportato allora ad una scala più ridotta, quasi «interstiziale, più

vicina ad interventi chirurgici e selettivi», a una «dimensione più individuale di modificazione dell’esistente» in cui ci sia spazio per piccoli interventi di

risignificazione diffusa della città da opporre alle spettacolari deflagrazioni (Ibid.: 233).

Il gruppo Osservatorio Nomade amplia l’orizzonte delle posizioni precedentemente esposte rifiutando ogni ipotesi radicalmente distruttiva della periferia quando essa si presenti come «organismo vivo, fatto di persone, una

porzione di città le cui dinamiche ambivalenti tornano periodicamente a prenderci alle spalle» (Cantucci, 2006: 19), in cui gli abitanti hanno saputo

costruire per contrasto quel senso di comunità che l’architettura negava loro. Le proposte di demolizione in questo caso appaiono allora come «una maniera di

ridurre ancora una volta gli abitanti […] a terminali passivi di un’iniziativa politica, senza dar loro modo di diventare soggetti di comunicazione» (Ibid.).

Nel concetto di rigenerazione fisica della periferia entrano in gioco gli abitanti insediati e la loro storia, elementi integranti e veri produttori di senso dell’ambiente urbano, dalla cui considerazione l’attività del politico e del progettista non può prescindere; per Roland Castro «la mémoire des lieux est

fondamentale» e «la politique de la table rase est humiliante, traumatisante pour les habitants d’un quartier» (Allix, 2005).

Riprendendo ancora le parole di Cantucci «ciò che rende insostenibile l’idea

di demolire» - concetto che si può estendere dall’esperienza specifica del

quartiere Corviale di Roma cui l’autore fa riferimento agli innumerevoli quartieri votati alla demolizione dal progetto della rénovation urbaine - «è una serie di

ragioni che solo in minima parte toccano l’estetica o l’architettura, mentre investono in prima istanza il fatto che l’edificio sia diventato un organismo vivo dunque la storia che ha accumulato negli anni, con i suoi abitanti e i suoi problemi» (Cantucci, 2006: 19).

La demolizione pone quindi, oltre la questione del riconoscimento del valore patrimoniale e simbolico di una forma architettonica e urbanistica ereditata dalla storia, anche quella del riconoscimento della memoria degli abitanti che vi sono succeduti.

Nel destino tragico di questi edifici, designati a scomparire «dans un nuage

de poussière», che nega ogni valore patrimoniale a queste forme, si inscrive

anche «une violence symbolique d’une grande brutalité», rappresentativa allo stesso tempo de «l’absence de valeur sociale de ces lieux de vie qui ne peuvent

La demolizione della «troisième génération» aperta dalla rénovation

urbaine in Francia - «c’est à dire banale et non taboue» (Duarte, 2010: 217) -

così come praticata appare intervenire in un contesto complesso, cancellando i segni del ‘disagio’ esistente; la tabula rasa si offre come soluzione immediata che prepara il terreno per l’inserimento di un nuovo modello che, in questo modo, non necessita di dialogare con le preesistenze.

La soluzione scelta denuncia la vera natura della demolizione come ultima, sbrigativa risposta che lo Stato è in grado di dare ai conflitti sociali, una sorta di eradicazione dei quartieri problematici presentata come uno sforzo di perseguimento della mixité:

«À y regarder de plus près, [les démolitions] visent, non pas tant des

immeubles obsolètes, que les populations qui y résident: soit des types de peuplements ou des modes d’appropriation ‘indésirables’, voire qui ‘dérangent’» (Dupuy, Younsi, 2008: 8).

Appaiono quindi completamente ignorati quei tipi d’intervento che consentirebbero invece di apportare un miglioramento dell’habitat per le persone residenti allo stato di fatto. Sembra lecito dubitare, a questo punto, della reale natura delle ragioni celate dietro il proliferare delle demolizioni che hanno spesso, come primo effetto, quello di sostituire una parte della popolazione con fasce di più alto reddito:

«Il territorio non è più dunque un mezzo ma una finalità, non si tratta più

di rafforzare l’identità, le relazioni sociali locali ma al contrario di normalizzare allo stesso tempo lo spazio ed i modi di vita al fine di banalizzare l’insieme residenziale perché possa attrarre famiglie maggiormente solvibili» (Le Garrec, Ricci, 2006).

In effetti, l’idea della demolizione ordinaria dei quartieri pubblici sembra spesso indirizzata, più che verso un’ottimistica volontà di risoluzione delle situazioni di degrado sociale, ad agevolare l’introduzione di diversi modelli di consumo e di utilizzazione del territorio (Clementi, 1998: 56).

In questo senso, secondo Paul Virilio (1998: 18) la politica di demolizione sistematica di alloggi sociali giudicati «non conformi al nuovo sistema di vita dei

Francesi» assume una valenza di delimitazione dell’oltre-città contemporaneo

quando gli studi economici sui programmi di demolizione mostrano i vantaggi in termini di occupazione e di ritorno degli investimenti pubblici, fatto che lo

conduce a chiedersi se «la demolizione delle grandi città è sul punto di

sostituirsi, in un periodo di grave crisi, alla tradizionale politica dei grandi lavori pubblici».

