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Quale periferia? Definizioni ufficiali e definizioni operative

1. Periferia/Banlieue Definizion

1.1 Quale periferia? Definizioni ufficiali e definizioni operative

Il termine ‘periferia’ nell’immaginario collettivo rimanda immediatamente alla contrapposizione tra ‘centro’ e ‘periferia’ a lungo usata dagli studiosi per spiegare la crescita della città moderna. Nel corso del tempo, e nell’uso fattone dalla ricerca urbana, questa nozione ha poi conosciuto molte evoluzioni, in particolare legate alle recenti trasformazioni subite dalle città e al fenomeno di urbanizzazione che ha interessato il territorio in maniera generalizzata. La periferia costituitasi nel corso del Novecento è, infatti, una periferia composita nelle funzioni, nelle attività e nelle forme architettoniche e urbane (Revel, 2012).

All’interno del contesto italiano, con un’interpretazione che si può estendere a un orizzonte geografico allargato, Cristina Bianchetti (2003) distingue tre universi descrittivi della periferia. Nel primo tipo, sotto la definizione di «spazio individuale» si identifica un territorio dinamico, in continua espansione, costruito da un «pulviscolo di interventi minuti», spesso abitato da popolazioni con buoni livelli di reddito; nell’«universo dei rimedi collettivi» si riconosce invece la periferia del welfare, «espressione di intenzioni etiche, di

politiche finalizzate a neutralizzare il conflitto, di garanzie acquisite per fare fronte alle oscillazioni del tenore di vita di larghe quote di popolazione» e che

corrisponde all’immagine della ‘periferia moderna’. Infine, «i luoghi delle

colonizzazioni» riguardano i territori esito di strategie economiche: le periferie

industriali, le periferie del capitale immobiliare e infine i luoghi «che in pochi

anni si sono costellati di centri commerciali e cittadelle del terziario e del turismo».

All’inizio del nuovo millennio la forma fisica della città appare così molto più frammentata di quella ereditata dall’epoca moderna, «ove si giustappongono

- senza connessioni, anzi con grande cura per la separatezza e il contenimento - quartieri per le élite, centri commerciali, strutture per la cultura e l’intrattenimento e grandi spazi espositivi, quartieri più o meno periferici in degrado e aree ‘abbandonate’» (Vicari Haddok, Moulaert, 2009: 6).

Si sancisce in questa nuova immagine la crisi del modello urbano otto- novecentesco: «la periferia non c’è più» decreta Ciorra (2010), «almeno così

come la conoscevamo».

È scomparsa perché non si trovano più i connotati e i caratteri che permettevano di riconoscerla: la periferia, tradizionalmente considerata come spazio intermedio fra una città compatta e una campagna priva di costruzioni (Bellicini, Ingersoll, 2001) è oggi in molti casi non più individuabile; risulta quanto mai improbabile riuscire a distinguere tra ciò che è urbano e ciò che non lo è, tra città e territorio agricolo.

Al posto della periferia vi è oggi la città continua, l’urban sprawl su cui si interrogano specialisti di varie discipline (Lanzani, 2003; Ingersoll, 2004; Indovina, 2009); è la città ‘diffusa’ o ‘infinita’, «il continuum che diluisce il senso

di appartenenza a una comunità urbana in una sterminata e ininterrotta costellazione di case, casette, capannoni e piccole fabbriche alla cui disposizione sul terreno è ormai impossibile associare la lettura di una gerarchia dello spazio architettonico oppure sociale» (Ciorra, 2010).

Nell’estensione della città contemporanea sembrerebbe non aver più senso parlare di periferia, dove i nuovi ‘centri’ d’attrazione si moltiplicano e l’essere ‘periferia di qualcosa che sta al centro’ diventa del tutto relativo; ciò che corrisponde al significato di periferia, «portare intorno, girare», atto che si compie attorno a un centro, quindi periferia come «luoghi che stanno intorno ad

altri luoghi detti centrali» (Gazzola, 2008: 213), è oggi qualcosa di molto più

complesso.

