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Assicurarsi contro le sconfitte politiche

Secondo alcuni autori il rafforzamento del potere giudiziario sarebbe legato alla natura della competizione partitica e dalla prospettiva d’alternanza. Di fatto, se abbiamo un partito che detiene da molto tempo il potere e si configura come un partito predominante (Sartori 1976), ed una ragionevole aspettativa di continuare a vincere le elezioni, la probabilità di un giudiziario indipendente e forte saranno basse. Se invece avremo possibilità di alternanza, le forze al potere tenderanno a rafforzare il giudiziario, in modo da assicurarsi rispetto al partito che andrà al governo successivamente (Ramsayer 1994). In sostanza, secondo i sostenitori del

“modello del mercato elettorale”, le garanzie d’indipendenza dipenderebbero dagli interessi degli attori che controllano i processi decisionali (Guarnieri e Pederzoli 2008).

Tuttavia, come suggerito da Stephenson (2003) la competizione partitica e la prospettiva d’alternanza non sono condizioni sufficienti per comprendere l’espansione del potere giudiziario. Sarà necessario un sistema politico sufficientemente competitivo, una magistratura non legata eccessivamente ad una visione esecutoria della propria funzione, e infine la presenza di partiti che guardino al futuro e che siano avversi al rischio. Gli elementi appena richiamati sono alla base del modello assicurativo di

Ginsburg (2008) che considera il potere giudiziario come capace di assicurare contro le sconfitte politiche, ed in particolare durante le fasi di transizione alla democrazia. La presenza di meccanismi di judicial review rappresenterebbe l’elemento attorno ai quali le democrazie si raccolgono per proteggersi dalle esperienze autoritarie e totalitarie. Più in particolare possiamo affermare che il meccanismo di revisione di costituzionalità rappresenti una forma di assicurazione per gli attori politici che dominano il processo di stesura della costituzione, in quanto garante rispetto a possibili sconfitte politiche nel futuro. I giudici giocano un ruolo chiave in questi momenti, sia come attori del “passato”, che del “futuro”, avendo modo di partecipare alla transizione ed incoraggiare il consolidamento democratico (Ginsburg 2008).

Una forma particolare di assicurazione è quella presentata da Hirschl (2004). Attraverso un’analisi comparata tra Sud Africa, Canada, Israele e Nuova Zelanda, l’autore ha sostenuto che i processi di costituzionalizzazione e l’affidamento a Corti Supreme il potere di sindacare la legittimità costituzionale delle leggi incoraggerebbe l’espansione della supremazia costituzionale alle spese della sovranità parlamentare54. Questo passaggio sarebbe favorito da una convergenza di interessi delle élite politiche, economiche e giudiziarie. Attraverso la costituzionalizzazione e il rafforzamento del giudiziario, infatti, le élite politiche preserverebbero la loro egemonia politica isolando i processi di policy making dal dibattito democratico; le élite economiche possono essere favorite dalla costituzionalizzazione di determinate libertà economiche per promuovere e approfittare di una maggiore libertà di manovra nelle proprie scelte; alle élite giudiziarie, infine, sarebbe assicurata una maggiore influenza politica e una migliore reputazione internazionale.

L’autore si richiamerebbe a posizione definite “neopopuliste”, per cui

54 Hirschl (2004, 16) sostiene che “il trend globale verso il rafforzamento del giudiziario attraverso la costituzionalizzazione, deve essere concepito come parte di un processo di più larga scala in cui l’autorità di policy-making è incrementalmente trasferita dalle élite egemoniche da arene della democrazia maggioritaria a organismi semiautonomi professionali, in modo da isolare le loro preferenze di policy dalle vicissitudini della politica democratica”.

l’espansione del ruolo delle corti viene contestato sulla base del tradizionale principio di maggioranza, e sul contenuto delle decisioni dei giudici che favorirebbero gli interessi di minoranze privilegiate (Guarnieri 2004, 541).

In sostanza, godendo della possibilità di essere ultimi interpreti della costituzione, e della scarsa univocità delle leggi, le corti amplierebbero i loro margini di manovra, aprendo a interrogativi quanto mai attuali per le sorti dei regimi politici contemporanei.

5 Questioni aperte

Come osservato nei paragrafi precedenti, il sistema giudiziario e i suoi attori, si ritrovano nella difficile posizione di essere allo stesso tempo legislatori, amministratori e controllori delle virtù politiche di candidati ed eletti. Questo problema comporta la difficoltà di bilanciare autonomia, indipendenza e accountability, ed assume un peso ancora maggiore vis-à-vis la giudiziarizzazione della politica. Restano, dunque, alcune questione aperte da affrontare.

