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1. Periferia/Banlieue Definizion

1.3 La standardizzazione dei modelli abitat

Dalla ricerca teorica e sperimentale sullo spazio dell’abitare promossa dal Movimento Moderno è conseguito un complesso sistema di regole e prescrizioni che hanno inciso profondamente sull’organizzazione delle città e su quella degli spazi di vita domestici.

Il grand ensemble è presentato come «l’héritier direct des CIAM et de la

Charte d’Athènes», da cui deriva la codificazione che spinge verso «la collectivisation du foncier et l’autonomie du bâti et de la voirie» (Panerai, Lange

2000: 7). Tale modello, trasposizione diretta dell’unità d’abitazione, segna la definitiva cancellazione delle differenze che caratterizzano lo spazio urbano nella città storica, sostituito da uno spazio neutro: «la séquence hiérarchisée

rue/bordure/cour/fond de parcelle qui ordonne le tissu ancien est ici résolument supprimée» (Panerai et al., 1997: 138). Seguendo i precetti della composizione

urbana moderna, i sistemi di ‘barre’ sono disposti isolatamente gli uni dagli altri, liberando il suolo in favore di larghe superfici verdi.

La forma urbana prodotta è in rottura totale con il tessuto della città tradizionale, dove tutti i riferimenti a una continuità e a una prossimità spaziale sono aboliti: «chaque bâtiment est pensé isolément dans un rapport

ostentatoire avec une nature abstraite» (Ibid.: 132).

Nelle molteplici ripetizioni di «cité radieuse» si persegue il rifiuto di qualsiasi restrizione dettata dall’intorno: «le terrain n’est que un plateau de

représentations pour un objet, machine-sculpture, déterminé abstraitement»

(Ibid.: 131). La definizione del sito è così riportata all’esistenza di qualche elemento semplice e immutabile: il sole, la vegetazione, l’orizzonte; «l’espace

n’est plus appréhendé en terme de différences mais de valeurs absolues, éternelles» (Ibid.).

verso la zonizzazione in settori separati porta i grands ensembles ad assolvere un compito prettamente residenziale. Il principio della zonizzazione, determinando la dissociazione degli spazi dell’abitare dagli spazi di lavoro, di commercio, etc., rompe la continuità di una rete di spazi pubblici da cui dipendono parte delle relazioni tra abitanti e luogo. Lo spazio urbano, così concepito, perde la sua funzione sociale.

Un ruolo funzionale è assegnato anche agli spazi esterni, che dal punto di vista dei progettisti devono essere ‘liberati’ per consentire la circolazione dell’aria e della luce; s’impone una superficie verde di dimensioni rilevanti, in contrapposizione ai tessuti della congestionata città tradizionale, ormai assunta come simbolo negativo di insalubrità e disordine.

Lo spazio naturale non prevede però luoghi di socialità e d’accoglienza, funzioni che sono demandate all’edificio-città. Nella realtà la funzione di spazio d’incontro demandato alla «rue intérieure» è disattesa dalle prime realizzazioni: «la rue intérieure ne fonctionne ni comme palier - elle dessert trop

d’appartements - ni comme une rue (absence de fenêtre, de vis-à-vis, interdiction de jour, etc.). Elle est un ‘point de passage cosmopolite obligé’»

(Ibid.: 138).

Anche lo spazio al piano terra dell’edificio deve essere liberato grazie alla realizzazione su pilotis, secondo uno dei cinque punti dell’architettura di Le Corbusier: nella sua trasposizione reale, questo elemento non sempre è presente ma ciò determina l’assenza di alloggi ai piani terra, occupati invece da elementi di servizio (garage, locali tecnici, cantine). Lo spazio esterno è così slegato da ogni relazione con il costruito, si trasforma in uno spazio indifferenziato, solitamente votato ad accogliere parcheggi, in cui non esistono elementi di transizione tra lo spazio esterno e la costruzione.

Le teorizzazioni razionaliste rappresentano un contributo determinante anche per la definizione dello spazio interno dell’alloggio. Il dibattito architettonico approda alle ricerche sull’existenz minimum, «la quantità minima

di spazio, aria, luce e calore necessari all’uomo per svolgere nell’alloggio il completo sviluppo delle sue funzioni vitali» (Gropius in Aymonimo, 1971: 108).

Seguendo le indicazioni delle teorie funzionaliste, gli architetti degli anni Cinquanta individuano le necessità base di una famiglia-tipo da soddisfarsi all’interno della cellula abitativa: ricrearsi, mangiare, cucinare, lavarsi, dormire. Queste funzioni sono trasposte all’interno di spazi adeguati alle dimensioni delle attrezzature domestiche e alle misure di corpi normalizzati: «le precise funzioni

fissata con una certa esattezza; per ogni funzione occorre una ‘capacità minima tipo’, standard, necessaria e sufficiente» (Le Corbusier in Aymonimo, 1971:

114).

