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L’impatto del judicial review sul policy-making

2.2 Le facce della giudiziarizzazione della politica

2.2.1 L’impatto del judicial review sul policy-making

da garantire il raggiungimento di determinati scopi politici attraverso l’utilizzo della legge25 (Kirchheimer 1961).

Tornando alle definizioni, passiamo in rassegna quella fornita da Hirschl (2008) secondo cui il concetto di giudiziarizzazione della politica non sarebbe più in grado di leggere adeguatamente la transizione delle democrazie contemporanee verso una juristocracy. L’autore parla di una

“giudiziarizzazione della mega-politics”, ovvero della “dipendenza dalle corti e i mezzi giudiziari per indirizzare questioni morali difficili, questioni di politiche pubbliche, e controversie politiche” (Hirschl 2008,119). Di fatto,

“dalle prerogative chiave dell’esecutivo come le questioni di sicurezza nazionale e la politica macroeconomica ai problemi di costruzione dell’identità collettiva e della nazione, dalla giustizia riparativa alle controversie legate al cambio di regime, alle dispute elettorali, le corti sono diventate le sedi cruciali in cui una società democratica può imbattersi”

(Hirschl 2004, 6). Le corti sono da considerarsi attori fondamentali nel risolvere issue potenzialmente divisive per l’opinione pubblica, nonché difficili da controllare per le istituzioni democraticamente elette in quanto interessano aspetti definitori della polity, ceteris paribus.

Gli aspetti che abbiamo appena delineato ci aiutano a comprendere meglio l’oggetto della nostra ricerca, evidenziando un passaggio di competenze, poteri decisionali, policy dai tavoli delle istituzioni rappresentative a quelli delle aule giudiziarie. Nel prossimo paragrafo comprenderemo meglio il fenomeno guardandone le principali manifestazioni: l’impatto del judicial review sul policy-making e la criminalizzazione delle responsabilità politiche.

2.2 Le facce della giudiziarizzazione della politica

e costituzionali entrano a pieno titolo nei circuiti di policy-making (Shapiro 1964). I provvedimenti adottati dai giudici, infatti, presentano ampi margini di discrezionalità che comportano l’inevitabile trasformazione e creazione della legge. Di conseguenza, le loro decisioni non possono essere semplici enunciazioni della volontà dei legislatori (Cappelletti 1984), ma assolvono ad una funzione normativa26.

Questi aspetti erano stati avvisati già da Kelsen (1970, [1934]) in relazione al funzionamento della Corte costituzionale austriaca. Notando che la scelta tra le varie interpretazioni è un problema di politica del diritto, Kelsen sosteneva che la “principale differenza tra legislazione e giurisdizione ha un carattere solo quantitativa e non qualitativa, ed è che il vincolo del legislatore sotto il profilo sostanziale è assai più limitato di quello del giudice” (Kelsen 1934, cit. in Ferrajoli 2016, 17). L’autore austriaco, dunque, riconosceva che la corte avrebbe svolto il ruolo di legislatore negativo, dato che l’autorità di dichiarare una legge incostituzionale era essa stessa law-making dotato di autorità politica, la cui forza risiedeva nella creatività goduta dei giudici ed era arginata dai limiti fissati dalla costituzione27 (Stone Sweet 2000). Successivamente, saranno soprattutto gli studi di matrice americana a rafforzare l’idea che le Corti rappresentino un importante policy-maker, e che non bisogni considerarle mera istituzione legali. Ad esempio, Robert Dahl (1957) avvertiva che l’essenza della Corte Suprema come istituzione politica è da individuarsi nella necessità di scegliere tra diverse alternative di politica pubblica, anche nei casi in cui una determinata controversia non è riferibile ad alcun statuto,

26 Per il giudice non sempre è facile rinvenire la disciplina da applicare, oppure determinate discipline possono essere in contrasto con principi o con la sensibilità del tempo, per cui egli è chiamato a adattare la legge ai bisogni che sorgono nella società. Di conseguenza i giudici si trovano spesso a dover fare scelte creative per accogliere le istanze che una società in continuo mutamento produce. Si tratta di un elemento che era stato già avanzato da Kantorowicz (1908) in Lotta per la scienza del diritto, in cui evidenziava che il giudice non è semplice interprete della norma, ma deve assumere un ruolo creativo quando essa è insufficiente o contradditoria.

27 Secondo l’autore, era quindi fondamentale l’aspetto organizzativo della revisione di costituzionalità, ritenendo che una buona architettura istituzionale avrebbe limitato una politicizzazione della giustizia.

precedente o alla Costituzione28 (Dahl 1957, 281). Altri autori hanno messo in evidenza che il judicial vetoing of legislation e il vetoing laws possono essere considerate delle forme di creazione di legge tanto più incisive se si considera che “il voto di 5 giudici conta più di 269 del congresso” (Shapiro 2013).

In sostanza, l’impatto del sindacato di costituzionalità sul policy-making è uno delle manifestazioni più chiare del modo in cui le assemblee ritrovino nei giudici un partner di governo. La possibilità di sindacare la costituzionalità delle leggi promulgate da governi e parlamenti dichiarandole incostituzionali ne rappresenta la manifestazione più evidente (Lindquist e Cross 2009). Le corti sono divenute un attore creativo capace di entrare nel merito della discrezionalità, testimoniando un’“interferenza” all’azione degli altri due pilastri del regime politico italiano. I giudici hanno quindi iniziato a creare ius, incrementando le loro capacità di intervento nel processo legislativo. Tale spostamento vede quindi il ritorno dallo iussum allo ius (Sartori 1995; Calise 1998), sostanziando un’azione politica delle corti sempre più diffusa. Ormai, infatti, la produzione di norme ha luogo inesorabilmente all’ombra della revisione di costituzionalità favorendo così un dilatamento degli spazi del potere giudiziario a livello globale (Ginsburg 2008).