Ma l’archetipo cui si ricorre, parlando di periferia, corrisponde ancora alla fisionomia di quelle parti di città moderna costruite per rispondere alle esigenze della popolazione inurbata dopo la Seconda Guerra Mondiale e dell’industrializzazione del territorio che ne è seguita. Possiamo dire che per le città europee il Novecento è stato «il secolo delle periferie» (Ciorra, 2010): è infatti nella periferia che si risolve gran parte dell’esperienza dell’abitare moderno (Bianchetti, 2003).

La modernità ha significato, da un punto di vista urbano, la costruzione intensiva di quartieri residenziali ‘a basso costo’ per le classi sociali meno abbienti; quartieri che, lontani dal crescere e svilupparsi secondo un modello idealizzato e razionalista di ‘città moderna’, alternativo alle città esistenti, sono sorti in maniera confusa intorno ai centri antichi e ottocenteschi, gettando le basi per lo sviluppo delle attuali città, metropoli e megalopoli (Ciorra, 2010).

Nella complessa dilatazione del tutto urbanizzato che rappresenta la città contemporanea, l’appellativo di ‘periferia’ resta quindi ancor associato ai resti

visibili di quel modello urbano che ha contribuito a costruire la città europea del XX secolo e che rappresenta ciò che rimane della «città pubblica» (Di Biagi, 1986). Tale espressione si riferisce allora alla parte di periferia rappresentata da «quella forma urbana novecentesca generata in Europa da una questione

abitativa […] quando si è diffusa e codificata, anche normativamente, la convinzione che fosse compito della collettività, delle istituzioni pubbliche che la rappresentano, dare risposta al bisogno di casa dei gruppi sociali meno favoriti»

(Di Biagi, 2008: 60).

Si individuano in questa definizione i quartieri di iniziativa pubblica, realizzati lungo tutto il secolo passato per rispondere ai fabbisogni abitativi della parte di popolazione con le condizioni economiche più disagiate.

A questa connotazione storica e sociale di periferia si associa quindi una componente descrittiva che individua nei caratteri morfologici gli elementi per riconoscerla: i quartieri residenziali pubblici di origine novecentesca operano infatti una discontinuità rispetto agli altri tessuti urbani che vanno a comporre le molteplici forme della città contemporanea. Queste figure spaziali della modernità sono facilmente riconoscibili in quanto parti urbane morfologicamente compiute, in cui sono le misure e le forme dello spazio costruito e dello spazio aperto a risaltare sulle maglie urbane circostanti.

Di Biagi (2012) ci aiuta inoltre nella definizione di alcuni caratteri generali che caratterizzano la periferia di cui parliamo. La periferia come città plurale: molteplici e diversificati sono gli attori e gli strumenti legislativi che hanno contribuito alla sua costruzione, innumerevoli i cittadini che l’hanno abitata e vi abitano. La periferia come città frammentata: i suoi quartieri e le sue porzioni si distribuiscono in settori urbani diversi, dalla città più consolidata verso i margini esterni. La periferia come città eterogenea: pur nella generale omogeneità dei caratteri morfologici, le sue singole parti si differenziano nel tempo e nello spazio per dimensioni e forme. La periferia come città stratificata: gli interventi di periodi diversi sono andati ad affiancarsi spesso negli stessi luoghi, formando e consolidando parti di periferia pubblica. La periferia come città mutevole: essa nel tempo ha svolto ruoli e perseguito obiettivi differenti, non solo offrendo spazi abitabili ai cittadini meno favoriti, ma anche, talvolta, elevando la dotazione di servizi e attrezzature collettive di più ampie zone periferiche, o proponendosi come campo di sperimentazione per progetti e processi di rigenerazione spaziale e sociale.

