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La preclusione dei quesiti d’ammissibilità dei referendum elettorali era stata sostenuta dalla giurisprudenza costituzionale almeno fino alla fine degli anni Ottanta. Si pensi che nel 1987, dovendo giudicare su un referendum avente oggetto le modalità d’elezione dei membri del CSM, la

128 Come evidenzia Calise (2016, 74) questo tentativo metterà in chiaro “la sinergia tra forte personalizzazione e riforme - o ribaltamento - del sistema esistente” che sarà più evidente con la parabola di Mario Segni negli anni Novanta.

129 I suoi limiti, tuttavia, erano molteplici. Si pensi, ad esempio, al frazionismo che così come aveva sottolineato a metà anni Settanta Giovanni Sartori in Correnti, Frazionismo e Fazionismo (1973), comportava gravi malfunzionamenti al regime politico italiano.

Consulta sostiene esplicitamente – per la prima volta - che l’Assemblea costituente avesse inteso isolare le elezioni dall’articolo 75 della Costituzione (Volcansek 1999; Chimenti 1999). Inoltre, si afferma che le leggi elettorali avrebbero potuto essere abrogate solo se vi fosse la sostituzione contestuale con una nuova norma. Una competenza che, spettando al Parlamento, rendeva impossibile l’eliminazione di leggi elettorali mediante referendum (Barbera e Morrone 2003).

La scena politica italiana cambia nei primi anni Novanta, quando le campagne referendarie si trasformano “in componente permanente del sistema politico” (Calise 2010, 62). Questi sviluppi direttisti interessano tematiche centrali dell’agenda politica e condizioneranno strategie e comportamenti dei diversi attori. È in questa fase, dunque, che iniziamo ad assistere ad una maggiore centralità della Consulta nell’arena politica, per cui non è un caso che “il tabù sui referendum in questa materia si infrange sul tramonto della Prima Repubblica” (Pederzoli 2008, 228; Amoretti 2000).

Nel 1991 la Corte costituzionale riceve tre quesiti referendari che riguardavano rispettivamente il sistema elettorale della Camera, del Senato e dei comuni. Si trattava di temi particolarmente sensibili, così come testimoniava la costituzione in giudizio del governo Andreotti contro l’ammissibilità dei quesiti elettorali. Inoltre, i quesiti manifestavano una profonda volontà di riforma della politica. La sentenza 47/1991, dunque, dichiara l’ammissibilità di un unico quesito, quello relativo alla preferenza unica alla Camera. Da notare che in quest’occasione i criteri d’ammissibilità mutano elasticamente rispetto alla sentenza di quattro anni prima sull’elezione dei membri del CSM. Inoltre, pur facendo salva l’impossibilità di sottoporre a referendum l’abrogazione totale di una legge elettorale, la Consulta affermò che non vi fosse alcun limite ostativo in merito ad una sua abrogazione parziale. La normativa che sarebbe risultata da un’eventuale abrogazione, tuttavia, avrebbe dovuto garantire la possibilità di eleggere le Assemblee e quindi evitare eventuali vuoti normativi.

In sostanza, la sentenza 47/1991 colpì al cuore la partitocrazia in quanto incideva sul meccanismo delle preferenze multiple che - se eliminato - avrebbe ridotto “la possibilità di brogli e pratiche elettorali non corrette”.

Le preferenze erano divenute sinonimo di voto di scambio e quindi d’attività illecita. L’avallo della Consulta su questo quesito combaciava con la diffusa convinzione che “abolendo le preferenze, il sistema dei partiti avrebbe recuperato la moralità perduta” (Calise 2016, 101). Al contempo, esso apre a diversi sforzi dei partiti di governo per ritardare la consultazione referendaria. Basti considerare che si tenterà di varare una legge per combinarla alle elezioni politiche dell’anno successivo, ma senza successo. Gli elettori non risposero al celebre invito di Craxi “ad andare al mare” partecipando alla consultazione e sostenendo le ragioni del Comitato promotore con il 95,6% delle preferenze per il Sì. I risultati del referendum ebbero conseguenze importanti sul sistema politico dando una forte impulso in direzione maggioritaria, e consacrarono il referendum come “strumento di aperta battaglia politica” nelle mani del Comitato promotore per le riforme (Calise 1993). Nel gennaio 1992 erano già state collezionate oltre un milione e trecentomila firme, per cui i quesiti bocciati dalla Consulta vengono nuovamente proposti130.

