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Forma di governo e autonomia statutaria

Gli articoli 121, 122, 123 e 126 come modificati dalla legge costituzionale 1/1999 hanno apportato importanti modifiche alla forma di governo regionale. Uno dei tratti più rivoluzionari è, in primo luogo, l’elezione diretta dei presidenti di regione che è “divenuto l’autorità investita della più vasta legittimazione diretta in Italia, ed è stato posto in posizione sovraordinata sull’arena regionale” (Musella 2009, 54). Si è assistito, dunque, ad una presidenzializzazione degli esecutivi regionali che ha completamente mutato le relazioni tra giunta e consiglio e più in generale la forma di governo regionale. Quest’ultima è andata caratterizzandosi d’ un mix di “elementi propri della tradizione parlamentare con componenti tipiche della forma di governo presidenziale” (Musella 2009, 10; 2019). I Governatori diventano il punto di equilibrio tra le varie parti dello Stato, nonché i principali vettori del rilancio del regionalismo italiano. Il loro rafforzamento è sostenuto anche da altri elementi del nuovo modello, tra cui il collegamento tra presidenti e coalizione e la clausola del simul stabunt simul cadent. Queste disposizioni hanno legato i destini del presidente a

quelli dell’assemblea, e favorito lo spostamento del baricentro decisionale verso i vertici dell’esecutivo177.

In secondo luogo, il ruolo del sistema elettorale non può essere messo in secondo piano in quanto, oltre all’elezione diretta, il modello standard prevede una legge elettorale proporzionale per l’elezione dell’assemblea ed un premio di maggioranza assegnato alla coalizione collegata al candidato presidente vincente (Rubechi 2013; 2010). La riforma prevede anche un modello “in deroga” per cui la regione potrebbe definire autonomamente la propria forma di governo, a patto che sia “in armonia con la Costituzione”

(art. 123.1). Inoltre, attraverso il riconoscimento alle regioni di poter approvare direttamente i propri statuti e quindi delineare la forma di governo regionale, si intendeva favorire l’ingresso delle costituzioni regionali “a pieno titolo nella sfera della regolazione dei poteri” (Musella 2009, 81).

In questo nuovo assetto istituzionale, numerose sentenze della Corte hanno però limitato le prerogative regionali, ponendo dei paletti che hanno profondamente influenzato la forma di governo regionale fin dalla sua fase embrionale. Ciò ha comportato un confronto più diretto tra Presidenti e Corte costituzionale ed a maggiori attriti tra i due livelli di governo. Come osserva Pederzoli (2008, 65) “a confrontarsi nell’arena giudiziaria sono per lo più singoli contendenti, attori che rappresentano e personificano istituzionali”, elevando quindi il livello di politicità delle sue decisioni. La Corte costituzionale è divenuto unico attore in grado di misurare il grado

“d’armonia con la Costituzione” degli statuti, per cui il governo non può che rivolgersi ad essa nei casi di contenzioso. Di conseguenza, nella fase di transizione e in attesa dell’entrata in vigore dei nuovi statuti, la Consulta ha collaborato a chiarire meglio i confini delle nuove costituzioni regionali attraverso una serie di decisioni chiave che stimolano l’analisi.

177 Si tratterebbe quindi di “sistema proporzionale a premio di maggioranza variabile”, e che sarebbe in grado di assicurare la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio (Musella 2009, 75).

Con la sentenza 304/2002 la Corte è chiamata a confrontarsi con le problematiche relative alla potestà statutaria delle regioni. In questa sentenza viene dichiarata l’illegittimità di una delibera statutaria della regione Marche che intendeva attribuire al vicepresidente la carica di presidente in caso di morte o impedimento permanente. Il provvedimento adottato dalla regione risultava, dunque, in contrasto con il limite dell’“armonia con la Costituzione” e la sua illegittimità era volta a

“scongiurare il pericolo che lo Statuto […] ne eluda lo spirito”. In sostanza, la decisione della Corte rispecchiava la necessità di blindare il vincolo simul-simul previsto dall’art. 126, e quindi garantire la stabilità degli esecutivi regionali (Rubechi 2010).

In secondo luogo, si consideri la sentenza 2/2004 con la quale la Corte ha dichiarato parzialmente illegittimo lo statuto della Regione Calabria. A fronte del tentativo della regione di introdurre un meccanismo d’elezione indiretta, la Corte chiariva che il sistema elettorale configurato dalla legge costituzionale 1/1999 disciplina esclusivamente una forma di elezione diretta del Presidente della Giunta regionale. Di conseguenza, non sarebbe possibile sostituire il Presidente senza dissolvere il consiglio e quindi indire nuove elezioni. Questa decisione andava a sostenere un orientamento già presente nella sentenza 12/2006 in relazione ad alcune disposizione dello Statuto della regione Abruzzo. In sostanza, come osserva Rubechi (2013, 48), la Consulta ha imposto immediatamente un “divieto di ibridazione dei modelli di forma di governo, o di varianti anche parzialmente derogatorie al modello standard”.