In primo luogo, la conciliazione tra judicial review e democrazia. Come è noto, in democrazia chi crea la legge deve essere sempre dar conto del proprio operato all’elettorato. Questo tema è noto in letteratura come the mighty problem of review, espressione introdotta da Cappelletti nel 1979 e che presenta ancora un’alta dose d’attualità. La questione riguarda la legittimità democratica di cui godono le corti costituzionali e supreme nell’esercizio della revisione di costituzionalità delle leggi. Se da un lato è necessario garantire una forte indipendenza al potere giudiziario affinché possa svolgere la propria funzione di protezione dei diritti e di limitazione del governo, dall’altro l’esercizio del judicial review comporta inesorabilmente forme di policy-making, creando un corto circuito tra accountability dei giudici e democrazia55. In sostanza se le corti sono

55 Secondo Shapiro (1981; 2013) si realizzerebbe il fenomeno “cane randagio” per cui la corte è in grado di proteggere qualsiasi tipo di diritto, ma allo stesso tempo in grado di mordere il potere delle maggioranze legislative. Affinché questa funzione sia garantita sarà necessario che le condizioni di indipendenza dei giudici rispettate, in quanto condizione indispensabile per garantire una revisione di costituzionalità imparziale.

eccessivamente indipendenti, non saranno accountable verso il parlamento e quindi verso il popolo, se lo sono troppo poco diventano degli agenti del principale, e dunque strumento nelle mani del parlamento. Questi temi toccano al cuore dei regimi politici contemporanei che si caratterizzano – geneticamente - per una tensione fra democrazia e giustizia costituzionale.

Come si chiede Shapiro (2019, 21) “How do they get away it? How do a few people without the purse or the sword make public policy pronouncements that people and powerful institutions are willing to obey?”.

Stone Sweet (2000) suggerisce che, una volta abbandonato lo schema proposto da Montesquieu della divisione dei poteri, la legittimazione dei giudici costituzionali nel partecipare al policy-making affonderebbe le proprie radici nella legittimazione delle assemblee legislative nel fornire i cittadini di diritti esigibili e giustiziabili. La necessità di garantire dei diritti costituzionali e di corti che hanno la funzione di difenderle sono da considerarsi condizioni indispensabili per tutelare i cittadini. Il problema, quindi, non consisterebbe nel chiedersi se i giudici siano legislatori o se svolgono bene il loro ruolo di giudici, ma “se i giudici costituzionali proteggono i diritti meglio che come fanno o farebbero governi e parlamenti in assenza della judicial review” (Stone Sweet 2000, 132). Quanto più la nostra risposta sarà positiva, tanto maggiore sarà la loro legittimazione.

In secondo luogo, il classico dilemma del “chi guarda il guardiano”. In sostanza, bisogna chiedersi se la relazione sempre più stretta tra corti e politica può o meno favorire un potere sempre più politicamente rilevante privo di un’adeguata responsivness democratica. Senza un adeguato controllo quali possono essere le conseguenze delle ramificate “connessioni tra giudiziario e mondo politico, tra giudici e partiti politici, e tra fazioni del giudiziario e partiti politici o fazioni partitiche”? (Guarnieri 1991, 25-26).

Meccanismi di selezione che creino una maggiore connessione tra partiti e corpo giudiziario, oppure l’introduzione di nuovi meccanismi di check e balances da parte delle altre branche di governo potrebbero risolvere questo dilemma?

In terzo luogo, restano da affrontare le conseguenze della giudiziarizzazione della politica sul sistema politico. Il processo di decision-making che vede nei governi e parlamenti attori deputati classicamente a questa funzione con quale intensità si è modificato? L’intervento pervasivo in ogni aspetto della vita politica mette a repentaglio il normale funzionamento dell’attività delle assemblee democraticamente elette? Inoltre, che incidenza ha avuto la crisi dei partiti e la frammentazione del potere politico nel favorire l’ascesa dei giudici al cuore del sistema politico? In che misura i partiti non sono più in grado di mettere al riparo la politica dagli organismi giudiziari?

L’azione delle corti nel sistema politico quanto ha influito sul discredito della classe politica? E in che modo?