Nel frattempo, montava lo scandalo Tangentopoli e l’indignazione dell’opinione pubblica verso le istituzioni. In questo clima di delegittimazione della classe politica e la sua perdurante incapacità di autoriformarsi, si inserisce la nuova decisione d’ammissibilità della Corte costituzionale sui referendum elettorali. La sentenza 32/1993 ammette il referendum sul Senato, fondamentale per completare l’approdo maggioritario, e la sentenza 33/1993 sui comuni. La Consulta, dunque, non sembra impermeabile rispetto alle dinamiche di questa fase della politica italiana, in cui maggioritario aveva ormai assunto una valenza

130 Allo stesso tempo, si assiste al tentativo del parlamento di riprendere il controllo delle riforme istituzionali attraverso la composizione della seconda Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali. Quest’ultima si concentrò sulla riforma della legge elettorale ma i risultati non risposero alle aspettative.

“taumaturgica” tanto che il “zeitgeist dei cittadini italiani era definitivamente maggioritario” (Pasquino 2007, 80). Esso avrebbe garantito una maggiore stabilità governativa e un maggior legame dei candidati sul territorio dei candidati, oltre che la riduzione della frammentazione partitica (Chiaramonte e D’Alimonte 2018).

I risultati del referendum del 1993, dunque, condussero all’approvazione di una legge elettorale mista: il Mattarellum. Quest’ultimo ha indirizzato il modello italiano verso il prototipo maggioritario inglese dando vita ad un sistema misto in cui tre quarti del Parlamento viene eletto con formula maggioritaria in collegi uninominali, ma non ad un’elezione diretta del presidente. Ad avere la meglio, dunque, è stata una logica bipolare in cui l’indicazione del candidato alla presidenza contribuì a consolidare un rapporto diretto tra leader ed elettorato. Tale tendenza fu notevolmente favorita dalla discesa in campo di Berlusconi, la cui migliore comprensione delle nuove regole del gioco si rivelò fondamentale nel garantirgli un vantaggio competitivo rispetto agli avversari alle elezioni del 1994.

Tuttavia, i tentativi d’abrogazione della quota proporzionale presente nella legge elettorale del 1993 sarà oggetto di alcuni quesiti referendari sottoposti all’attenzione della Corte nel 1995 e nel 1997. In questi due casi, la Corte sembra chiudere i cancelli, suggerendo “che prioritario in quel momento è far salvo il compromesso raggiunto tra le forze politiche sulle leggi elettorali” (Pederzoli 2008, 232). A sottolineare questo orientamento è la sentenza 36 del 1997 che inserisce un nuovo requisito d’ammissibilità sui quesiti “manipolativi”. Si affermava, infatti, la necessità di soddisfare tre requisiti affinché un referendum elettorale possa essere accettato:

l’omogeneità del quesito; la presenza di una normativa di risulta direttamente applicabile; l’assenza di portata manipolativa del quesito (Gigliotti 2009, 239).

