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La costruzione di un’immagine: la periferia problema

4. Rifare la periferia: la demolizione

4.1 La costruzione di un’immagine: la periferia problema

Nell’immaginario collettivo, alla periferia è stato progressivamente associato un messaggio negativo attraverso rappresentazioni che, col passare del tempo, si sono trasformate non solo in stereotipo, ma in un vero e proprio stigma sociale. Nel contesto francese, su cui si sofferma l’analisi, i mass-media rappresentano i primi e principali strumenti attraverso cui si diffonde l’immagine di questi habitat urbani: ai reportage iniziali che trasmettevano gli elogi dei primi abitanti a salutare il «comfort moderno» dei nuovi quartieri sono col tempo succedute le immagini in cui le «cités» sono presentate come l’espressione parossistica di un presunto deterioramento sociale, luoghi ai margini della città in cui si concentrano la disoccupazione, l’esclusione e l’insicurezza.

Durante gli ultimi trent’anni, le immagini negative della periferia si accumulano, diffondendo l’idea del «mal des banlieues» come condizione permanente di queste realtà urbane. Si è già parlato del neologismo della «sarcellite» che, diffuso negli anni Settanta, trasmette l’idea di una malattia scaturita dal gigantismo delle forme urbane e dalla condizione d’isolamento dei quartieri; negli anni Ottanta delle «étés chauds» si diffondono invece le immagini dei «rodéos» delle automobili rubate e poi incendiate dai «jeunes des

cités»; i decenni seguenti vedono ripetersi ciclicamente scene di «soulèvements des quartiers» di cui, ancora una volta, sono protagonisti i giovani che si

confrontano con le forze dell’ordine; l’immagine presentata è quella di una

paupérisation progressiva e senza pausa. Gli abitanti dei grands ensembles

appaiono contemporaneamente vittime della miseria che subiscono e fautori essi stessi del pericolo che rappresentano (la Mache, 2002).

In particolare, dagli anni Novanta, media e responsabili politici in primis cominciano a servirsi del termine «ghetto» che, estraneo al vocabolario politico francese e alla tradizione ideologica nazionale, è usato per indicare i quartieri sociali degradati delle periferie urbane. La nozione di ghetto, «seule ou accolée à

(Wacquant, 1992: 29), acquisisce gradualmente un successo mediatico e politico nel dibattito pubblico sul tema della città.

L’utilizzo del termine rimane carico di ambiguità, ricoprendo molti

significati72: storico (legato alla sua origine), geografico (il ghetto come forma

urbana), sociologico (come spiegazione della marginalizzazione di un gruppo sociale), politico (legato all’ostracismo promosso dal potere dominante contro una categoria di popolazione) e infine simbolico (relativo alla stigmate che peserebbe su un territorio dato e sui suoi abitanti).

Il concetto, pur nell’indeterminazione della sua definizione, resta molto intuitivo dal punto di vista dell’intenzionalità: «son emploi est destiné à

provoquer, à faire choc», rinviando a una rappresentazione dalle connotazioni

peggiorative che condiziona di conseguenza i giudizi espressi dall’esterno e contribuisce alla costruzione di un’immagine stereotipata e stigmatizzata della

banlieue (Vieillard-Baron, 2004).

Legittimare il ricorso alla definizione di ghetto comporta, infatti, il rischio di partecipare alla costruzione sociale del problema che si mira a descrivere, denunciare o trattare. Inoltre, l’impiego del termine contribuisce a cancellare la complessità dei territori restituendone una visione omogeneizzante (Boisson, Collombet, 2010).

Ciò favorisce la costruzione di un’immagine falsamente monolitica del tessuto sociale dei quartieri che, pur rappresentando in alcuni casi i luoghi della concentrazione socio-spaziale della povertà, restano tuttavia, nel loro insieme, delle realtà relativamente eterogenee, differenziate non solo dal punto di vista ‘etnico’ o culturale, ma anche sul piano della traiettoria sociale degli abitanti, della loro capacità di mobilizzazione, del loro modo di appropriazione dello spazio e delle risorse collettive (Wacquant, 1992: 26).

Di fatto, come sottolinea Vieillard-Baron (2004b), «le qualificatif de ghetto

appliqué aux quartiers populaires français empêche de voir la variété des appropriations de l’espace, la multiplicité des modes de vie et les formes

                                                                                                               

72 Solo in una fase successiva in Francia si aprirà un dibattito sociologico in cui si confrontano posizioni che rivendicano la pertinenza di questo concetto nell’analisi delle trasformazioni degli spazi popolari maggiormente segregati (Lapeyronnie, 2008) e altre che reclamano invece la distanza da questa rappresentazione della periferia operaia francese in declino (Wacquant, 2007). Per un approfondimento sul tema: Blanc Maurice (2010). Le ghetto en France: la fin d'un tabou. In: Espaces et sociétés, 2010/1, n° 140-141, pp. 215-222; Kokoreff Michel (2009). Ghettos et marginalité urbaine. Lectures croisées de Didier Lapeyronnie et Loïc Wacquant. In: Revue française de sociologie, vol. 50, 2009/3, pp. 553-572; Maurin Éric (2004). Le ghetto français. Seuil, Paris; Vieillard-Baron Hervé (1994). Les banlieues françaises ou le ghetto impossible. Editions de l’Aube, La Tour d’Aigues.

diverses d’adaptation qui s’y développent».