Tale forma di città è rimessa in causa dall’affermazione del modello della casa individuale che, basandosi su un opposto paradigma privatistico, negli

ultimi cinquant’anni ha invaso le città europee e i territori circostanti affermandosi come nuova periferia, alternativa al modello della ‘residenza’ collettiva e, in particolare della «città pubblica».

Così il termine ‘periferia’ non indica più, in consonanza con la sua nozione topologica, semplicemente ‘qualcosa che sta intorno’, periferia come la parte estrema, contrapposta al centro, di uno spazio fisico o di un territorio più o meno ampio. «Utilizzare il termine periferia oggi non è più parlare di ‘periferie’

tout-court, di ‘luoghi che stanno intorno ad altri luoghi detti centrali’» (Gazzola,

2008: 213): non sono ‘periferia’ le gated community che si ritirano isolate lontane dal centro urbano, ma permangono ‘periferia’ i quartieri di edilizia sociale creati per le classi svantaggiate la cui costruzione è stata sovvenzionata dal potere pubblico; rimangono ‘periferia’ anche quando questi insediamenti, sorti inizialmente ai margini urbani, si ritrovano inglobati dall’estensione della città a costituire «un insieme di luoghi quasi centrali» (Paba, 1998: 78).

Il significato aggiunto di ‘periferia’ diventa oggi quello di ‘stare al margine’, ‘essere marginale’ che, «oltre alla collocazione nel tessuto urbano, assume una

connotazione riduttiva, di squallore, di degradazione» (Gazzola, 2008: 34).

Il permanere della «dimensione di periferia» (Clementi, Perego, 2001) è quindi legato non più a un dato topografico, ma resta associato allo stato di

degrado in cui essa sembra persistere. Franco Martinelli (2008: 22-23)

nell’analizzare il fenomeno urbano distingue tra due condizioni di degrado: il degrado urbanistico può essere esaminato analizzando la posizione dell’insediamento e la scelta del sito, la struttura urbanistica e la qualità architettonica degli edifici, la dotazione dei servizi e delle attrezzature per la sociabilità e la vita culturale; il degrado sociale, riferito alla popolazione insediata, è invece determinato da disoccupazione e precarietà del lavoro, dai fenomeni riguardanti l’integrazione sociale e quelli riguardanti la devianza. Si introduce quindi un elemento che sovrappone alla connotazione storica e morfologica del nostro oggetto di studio la presenza concomitante di una «periferia sociale» (Ibid.), definita come luogo d’insediamento di gruppi di popolazione cui si riconoscono diversi gradi di disuguaglianza e svantaggio sociale.

Gli elementi sopra elencati per descrivere la periferia sono utili per inquadrare l’oggetto principale del nostro interesse di ricerca, essendo riscontrabili in quella che in Francia è chiamata «banlieue».

La banlieue accoglie, infatti, realtà differenti, in cui si accostano uno all’altro ambienti molto diversi: dai sobborghi pavillonnaires, zone benestanti e

tranquille, ai quartieri di edilizia sociale, aree in cui si vivono situazioni di maggior degrado urbano e sociale:

«On trouve dans les extensions urbaines récentes une associations plus ou

moins harmonieuse et cohérente d'habitat pavillonnaire réservé aux classes moyennes, d'espaces résidentiels formés d'immeubles de standing pour le plus aisées, d'habitat individuel destiné aux employés et aux ouvriers, de zones industrielles et commerciales … mais aussi de grands ensembles d'habitation social réservés de plus en plus aux franges défavorisées de la population» (Stébé, 1995: 13).

Ma il termine «banlieue» evoca soprattutto queste ultime situazioni descritte. La parola francese, più direttamente del suo corrispettivo italiano «periferia», rimanda al significato escludente che abbiamo sopra sottolineato, spesso utilizzata quando si vuole rendere conto delle difficoltà affrontate da determinati quartieri d’habitat sociale: «C'est ainsi que le terme ‘banlieue’ en

vient à designer une multitude de situations très disparates dans un même schéma simplificateur d'’anomisation’ et de relégation» (Ibid.: 12).