I requisiti di abitabilità per l’alloggio si determinano attraverso l’individuazione di un’ipotetica utenza, l’uomo come portatore di bisogni abitativi standardizzabili, e la formulazione di modelli di vita, basati sull’analisi delle funzioni, da ‘proporre’ ai futuri utenti dell’abitazione; tutto ciò si traduce spazialmente nell’elaborazione dell’alloggio-tipo.

La definizione di modelli prefissati determina la standardizzazione dei manufatti architettonici da perseguire mediante l’industrializzazione del settore delle costruzioni. Le esperienze del razionalismo, dirette alla ricerca dell’efficienza nell’organizzazione spaziale delle abitazioni, si traducono molto spesso nell’equazione che fa corrispondere a una riduzione delle superfici d’uso, una riduzione dei costi di produzione, privandole di quella ricchezza spaziale di cui il progetto d’architettura avrebbe dovuto farsi carico.

Tale semplificazione, che assume a riferimento valori medi considerati universalmente validi, permette l’esportazione di questi modelli abitativi in diverse realtà geografiche, imponendo allo stesso tempo modelli prefissati di schemi distributivi di alloggi, di organizzazione dell’organismo edilizio e di impianto urbanistico.

Le riflessioni del Movimento Moderno gettano i fondamenti per un ‘funzionalismo di base’, teoria di riferimento per i poteri pubblici e i tecnici incaricati della proposizione di un modello abitativo che risponda alle esigenze di economie e tempistiche ristrette, decretandone il successo in ambito internazionale.

Il lancio di grandi operazioni urbane, legate anche alle opportunità fondiarie che si presentano generalmente in aree periferiche, porta alla realizzazione di quartieri spesso privati di ogni relazione con l’intorno, non arrivando alla costituzione di un vero tessuto urbano: i grands ensembles presentano una struttura astratta, che si sovrappone ai territori, spesso non correlata al contesto (Panerai et al., 1997: 138).

La loro concezione è spesso accompagnata da una volontà di semplificazione architettonica degli edifici, delle trame viarie e delle funzioni urbane; le restrizioni economiche e le situazioni di urgenza in cui si spesso si muovono le politiche urbane che danno ‘spazio’ alla «città pubblica», portano a un impoverimento, non solo estetico, del progetto urbano.

Alla cattiva qualità degli edifici costruiti troppo in fretta e a basso costo, alla ripetizione e monotonia delle forme e dei materiali si aggiunge, non ultimo,

l’inadeguatezza delle nuove strutture urbane e degli spazi abitativi ai modi di vita, che non arrivano così a soddisfare le esigenze sociali e psicologiche dell’abitante (Haumont, 1968; Léger, 1990; Pinson, 2001), ma che suppone al contrario, da parte dell’abitante, «la modification complète du mode de vie» (Panerai et al., 1997: 138).

Le città sono investite da complesse operazioni di «’regolarizzazione’ e

‘igienizzazione’», che non riguardano solo il tessuto urbano ma interessano

anche i comportamenti urbani (La Cecla, 1993: 17): i nuovi ‘modelli abitativi’ sono implicitamente associati alla diffusione di modelli spaziali centrati sull’idea di standard urbanistico e architettonico applicato alla scala urbana ed edilizia dei quartieri, in cui l’abitante è ormai trasformato in «usager» e la sua pratica di abitare «réduite à des gestes fonctionnels et calibrés» (Panerai et al., 1997: 132).

Le politiche urbane, tese alla definizione di uno standard funzionale di base, hanno prodotto una nuova qualità dell’abitare, ma la progettazione innovativa sul piano del comfort e sul piano tecnologico trascura la «complessità

della dimensione culturale»; dimensione che non può ignorare, tra le altre cose, «gli ‘overlapping’ funzionali; gli ambiti e le gerarchie di relazioni sociali; le interrelazioni fra comportamenti e strutture ambientali; i modelli culturali di riferimento; il valore simbolico dell’architettura; le istanze di identificazione dell’io con il proprio ambiente e in particolare con l’abitazione; lo spazio per la spontaneità e per la fantasia» (Coppola Pignatelli, 1977: 56).

Sotto la spinta omologante degli approcci tecnicisti si diffonde una concezione radicalmente nuova dell’abitare che riforma l’habitat popolare attraverso i principi dell’igienismo e le forme dell’architettura funzionalista (La Cecla, 2006): le periferie risultano così il prodotto di questa nuova concezione basata sulla nozione di ‘standardizzazione dei modelli abitativi’.