In terzo luogo, la sentenza 196/2003 chiariva che “fino all'entrata in vigore dei nuovi statuti regionali (oltre che delle nuove leggi elettorali regionali), l'art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999 detta direttamente la disciplina della elezione del Presidente regionale […], ciò comporta che siano esigui gli spazi entro cui può intervenire il legislatore regionale in tema di elezione del Consiglio, prima dell'approvazione del nuovo statuto”.

Inoltre, attraverso la medesima sentenza, la Corte introduce una “riserva di

statuto” in materia di prorogatio178. Secondo la Corte essa non andrebbe ad incidere sulla durata del mandato elettivo, ma “riguarda solo l’esercizio dei poteri nell’intervallo fra la scadenza, naturale o anticipata, di tale mandato, e l’entrata in carica del nuovo organo eletto”(sentenza 68/2010).

In quarto luogo, la sentenza 313/2003 relativa allo statuto della regione Lombardia contribuisce a tratteggiare i lineamenti dell’autonomia statutaria regionale. Così come disposto dall’articolo 121, l’obiettivo della riforma era quello di spostare la potestà regolamentare dal Consiglio verso la giunta, ma non erano ben chiarite le modalità. Per queste ragioni, la sentenza suppliva alla sua vaghezza, disponendo la compartecipazione giunta-consiglio nella funzione regolamentare, e quindi gli attori legittimati a prendere parte all’indirizzo politico-amministrativo179. Si affermava, inoltre, che gli statuti avrebbero stabilito la definizione delle competenze180. In quinto luogo, le sentenze 372, 378, 379/2004 hanno meglio delineato i caratteri della fonte “statuto regionale” (Groppi 2004). Queste tre sentenze, indirizzate rispettivamente agli Statuti della regione Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna, hanno tracciato i margini di discrezionalità della regione nello stabilire i propri statuti. In particolare, attraverso un percorso incrementale, la Corte ha circoscritto l’autonomia statutaria delle regioni.

La Consulta sembra accordare al Consiglio regionale la facoltà di votare sul programma del Governatore eletto senza che da esso derivino delle limitazioni – come ad esempio le dimissioni - in caso di esito negativo, in quanto ciò sarebbe in contrasto con l’elezione diretta dei leader regionali.

178 La Corte è tornata su questo tema con la sentenza 68/2010 e successivamente con la sentenza 181/2014 chiarendo che la prorogatio sia oggetto da disciplinare con fonti regionali.

179Come si legge nella sentenza “si può immaginare che il potere regolamentare non sia preassegnato in via esclusiva (da norma statutaria o costituzionale) al Consiglio o alla Giunta, ma che lo Statuto riconosca al legislatore regionale la facoltà di disciplinarlo, organizzandolo in relazione alla materia da regolare ed in funzione dell’ampiezza di scelta che la legge lascia aperta all’apprezzamento discrezionale del potere regolamentare”. Sul tema anche la sentenza 324/2003.

180 L’attivismo della Consulta è evidente anche nella sentenza 188/2007 in relazione alla legge della regione Campania 24/2005, che viene dichiarata illegittima per aver violato la

“riserva statutaria” punendo il ritardo nell’approvazione del suo statuto.

Al contempo, queste sentenze introducevano un ridimensionamento della natura degli Statuti.

In sostanza, l’autonomia statutaria in relazione alle forme di governo delle regioni è stata fortemente influenzate dalle sentenze della Consulta. Essa ha rivestito un ruolo di co-legislatore nel definire il Titolo V della Costituzione, chiarendo e supplendo i limiti della riforma. In particolare, l’azione della Corte ha colmato le lacune lasciate dal legislatore ed ha chiarito la natura dei nuovi statuti regionali. Quest’ultimi, dunque, non rappresenterebbero delle vere e proprie costituzioni regionali, come originariamente auspicato, quanto piuttosto delle leggi regionali rinforzate (Belletti 2017). Questo elemento è testimoniato in particolare dalle sentenze 378/2004 in relazione all’Umbria e la 379/2004 sull’Emilia-Romagna. Non sarebbero, quindi, assimilabili alle caratteristiche proprie dei regimi federali, e ancorate al grado d’ “armonia con la Costituzione” che sarà però misurato dalla Corte stessa.

In ultima analisi, bisogna ricordare che la Corte ha più volte ribadito la natura regionale e non federale della forma di Stato italiana, come testimoniato dalla sentenza 365/2007. Quest’ultima ha fatto parlare di

“resurrezione della sovranità statale” (Chessa 2008), trovandosi a giudicare sull’ “Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto d’autonomia e sovranità del popolo sardo”. La Corte censura la legge promulgata dal Consiglio regionale sardo osservando che la sovranità appartiene esclusivamente allo Stato. Si legge, infatti, che “la sovranità interna dello Stato conserva intatta la propria struttura essenziale, non scalfita dal pur significativo potenziamento di molteplici funzioni che la Costituzione attribuisce alle regioni e agli enti territoriali”.