Di là dal fascino mediatico che riveste il mito delle «cités-ghetto», il tema assume una rilevanza crescente anche all’interno dei discorsi politici e dei documenti programmatici diretti alla gestione della questione urbana; ma «le

raccourci facile et passe-partout de ghetto permet de faire l’économie d’une véritable analyse, sociologique et politique, des causes de la dégradation des grands ensembles» (Wacquant, 1992:29).

Il riferimento al ghetto, utilizzato di là da ogni rigore scientifico per

indicare i quartieri d’habitat sociale 73 , si traduce rapidamente nella

determinazione del binomio ‘segregazione-mixité’ diventando categoria strutturante nelle riflessioni che accompagnano lo sviluppo della «politique de la

ville» (Boisson, Collombet, 2010). Nonostante le critiche si estendano alla

nozione stessa di mixité - che appare come imprecisa, vaga e priva anch’essa di una rigorosa definizione scientifica (Kirszbaum, 2008: 39-40) - essa ne diviene il riferimento principale a partire dagli anni Novanta.

A partire da due testi di legge fondamentali, i riferimenti alla mixité sociale si moltiplicano nei provvedimenti legislativi: la Loi Besson del 31 maggio 1990 fa riferimento a «la nécessaire diversité de la composition sociale de chaque

quartier, de chaque commune et de chaque département»; la Loi d’orientation pour la ville del 13 luglio 1991, presentata come «Loi anti-ghetto», richiama alla

«coexistence des diverses catégories sociales dans chaque agglomération». Nella propaganda del «casser le ghetto», la mixité sociale si accompagna

sempre più alla necessità di

«

diversité de l’habitat» e le politiche promosse non

si limitano a «la maîtrise du peuplement» e al riequilibrio territoriale del parco- alloggi sociale, ma aprono la via a un terzo orientamento che mira a trasformare l’offerta residenziale nei quartieri svantaggiati al fine di attirare una nuova popolazione: «il s’agit de provoquer une mutation radicale de ces quartiers

centrés sur la seule fonction résidentielle et tendanciellement voués à l’accueil de populations pauvres et d’origine immigrée» (Kirszbaum, 2008: 14).

Il cambiamento di prospettiva così portato si traduce nell’azione pubblica, dove ai programmi indirizzati allo sviluppo sociale dei quartieri si sostituiscono azioni spazializzate sul contesto fisico, portando all’istituzionalizzazione del

                                                                                                               

73 L’uso proliferante del termine è ritenuto improprio dalla maggior parte degli autori e, anche se si può sostenere che un uso metaforico non è forzatamente illegittimo, non si può parlare di ghetto con rigore scientifico riguardo al senso storico del termine (Kirszbaum, 2008: 44).

«renouvellement urbain» che suggerisce una nuova metodologia di trattamento dei quartieri svantaggiati.

Questa nuova metodologia d’intervento inaugura il ricorso alla demolizione di alloggi sociali, strumento che trova un’applicazione ancora più marcata con il passaggio alla «rénovation urbaine» in cui l’utilizzo di tale dispositivo è pensato per raggiungere l’obiettivo della mixité assunto ormai come imperativo della «politique de la ville».

Al testo fondativo della «politique de la ville», che riconosceva «le libre

choix par chacun de son quartier d’habitation» con lo scopo di «favoriser l’expression des identités sociales et culturelles» e «respecter les différences» e

che lasciava emergere la possibilità della «constitution de sous-quartiers ayant

une physionomie propre, exprimant un consensus des habitants sur le mode de vie» (Dubedout, 1983: 57), si sostituisce il principio della mixité.

Il ricorso a tale principio è posto anche come baluardo per evitare dei possibili «replis communautaires» all’interno dei quartieri, in cui la componente etnica, per quanto non esplicitata - nei testi di legge l’orientamento in questione è celato dietro espressioni più generali come «populations défavorisées» o «populations démunies» - gioca un ruolo fondamentale (Kirszbaum, 2008: 48-

49). La finalità della ricercata mixité si giustificherebbe allora,

utilitaristicamente, nel contrastare le esternalità negative determinate dalla concentrazione di popolazioni precarie e di nazionalità straniera all’interno dei quartieri sociali considerate influenzare negativamente anche la loro immagine e attrattività (Epstein, Kirszbaum, 2010).