Il Novecento segna una fase di forte dominazione della cultura tecnica e di normalizzazione dell’habitat che si è prodotto attraverso la diffusione di un modello di non-urbanità concepito in conformità a standard riconosciuti come universalmente validi (Choay, 2008).

L’egemonia dell’approccio tecnicista, finalizzato al governo e alla regolarizzazione dei fenomeni di creazione dell’habitat, ha prodotto un’esclusione crescente delle popolazioni insediate dal processo di produzione della città, limitando sempre più le capacità di trasmissione delle tradizioni insediative locali. Le conseguenze di questo processo progressivo di esclusione hanno provocato effetti incongrui sul piano della qualità dello spazio abitativo e sul piano della corrispondenza del paesaggio ai valori culturali ed ambientali

locali.

I processi di standardizzazione per la produzione di nuovi insediamenti rompono la connessione esistente tra cultura insediata, ambiente costruito e ruolo delle comunità degli abitanti nella produzione di un habitat sostenibile (Rapoport, 1988; Rudofsky, 1964); le periferie sono il risultato evidente della rottura di questa relazione che ha effetti sulla riconoscibilità dei luoghi e sul riconoscimento degli abitanti in essi:

«I grands ensembles, al pari delle periferie di case popolari in Italia, delle

periferie spagnole, greche, portoghesi, delle Germanie riunificate, dei paesi dell’Est dopo la caduta del muro, questa enorme realtà omogenea, compatta, che fa sì che uno non sappia in che città si trova, questa periferia che rende il perdersi l’attività unica e prevalente del cittadino marginale, si scarica giorno per giorno di senso» (La Cecla, 2006: 35).

La realtà vissuta quotidianamente dagli abitanti si scontra con i problemi di anomia che questi ambienti hanno prodotto: alla mancanza di un adattamento dell’habitat ai bisogni della popolazione, sono le popolazioni che in qualche modo si adattano al tipo di habitat offerto. Per rendere concreti i propri progetti e rispondere alle proprie aspirazioni gli abitanti agiscono instancabilmente attraverso il loro vivere quotidiano sugli spazi delle periferie. È possibile così cogliere, attraverso l’articolazione dei principali tipi d’intervento operato sul quadro costruito e sul quadro non costruito dal comportamento individuale e collettivo, le aspirazioni e le attitudini degli abitanti nei confronti di questi ambienti.

Di là dalla loro un’apparente unità formale, le periferie nascondono invece una disomogeneità che è pronta a disvelarsi attraverso queste azioni: situazioni nazionali e aree culturali offrono loro dei destini differenti. Tra gesto urbano e architettonico universale e processo d’appropriazione, l’ambiguità della posizione della periferia è pronta per essere affrontata.

Sintesi Capitolo 1. Periferia/Banlieue. Definizioni

Nel capitolo si definisce l’ambito d’indagine della ricerca. Nonostante l’evoluzione subita nel corso del Novecento dalla periferia - una periferia che appare ormai composita nelle funzioni, nelle attività e nelle forme architettoniche e urbane (Stébé, 1995; Bianchetti, 2003; Vicari Haddok, Moulaert, 2009; Revel, 2012) - ci si riferisce con questo termine alla fisionomia di quelle parti di città moderna espressione della «città pubblica», generata in Europa dalla risposta delle istituzioni pubbliche alla questione abitativa rivolta ai gruppi sociali meno favoriti (Di Biagi, 1986; 2008).

Alle caratteristiche storiche e descrittive (morfologiche, urbane, etc.) individuate dall’analisi proposta, Di Biagi (2012) ci conforta nella definizione di molteplici caratteri generali che marcano la periferia di cui si tratta: la periferia come città plurale, frammentata, eterogenea, stratificata, mutevole.

Si aggiunge infine al concetto di periferia il significato di ‘stare al margine’, ‘essere marginale’; tale definizione non è attribuita in relazione alla posizione assunta all’interno del contesto urbano, ma deriva da una connotazione riduttiva associata al termine, come sinonimo di deterioramento e svalutazione (Gazzola, 2008); il permanere della «dimensione di periferia» (Clementi, Perego, 2001) resta legato allo stato di degrado in cui essa sembra persistere, un degrado non solo urbano ma anche sociale (Martinelli, 2008).

Gli elementi elencati per descrivere la « periferia/banlieue » sono utili per inquadrare l’oggetto principale di interesse della ricerca. In Francia, il termine «banlieue» è impiegato principalmente per indicare, all’interno delle numerose realtà ‘periferiche’, i quartieri di edilizia sociale (Stébé, 1995: 12).