In questo scenario, la revisione di costituzionalità può essere concettualizzata come un’estensione del processo di policy, in quanto capace di avere un impatto sull’outcome di una determinata politica pubblica (Shapiro 1981). Il fenomeno è stato anche definito

28 Questo problema, definito da Bickel (1962) come “difficoltà contro-maggioritaria”, viene risolto da Dahl attraverso la tesi del “ruling regime”, teoria che rappresenta uno dei capisaldi della prospettiva storico-istituzionalista. Attraverso un’analisi empirica delle decisioni della corte suprema tra la fine del diciottesimo secolo e la prima metà del ventesimo, Dahl conclude che solo raramente essa è in disaccordo con gli organi legislativi.

Ciò dipende sia dalla nomina presidenziale dei giudici federali (nell’arco di un mandato il presidente può in media nominare due nuovi giudici) che dal ruolo del Senato che conferma solo giudici con visioni in linea con la maggioranza. Secondo l’autore, il turnover garantisce quindi un potere giudiziario armonico con le visioni del presidente e del congresso, e le leggi colpite dalla corte sono soprattutto quelle create da maggioranze non più al potere (Epstein 1995).

giudiziarizzazione del policy-making29 (Stone Sweet 2000) e sta ad evidenziare il modo in cui l’azione delle corti costituzionali sia capace di strutturare ed influenzare la produzione normativa. Questo processo si struttura in due momenti chiave. In primo luogo, sul fronte dell’input ritroviamo l’emersione di un conflitto relativo ad una legge, per cui viene attivata una Corte costituzionale o suprema, che ha il potere di accertarne la costituzionalità all’interno di un ordinamento giuridico. Essa diviene una camera legislativa specializzata perché il suo raggio d’azione è limitato a statuti precedentemente adottate da parlamento o governo, o a sentenze adottate in precedenza. In secondo luogo, la corte esprimerà una sentenza che sortirà effetti legislativi, in quanto avrà la facoltà di annullare, riscrivere o emendare una legge. In questa fase, le decisioni espresse diventano fonte di incertezza ed assumono conseguenze politicamente rilevanti. Di conseguenza, la giudiziarizzazione del policy-making ha effetti concreti sul comportamento delle arene preposte al decision-making (Landfried 2019).

L’interpretazione e la decisione delle corti sulla costituzione orientano significativamente le assemblee, così da sovvertire la classica relazione principale-agente (Stone Sweet 2000). Le corti, quindi, influenzeranno parlamenti e governi nella misura in cui essi temano che la legge possa essere dichiarata incostituzionale da un giudizio della corte. In questo modo, la corte esercita un’influenza indiretta e deterrente. Si ricordi, ad esempio, quanto accaduto al governo Chirac del 1986-1988, che dichiarò che determinati monopoli pubblici non sarebbero stati sottratti al piano di privatizzazioni, a causa della probabile reazione censoria del Conseil constitutionnel (Knapp e Wright 2006, 402).

La crescente tendenza delle corti costituzionali ad assomigliare a delle

“terze camere” è particolarmente influenzata da una serie di fattori strutturali. In primo luogo, come suggerisce Ferejhon (2002, 58) le corti

29 Questo processo è stato definito come “produzione da parte dei giudici costituzionali di un discorso formale normativo che serve a chiarire, in modo continuativo, le leggi costituzionali che governano l’esercizio del potere legislativo, e la ricezione di queste leggi e dei termini di questo discorso, da parte dei legislatori” (Stone Sweet 2000, 195)

espanderanno il proprio potere con maggiori probabilità nei casi in cui lo stato presenti una struttura istituzionale federale, e una forma di governo presidenziale. In secondo luogo, è importante considerare il grado d’indipendenza di cui esse godono (Ferejhon et al. 2008). Nella maggior parte dei sistemi politici democratici, infatti, le assemblee hanno il potere di modificare le decisioni della corte attraverso una modifica della costituzione o ricomponendo la corte stessa. Tuttavia, queste possibilità sono legate alla necessità di super-maggioranze e di procedure molto lente, come nei casi di costituzioni rigide. Quindi l’ampiezza delle coalizioni e la qualità della democrazia di un paese possono contribuire a determinare il livello d’autonomia delle corti nell’esercizio della funzione di judicial review (Ferejhon e Pasquino 2006). In terzo luogo, rivestono particolare importanza il tipo di revisione di cui dispone (a priori o a posteriori), il numero di veto points nel processo di policy, e il contenuto del caso di legge all’attenzione della corte (Guarnieri e Pederzoli 2002; Stone Sweet 2000).

In particolare, sulla base del momento - a priori o a posteriori - in cui la revisione avviene, la corte svolgerà una terza o seconda lettura, in base all’architettura bicamerale o monocamerale del parlamento.

Infine, così come chiariremo meglio nel corso del lavoro, sono cruciali le caratteristiche e il funzionamento del sistema politico. In questa fase, invece, è opportuno tenere saldo che il quadro che sta andando delineandosi si caratterizza per una forte commistione tra politica e giudiziario, che è tanto più preoccupante se si considera che i giudici si caratterizzano per una legittimazione professionale e non democratica, un punto ancor più dolente quando sono chiamati a svolgere un ruolo di

“supplenza politica”. Quest’ultima non riguarda solo le conseguenze del sindacato di costituzionalità ma anche un secondo fenomeno: la criminalizzazione delle responsabilità politiche.