L’associazione quasi immediata tra periferia e quartieri di edilizia economica popolare è tale che in molti casi il termine «banlieue» è usato come sinonimo di «grand ensemble» (Coudroy de Lille, 2004). Tale espressione, che indica comparti edificatori di alloggi sociali, è entrata a far parte del linguaggio tecnico e professionale a partire dagli anni Cinquanta. Più precisamente le «grand ensemble» è definito come:

«Forme architecturale faite de barres et de tours, taille de 500 ou 1000

logements minimum, localisation généralement périphérique, financement aidé par l’État sous des formes diverses, nature de peuplement avec présence dominante de statut locatif, édification rapide suivant des techniques de préfabrication, construction concomitante ou prévision d’équipements permettant l’autonomie de l’ensemble» (Dufaux, Fourcaut,

2004: 15).

Da Vieillard-Baron (2004a) rileviamo quattro criteri per la definizione di organismi abitativi identificabili come grand ensemble: la rottura con il tessuto urbano esistente derivante dalla forma preponderante dell’utilizzo di edifici nella tipologia di torri e barre; la taglia consistente delle operazioni che prevedono la realizzazione di più di cinquecento alloggi; il modo di finanziamento che prevede

sovvenzioni dello Stato; la globalità della concezione che conduce alla razionalizzazione, alla ripetitività e all’inclusione regolamentaria della dotazione di infrastrutture e di servizi. Tra i criteri elencati, la localizzazione periferica nell’agglomerazione non costituisce invece un parametro generale per la loro definizione, poiché più della metà dei grands ensembles francesi di provincia sono stati costruiti nel centro città e, più frequentemente, ai limiti degli antichi

faubourgs.

L’espressione «grand ensemble», appartenente al vocabolario tecnico delle politiche pubbliche, è presto fuoriuscita da questo registro lessicale specifico e

tecnico per entrare a far parte del linguaggio comune. A questa definizione, si

accostano una varietà e molteplicità di designazioni; diversi termini sono utilizzati come sinomimo di grand ensemble e, per estensione, di banlieue:

quartiers, ensembles, zones, cité, HLM sono altrettante espressioni che possono

essere applicate all’habitat sociale di una data epoca e che oggi costituisce una delle realtà urbane più rilevanti (Coudroy de Lille, 2004).

Questa presenza nel linguaggio corrente ci mostra la dirompenza con cui tale fenomeno si è presentato ed è poi rimasto all’interno del dibattito urbano francese assumendo connotati affatto specifici rispetto ad altre situazioni. In Francia le realtà urbane costituite da quartieri di alloggi sociali compongono un mosaico diffuso in tutto il territorio nazionale: la vastità di questo fenomeno che risalta per entità e consistenza rispetto all’edificato circostante fa parte ormai del paesaggio urbano del Paese e dimostra l’incidenza di questo elemento nella caratterizzazione della sua storia e del suo presente. Ma nonostante l’importanza che queste parti di città rivestono nell’accogliere una parte consistente di popolazione, tale fenomeno è principalmente trattato in termini negativi.

In generale, qualunque sia la loro disposizione nella città, i territori simbolicamente ‘periferici’ sono comunemente accompagnati da connotazioni peggiorative: fenomeni di anomia, di distruzione dell’identità locale, di perdita della coesione sociale, di esclusione, di degrado sociale e fisico identificano queste realtà urbane (La Cecla, 2006). Relativamente al contesto francese, l’enfasi è posta da anni, in maniera più o meno esclusiva, su tali aspetti sia dalle politiche pubbliche sia dalle rappresentazioni mediatiche che ne vengono fatte (Stébé, 1995; Frey 2013).