Tale vocabolo è utilizzato anche come sinonimo di «grand ensemble» (Coudroy de Lille, 2004) che alla definizione tecnica di comparto edificatorio dalle specifiche caratteristiche (Dufaux, Fourcaut, 2004; Vieillard-Baron, 2004a) accosta quella simbolica con connotazioni soprattutto negative, così come enfatizzate dall’analisi delle politiche urbane e dalle rappresentazioni mediatiche (Stébé, 1995; Jacquier, 2002; Frey, 2013), dietro cui si perde di vista la reale complessità di questi territori e il carattere specifico di ogni periferia (Vieillard- Baron, 1996; 2004b).

L’emblema del grand ensemble, in Francia scelto come soluzione alla crisi degli alloggi del dopoguerra e capace di trasformare in solo vent’anni - tra gli

anni Cinquanta e gli anni Settanta - il paesaggio dell’intero paese (Cornu, 1977), passa rapidamente da simbolo di modernità (Choay, 1965) a oggetto di critica per le innumerevoli valutazioni negative provenienti da diversi ambienti, che sottolineano gli effetti di rottura spaziale (Panerai et al., 1997) e sociale (Chombart de Lauwe, 1959) determinati dalla loro diffusione. Oltre a giudicare le carenze estetiche e funzionali di queste nuove aree (Stébé, 2011), una critica è rivolta ai metodi non concertativi adottati per la loro realizzazione (Langereau

in Berland-Berthon, 2004), così come si riconosce a queste forme (circulare

« Guichard » del 21 marzo 1973) il fatto di essere poco conformi alle aspirazioni degli abitanti.

Il fenomeno dei grands ensembles non è prettamente francese; nel contesto geografico occidentale derivano da scelte fatte alla metà degli anni Cinquanta, mentre allargando l’analisi ad ambiti geografici più vasti e a temporalità diverse, sono ancora i contesti di crisi, caratterizzati dalla penuria di alloggi, a spiegare il ricorso all’alloggio di massa interpretato nelle forme dei grandi edifici collettivi (Dufaux, Fourcaut, 2004).

I grands ensembles appaiono a prima vista come oggetti di architettura dalle caratteristiche comuni che viaggiano oltre i confini geografici senza apparenti modificazioni (Ibid.), frutto dell’applicazione delle teorie razionaliste alla città e all’architettura, riprese e diffuse attraverso l’intervento delle politiche pubbliche.

I grands ensembles presentano una struttura astratta, che si sovrappone ai territori, spesso non correlata al contesto e che suppone, da parte dell’abitante, la modificazione completa del modo di vita (Panerai et al., 1997), trascurando la complessità della dimensione culturale (Coppola Pignatelli, 1977) e tuttavia non garantendo la soddisfazione delle esigenze sociali e psicologiche degli abitanti (Haumont, 1968; Léger, 1990; Pinson, 2001). L’abitante è ormai trasformato in un utente, la cui pratica di abitare è ridotta ai soli gesti funzionali, codificati e calibrati (Panerai et al., 1997).

Diffuse dalla spinta omologante degli approcci tecnicisti, le periferie sono il prodotto di una nuova concezione basata sulla nozione di ‘standardizzazione dei modelli abitativi’ (Pinson, 1993 ; La Cecla, 2006 ; Choay, 2008). Ma in queste nuove realtà urbane gli abitanti, per rispondere alle proprie aspirazioni, agiscono instancabilmente attraverso il loro vivere quotidiano sugli spazi delle periferie che, di là dalla loro apparente unità formale, nascondono invece una disomogeneità pronta a disvelarsi attraverso tali azioni.

Résumé Chapitre 1. Periferia/Banlieue. Définitions

Dans ce chapitre on définit le domaine d’enquête de la recherche. Malgré

l’évolution subie par la « periferia/banlieue » pendant le XXe siècle - une

périphérie de ville qui apparaît désormais hétérogène dans les fonctions, les activités et les formes architecturales et urbaines (Stébé, 1995 ; Bianchetti, 2003 ; Vicari Haddok, Moulaert, 2009 ; Revel, 2012) - nous nous référons par le biais de ces termes à la physionomie des parties de la ville moderne expression de la « città pubblica », engendrée en Europe par la réponse donnée de la part des institutions publiques à la question du logement des groupes sociaux plus démunis (Di Biagi, 1986 ; 2008).