In quarto luogo, la giudiziarizzazione della politica può condurre ad una politicizzazione del potere giudiziario? C’è o meno il rischio che l’interazione tra sistema legale e politico causi un’invasione della politics in materia di giustizia? E dunque, in che misura la giudiziarizzazione della politica e politicizzazione del giudiziario sono due fenomeni intimamente connessi? Il primo tenderebbe a produrre il secondo?

In quinto luogo, la giudiziarizzazione della politica può essere considerato un fenomeno contrario allo spirito democratico improntato al costituzionalismo, e in caso di risposta negativa possiamo sostenere che un potere giudiziario più forte significa democrazia più forte?

Tali questioni assumono particolare rilevanza per il caso italiano dove le corti, e in particolare la Corte costituzionale, sembrano avere incrementato la propria di capacità di indirizzare e influenzare l’attività politica. Nei prossimi capitoli, dunque, adottando un approccio realista allo studio della politica, in linea con la visione della political jurisprudence (Shapiro 1964), analizzeremo la Consulta come un’istituzione politica e i giudici come attori politici. Per comprendere analiticamente ed empiricamente le leggi e le istituzioni preposte a custodirle non si può non considerare il sistema politico. La legge è infatti parte integrante del sistema sociale, e gli aspetti politici che scaturiscono dal rapporto tra società e legge hanno conseguenze concrete sulla distribuzione del potere. L’attenzione andrà dunque rivolta

al contesto, alle attitudini e ai comportamenti dei giudici, nel tentativo di comprendere la natura del giudice creatore della legge (Shapiro e Stone 2002). Va quindi subordinato “lo studio del diritto, inteso come un sistemo concreto e indipendente di enunciati prescrittivi, allo studio degli uomini, intesi come uomini che ricoprono le loro funzioni politiche attraverso la creazione, applicazione, e interpretazione della legge” (Shapiro e Sweet 2002, 21).

Riconoscere la natura politica della funzione giudiziaria e studiarla con gli strumenti della scienza politica, ci permetterà di superare l’ancora prescrittiva del “dover essere” e indagare la dimensione operativa della giustizia. Detto in altri termini, proveremo a spostarci dalla law in books alla law in practice, andando a concentrarci sulla working constitution.

Proveremo a capire come il fenomeno della giudiziarizzazione della politica stia apportando delle modifiche ad alcuni pilastri del costituzionalismo ottocentesco, e contribuendo a modificare i tratti della democrazia italiana.

Inoltre, osserveremo in che modo la Consulta rappresenti oggi un attore sempre più centrale sull’arena politica italiana.

II La Corte costituzionale come attore politico

Introduzione

In questo capitolo prenderemo in considerazione l’evoluzione storico-istituzionale della Corte costituzionale. In particolare, forniremo un’analisi del contesto in cui matura la decisione di introdurre un organo espressamente creato per sindacare la legittimità delle leggi e quali sono le posizioni dei partiti in merito. Ne descriveremo le funzioni e le competenze, oltre che la struttura e le modalità con cui i membri della Consulta vengono nominati. Inoltre, ci dedicheremo alle diverse fasi del processo di trasformazione del ruolo della Corte costituzionale nel sistema politico italiano, dalla Prima alla Seconda Repubblica.

Offriremo una periodizzazione che individua quattro fasi fondamentali. La prima fase va dalla prima sentenza del 1956 agli anni Settanta, e mette in luce il ruolo della Corte nel promuovere alcune riforme chiave nella costruzione democratica italiana, e nel disciplinare le regole e le modalità del suo funzionamento. La seconda fase, a cavallo tra la metà degli anni Settanta e metà anni Ottanta, è un momento in cui la Corte si concentra sullo smaltimento delle leggi fasciste, ma è chiamata ad intervenire su questioni particolarmente scottanti, sia per la natura degli attori coinvolti che per le conseguenze che determinati orientamenti avrebbero avuto sugli equilibri istituzionali. La terza fase va dalla metà degli anni Ottanta a fine anni Novanta, in cui osserveremo come la Consulta si sia segnalata per una forte propensione all’attivismo oltre che per il miglioramento della sua organizzazione del lavoro. Basti pensare che “nel caso di un decreto legge la Corte è riuscita a decidere, nel 1988, ancora prima del termine della sua conversione” (Cheli 1999, 39). Saranno introdotti, infine, i tratti salienti della quarta fase, un’era ancora in via di definizione, che sarà oggetto del prossimo capitolo e del resto del lavoro.

1 La Corte costituzionale nell’Italia repubblicana