L’approccio alle problematiche dei quartieri periferici investe dunque una tipologia d’interessi di scala sovralocale e un carattere non necessariamente urbanistico: la risposta che ne deriva rischia dunque di essere avulsa dalle questioni connesse alla ricerca di possibili specifiche soluzioni per la risignificazione degli spazi urbani.

Il ricorso diffuso alla demolizione che lo stato francese mette in opera è il frutto «d’une culture de la ville réduite à son approche technique» e di una logica centralista in cui «face à la formulation officielle de la politique du

logement comme une politique sociale d’intérêt général, les enjeux urbains locaux n’ont aucun poids et sont même plutôt suspects» (Berland-Berthon,

2006).

L’evento risolutore e immaginifico della demolizione assume, negli intenti della macchina pubblica, una posizione centrale e passa in secondo piano, in un mondo che ha perso interesse nel produrre memoria, il problema del dopo, del cosa ricostruire, per la cui soluzione si confida nella presunta autoregolazione delle imprevedibili dinamiche del mercato.

E’ il tema della realizzazione di quella «urbanité» che Françoise Choay definisce come «l’adeguamento reciproco di una forma di tessuto urbano e di

una forma di convivialità» (2008: 153)77. La storica mette in guardia da quello

che chiama il «sofisma della creazione ex nihilo» (Ibid.: 84), e indica la possibilità della demolizione come strada del rinnovamento, istituzionale o materiale, a condizione di saper costruire nuove fondamenta, basate sull’interrelazione con il contesto come condizione dello sviluppo di senso:

«En effet, la démolition qu’on prétend justifier aujourd’hui au nome de la nécessité historique n’est désormais plus celle de la tradition, elle n’est plus l’envers d’un bâtir. Sa négativité ne s’assortit d’aucune positivité. La table rase, une fois réinvestie par des objets neufs - rénovée et ‘reconstruite’, nous dit-on - n’est, pour autant, ni architecturée ni porteuse d’urbanité; elle demeure table rase à jamais» (Choay, 1996: 20).

                                                                                                               

77 La versione originale francese della definizione in questione è contenuta in : Choay Françoise (1994). Le règne de l’urbain et la mort de la ville. In : Dethier Jean, Guiheux Alain (sous la direction). La ville, art et architecture en Europe, 1870-1993. Centre Georges Pompidou, Paris, pp. 26-35. Il saggio è stato ripubblicato in: Choay Françoise (2006). Le règne de l’urbain et la mort de la ville. In : Pour une anthropologie de l’espace. Seuil, Paris, pp.165-197.

L’altra faccia della «neo-demolizione» è rappresentata dal «progetto

integrale di conservazione del patrimonio costruito», un’accezione della

conservazione che «diventa sterile e pericolosa nel momento in cui si taglia fuori

dall’azione e rinuncia a continuare l’edificazione che fonda ogni identità antropologica e sociale» (Choay, 2008: 87) e conduce alla perdita del saper

costruire «urbanité».

Neo-demolizione e neo-conservazione sono concetti che vanno sovvertiti a partire dalla loro stessa definizione, includendo da un lato nel campo della prima non solo «le stecche dell’edilizia popolare che ci si sforza invano di riabilitare», ma tutto l’edificato in cui si individuino i criteri tradizionali che spingono alla demolizione e cioè «vetustà, inadeguatezza, insicurezza, inutilità, disfunzione»; dall’altro lato introducendo nell’idea della conservazione due operazioni preliminari: «restringere la selezione agli oggetti che non sappiamo più fare (in

particolare il tessuto urbano minore), definirne e studiarne i tratti fondamentali (scala, proporzione, relazione ed articolazione degli elementi)» e

successivamente «passare dalla conservazione passiva […] ad una attiva», obiettivo raggiungibile se si implicherà, «allo stesso titolo ed insieme, abitanti ed

uomini d’arte, progettisti ed utenti» (Ibid.: 91).

Françoise Choay individua nella scala territoriale delle reti tecniche e infrastrutturali una pianificazione che «tende a soppiantare […] la scala

costruttiva di prossimità e di ‘convivialità’ che contribuiva a fondare la nostra identità e la nostra legittimità antropologica». Questa scala, che fa coincidere

con la scala locale e che qualifica come «umana», «disimpariamo a praticarla e

la dimentichiamo sempre più, di giorno in giorno […]. Perdiamo i ‘saper fare’ insieme ai ‘saper abitare’ solidali, dei quali questa scala condiziona la manifestazione e che, a loro volta, sono necessari alla sua perpetuazione»

(Ibid.: 85).

Sottolineando il pericolo a cui corriamo incontro nel processo verso una normalizzazione globalizzata, redige un bilancio delle «perdite antropiche» proponendo una lista di vocaboli contestualizzati nel campo dell’edificazione spaziale: «dedifferenziazione (o normalizzazione)» come espressione dell’ «uniformazione mondiale del catalogo delle reti di infrastrutture tecniche»; «decorporizzazione (o protesizzazione generalizzata)» come «trionfo della

progettazione assistita nella produzione dell’ambiente costruito»;

«dememorizzazione (o amnesia)» che, sempre «in termini di progettazione dello