Sul finire degli anni Duemila le iniziative referendarie promosse da Segni e Di Pietro oltre che dalla Lista Pannella aprono ad un nuovo tentativo per abolire la quota proporzionale del Mattarellum. Un loro eventuale successo avrebbe fatto in modo che 155 seggi assegnati

proporzionalmente sarebbero stati assegnati al miglior perdente nei 475 collegi uninominali. Dopo solo due tornate elettorali, d’altronde, la legge a vocazione maggioritaria aveva mostrato i suoi limiti, rivelandosi una legge utile “per vincere ma non per governare” (Chiaramonte e D’Alimonte 2018) e “il grimaldello col quale vecchie correnti e nuovi gruppetti hanno potuto affiancare e sfiancare i pochi partiti maggiori sopravvissuti al passaggio di sistema” (Calise 2010, 96-97). Sullo sfondo del fallimento della “grande occasione” della Bicamerale D’Alema e del tentativo di riforma in senso maggioritario della legge elettorale, si staglia la sentenza 13/1999. Quest’ultima ritenne il quesito chiaro ed omogeneo, accelerano la discussione sulla riforma elettorale in Parlamento131. Il referendum, tuttavia, non ottiene il quorum e il risultato – che aveva visto oltre il 90%

degli elettori contrari all’abolizione della quota proporzionale – è invalido.

Risultato similare anche alla nuova consultazione referendaria del 2000 quando il tasso di partecipazione scende al 32,8%. Il calo di circa il 17%

rispetto all’anno precedente era sintomo che la spinta propulsiva del Movimento referendario sembrava spossata, così come l’enfasi sulle riforme della legge elettorale perdeva vigore.

La seconda riforma elettorale sarà dettata a colpi di maggioranza solo nel 2005 con l’approvazione della legge 270/2005. Quest’ultima sancisce il ritorno ad un sistema elettorale proporzionale con bonus di maggioranza da attribuire alla coalizione vincente, e prevede delle liste bloccate. Le modalità con cui la nuova legge elettorale è stata varata hanno spinto alcuni autori (Calise 2010, 133) a osservare che raramente nelle democrazie consolidate si è verificato un “colpo di stato perpetrato in modo così abile e spregiudicato”. Il Porcellum, infatti, rispondeva alla necessità del centro-destra di minimizzare o prevenire una possibile

131 Guadagnava molti consensi la proposta avanzata di Giuliano Amato che proponeva un doppio turno che avrebbe consentito l’elezione già al primo turno a chi supera il 40 per cento dei voti, più una distribuzione proporzionale di una quota di seggi tra tutti i partiti.

I limiti della proposta sono evidenziati da Sartori in un’intervista alla Repubblica del 23 gennaio 1999:

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1999/01/23/sartori-un-disastro-quella-proposta- amato.html?ref=search

sconfitta alle imminenti elezioni politiche del 2006 (Chiaramonte 2015).

Inoltre, la ratio della riforma rispondeva ad un interesse preciso della maggioranza: svantaggiare il centro-sinistra nella competizione maggioritaria nella quale aveva ottenuto buoni risultati.

I limiti della nuova legge elettorale si materializzano dopo la vittoria della coalizione guidata da Prodi nel 2006, e la sua immediata crisi dopo un anno di legislatura. Il Porcellum è sul banco degli imputati, ed innesca un’azione referendaria per favorire un suo mutamento132. Il Comitato promotore guidato da Guzzetta e Segni presenta nel 2007 all’attenzione della Consulta tre quesiti referendari. Il principale obiettivo dell’iniziativa era quello di modificare l’assegnazione del premio di maggioranza dalla coalizione più votata alla lista più votata, ed inoltre di impedire che uno stesso candidato possa presentarsi in più circoscrizioni. La decisione sull’ammissibilità dei referendum viene resa nel gennaio 2008. Nello stesso mese arrivano le indagini per concussione a carico del ministro della giustizia Clemente Mastella che rassegna le dimissioni e passa all’opposizione causando la caduta del governo.

La Corte, dunque, dà il via libera alle consultazioni con la sentenza 15/2008 non riconoscendo alcun limite ai quesiti ma segnalando dubbi circa la costituzionalità della legge133 (Fusaro 2012). Viene fatto presente al Parlamento “l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi”. Il referendum, tenutosi nel giugno del 2009, non raggiunge il quorum arrestandosi al 23%, mentre i dubbi legati alla costituzionalità e l’efficienza della legge elettorale continuano a crescere.