Queste rappresentazioni sono la conseguenza di analisi del tutto stereotipate. Si tratta frequentemente di diagnosi indiziarie che si occupano di mettere in risalto le caratteristiche negative (statistiche sulla disoccupazione, la povertà, i fallimenti e ritardi scolastici, la criminalità) senza dedicare spazio all’analisi dei processi strutturali e dei meccanismi socio-istituzionali che

contribuiscono a emarginare i territori e le loro popolazioni (Jacquier, 2002: 39). All’interno del contesto francese, si assiste a un ripiegamento delle politiche pubbliche che tornano a occuparsi del ‘problema periferia’ attraverso un approccio di carattere top down. In particolare si assiste da anni a una categorizzazione di queste realtà, attraverso l’individuazione di criteri che mettono l’accento sulle difficoltà vissute dagli abitanti di tali territori, come elementi comuni della periferia. La categoria di «zone urbaine sensible» raggruppa generalmente queste aree, diventate bersaglio prioritario delle politiche pubbliche della città.

I processi messi in atto dalle politiche di rigenerazione urbana con cui si interviene in queste realtà hanno l’ambizione «di guarire i mali della città

secondo un approccio correttivo e curativo»: attraverso queste operazioni si

vuole riavvicinare i territori periferici e le popolazioni che vi vivono a un livello considerato normale, nel tentativo di fare di questi luoghi dei territori come gli altri, portando dall’esterno gli elementi che vi mancano (Ibid.).

All’interno di tali analisi si perde di vista la reale complessità di questi territori. Senza negare il basso livello qualitativo dell’edilizia e degli spazi urbani che caratterizza molte aree periferiche, insieme ai problemi di esclusione e delle difficoltà sociali in esse presenti, non andrebbe perso di vista il carattere specifico di ogni situazione.

Queste realtà sono molto più sfaccettate di quanto appare nelle

rappresentazioni ufficiali. Le periferie urbane non sono solo ed esclusivamente

territori dell’abbandono, quartieri in crisi, terrains vagues27, ma devono rendere

conto della molteplicità di attori, di pratiche e di progettualità in esse presenti; luoghi in cui si articolano una pluralità di funzioni, di risorse e di insediamenti con caratteri diversi (Vieillard-Baron, 1996 ; 2004b).

Le semplificazioni operate nelle immagini di senso comune e nelle categorizzazioni proposte dalle politiche, in cui i quartieri periferici vengono presentati come spazi dell’assenza e contesti sottodotati, non ne risaltano le potenzialità presenti sia dal punto di vista fisico-spaziale sia da quello sociale; potenzialità derivanti non solo dalla diversa dotazione di risorse che le caratterizza, ma anche dalla diversa attribuzione di senso che gli abitanti assegnano ai propri ambienti di vita, all’appartenenza ai luoghi, alla socialità di quartiere, alle modalità di azione collettiva, alla capacità di trasformazione implicita nelle caratteristiche mutevoli di questi luoghi.

                                                                                                               

27 «Terrain vague» è un film di Marcel Carné del 1960 ambientato nella banlieue Sud di Parigi che per la prima volta in campo cinematografico porta l’attenzione del grande pubblico sulle questioni sociali legate ai grands ensembles.

Le periferie come territori nei quali le dotazioni materiali e immateriali presenti non sono in relatà valorizzate, come parti di città ricche di potenzialità non sfruttate (Jaquier, 2002). E’ invece necessario ricercare elementi utili a una più complessa ridefinizione di banlieue, che porti un cambiamento rispetto al senso comune del termine e lo avvicini maggiormente a tali poliedriche realtà.

Una giusta considerazione va quindi riservata, in maniera più incisiva, agli aspetti positivi che caratterizzano i territori periferici, dal punto di vista della forma dello spazio urbano e, soprattutto, del modo di abitare, dei comportamenti e degli stili di vita, della condizione sociale, psicologica e culturale degli abitanti. Si cercherà per questo di attivare uno sguardo diverso all’interno dei processi di trasformazione in atto delle periferie che ponga l’accento sui processi di auto-organizzazione locale, di costruzione di nuovi riferimenti identitari, di formazione di comunità locali intensamente radicate.