En plus des caractéristiques historiques et descriptives (morphologiques, urbaines, etc.) déterminées par l’analyse proposée, Di Biagi (2012) nous aide dans la définition de différents caractères généraux qui caractérisent la périphérie dont nous parlons : la périphérie comme ville plurielle, fragmentée, hétérogène, stratifiée, changeante.

Pour finir, nous ajoutons au concept de « periferia/banlieue » le sens d’ ’être aux marges’, d’être marginal’. Telle définition ne se réfère pas à la position assumée dans le cadre urbain de référence, mais elle découle d’une connotation réductrice associée au terme, comme synonyme de dégradation et dévalorisation (Gazzola, 2008) : la « dimensione di periferia » (Clementi, Perego, 2001) résiste malgré les transformations et reste liée à l’état de détérioration dans laquelle ces lieux paraissent persister, une détérioration urbaine et sociale en même temps (Martinelli, 2008).

Les éléments énumérés pour décrire la « periferia/banlieue » sont utiles pour encadrer l’objet principal d’intérêt de la recherche. En France, le terme « banlieue » est employé principalement pour indiquer, parmi les nombreuses réalités ‘périphériques’, les quartiers d’habitat sociale (Stébé, 1995 : 12).

Le mot « banlieue » est utilisé aussi comme synonyme de « grand

ensemble » (Coudroy de Lille, 2004) qui, à la définition technique de secteur

construit selon des caractéristiques déterminées (Dufaux, Fourcaut, 2004 ; Vieillard-Baron, 2004a), accoste celle symbolique de connotations surtout péjoratives comme souligné par l’analyse des politiques urbaines et des représentations médiatiques (Stébé, 1995 ; Jacquier, 2002; Frey, 2013), derrière lesquelles on perd de vue la réelle complexité de ces territoires et le caractère spécifique de chaque banlieue (Vieillard-Baron, 1996 ; 2004b).

L’emblème du grand ensemble, choisi en France comme solution à la crise des logements de l’après-guerre et qui a été capable de transformer entre les

années 1950 et 1960 le paysage de la nation (Cornu, 1977), passe rapidement de symbole de modernité (Choay, 1965) à objet de critique par différents milieux dont on souligne les effets de rupture spatiale (Panerai et al., 1997) et sociale (Chombart de Lauwe, 1959) provoqués par leur diffusion. En plus de juger les carences esthétiques et fonctionnelles de ces nouvelles réalités urbaines (Stébé, 2011), une critique est adressés aux méthodes adoptées pour leur réalisation en absence de concertation (Langereau in Berland-Berthon, 2004), ainsi comme la circulaire Guichard du 21 mars 1973 reconnaît à ces formes le fait d’être peu conformes aux aspirations des habitants.

Le phénomène des grands ensembles n’est pas exclusivement français ; dans le contexte géographique occidental ils dérivent de choix faits à la moitié des années 1950, tandis qu’en élargissant l’analyse à des domaines géographiques plus vastes et à des temporalités différentes, ce sont encore les contextes de crise, caractérisés par la pénurie de logements, à expliquer le recours au logement de masse, interprété dans les formes de grands bâtiments collectifs (Dufaux, Fourcaut, 2004).

Les grands ensembles apparaissent au premier regard comme des objets d’architecture de caractéristiques communes qui voyagent au-delà des frontières géographiques sans apparentes modifications (Ibid.), le produit de l’application des théories du rationalisme à la ville et à l’architecture reprises et répandues à travers l’intervention des politiques publiques.

Ces modèles urbains présentent une structure abstraite, qui se superpose aux territoires, qui souvent n’est pas corrélée au contexte et qui suppose, de la part de l’habitant, la modification complète du mode de vie (Panerai et al., 1997), en négligeant la complexité de la dimension culturelle (Coppola Pignatelli, 1977) et n’arrivant pas à satisfaire les exigences sociales et psychologiques de l’habitant (Haumont, 1968 ; Léger, 1990 ; Pinson, 2001). L’habitant est transformé désormais dans un usager, dont la pratique d’habiter est réduite à des gestes fonctionnels, codifiés et calibrés (Panerai et al., 1997).

Les banlieues, répandues à travers la poussée homologuant de l’approche technique, sont le produit d’une nouvelle conception basée sur la notion de ‘standardisation des modèles d’habitation’ (Pinson, 1993 ; La Cecla, 2006 ; Choay, 2008). Mais dans ces nouvelles réalités urbaines les habitants, pour répondre à leurs aspirations, agissent sans cesse à travers les gestes de la vie quotidienne sur les espaces des banlieues qui, au-delà de leur apparente unité formelle, cèlent par contre une inhomogénéité prête à se révéler à travers telles actions.