132 Già prima dell’approvazione della «legge Calderoli», esponenti della sinistra tra cui Segni, Guzzetta, Bassanini, D’Amico, Manzella, pubblicavano su alcuni giornali un appello per l’inserimento nel testo della nuova legge di una clausola che avrebbe reso possibile l’abrogazione attraverso il referendum, favorendo il ritorno al sistema precedente (Baldini 2008).

133 Sulla ricostruzione della giurisprudenza costituzionale sui referendum elettorali degli anni 2000 si veda Fusaro,C. Dopo la sentenza 13/2012. Il “comma 22” dell’ordinamento costituzionale italiano, in Osservatorio sulle fonti, 1, 2012.

Nell’estate del 2011 si crea un nuovo comitato promotore (“Io firmo riprendiamoci il voto”) che vedeva tra i suoi principali esponenti Giovanni Sartori, Stefano Passigli, Gianni Ferrara. Quest’ultimo tenta nuovamente la via referendaria per modificare le regole elettorali134 - definite dallo stesso Sartori “citrullagini elettorali”135- in direzione di un sistema proporzionale.

L’iniziativa si opponeva al progetto promosso da un altro comitato promotore (“Firmo Voto Scelgo”) presieduta da Andrea Morrone e Augusto Barbera, il cui obiettivo era un ritorno al Mattarellum, e dunque a un sistema misto. Questo comitato, che gode di un maggiore sostegno dei partiti di sinistra, raggiunge oltre un milione di firme nel settembre del 2011. Dopo il passaggio in Cassazione nel dicembre 2011, i quesiti del comitato pro-maggioritario si infrangono nelle forche caudine della Consulta. Quest’ultima, infatti, dichiara inammissibile i due quesiti proposti che miravano rispettivamente ad un’eliminazione tout court del Porcellum, e a una parziale.

Bisognerà attendere una nuova tornata elettorale affinché la legge elettorale ritorni all’attenzione della Consulta, stavolta tra le “norme impugnate”. La sentenza 1/2014 dichiarerà incostituzionale il Porcellum ed evidenzierà uno degli interventi più decisivi della Consulta in materia elettorale, poi confermata con la sentenza 35/2017 sull’Italicum. Queste decisioni hanno scatenato un ampio dibattito tra gli specialisti e un forte clamore mediatico. Basti considerare che al dicembre 2018 il sito della stessa Corte costituzionale rimandava a oltre cinquanta articoli di commento sulle due decisioni. La Corte, dunque, è sembrata superare una nuova frontiera entrando nel reame delle politiche costituenti.

Nel prossimo paragrafo, quindi, proveremo ad analizzare le due sentenze mettendo in luce le modalità con cui la Consulta è riuscita a minare la

134 Tra i punti chiave dell’iniziativa vi era il sistema proporzionale, l’assenza del premio di maggioranza, una soglia di sbarramento fissa al 4% e l’eliminazione liste bloccate e quindi la preferenza unica. Si aggiungeva, inoltre, l’obbligo di indicazione del candidato premier.

Per il Senato, eletto su base regionale, si proponeva un sistema proporzionale, senza premio di maggioranza in collegi uninominali, e una sogli di sbarramento tarato sull’ampiezza delle circoscrizioni.

135 Così Giovanni Sartori, Citrullagini elettorali, sul Corriere della Sera del 16 luglio 2011.

discrezionalità del legislatore e perché i suoi interventi siano riusciti a dettare l’agenda politica del Parlamento. In questo quadro, chiariremo le conseguenze di tali decisioni e perché le regole che hanno disciplinato le elezioni del 2018 sono il frutto di una legge elettorale – il Rosatellum - che

“esiste e consiste in quella scritta da due sentenze della Corte” (Pasquino 2017, 346).

2.2 Le leggi elettorali