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6.1 Esposizione al rischio

6.1.1 Attrezzature, medicinali, competenze

L'ospedale di Tosamaganga non ha l'attrezzatura, i farmaci e le competenze per gestire in maniera ottimale un neonato con problemi di salute. In base alla mia osservazione, ma soprattutto in base alle conversazioni che ho avuto con medici occidentali, studenti di medicina e ostetriche che sono transitati per l'ospedale o che sono ancora lì a lavorare, emerge come vi siano delle mancanze in questi tre ambiti, le attrezzature concrete, i medicinali disponibili e il modus operandi del personale. Questi tre problemi sono interconnessi tra loro: le attrezzature magari sono presenti, ma il personale non le sa utilizzare.

Per quanto riguarda le attrezzature, alcuni strumenti mancano, altri ci sono ma vengono utilizzati impropriamente o non vengono proprio utilizzati. Gli esempi sono molteplici, basti pensare alle incubatrici: ce ne sono diverse, tuttavia non si trovano nel reparto di maternità ma da tutt'altra parte e vengono usate come cassettiere per deporre le lenzuola. Quindi, se un bambino nasce prematuro, viene utilizzata una soluzione alternativa: non l'incubatrice ma la kangaroo mother care: alle donne che partoriscono un prematuro viene proposto di restare qualche settimana, o comunque il tempo necessario al bambino per essere fuori pericolo, nella kangaroo mother room, una piccola stanza con due letti, un po' più calda delle altre, ricavata in un angolo dello stanzone in cui riposano le donne che hanno partorito tramite parto vaginale. La mamma trascorre le sue giornate a letto, con il neonato adagiato sul petto, in modo da riscaldarlo con il suo calore, e le viene raccomandato di allattarlo ogni due ore. Questa soluzione sta dando risultati molto positivi, però non tutte le mamme accettano di fermarsi un lungo periodo in ospedale. Come ha scritto Giorgia su questa stanza:

La mamma di solito sta lì sul letto col suo bimbo avvolto in almeno cinque strati di stoffa dai colori vivaci, se va bene di fianco a lei, più frequentemente ai piedi del letto. Nessuno entra mai a vedere come va. Per quanto ho visto finora, i prematuri non sono degni neanche di una visita, né medica né infermieristica. Si parla di loro, nella cartella della madre, solo per “certificarne” il decesso.

Da nove giorni ne seguo uno. Se le date sono giuste, è nato a 26 settimane di gravidanza. Sono arrivata di lunedì mattina (26 dicembre 2012) e come sempre ho buttato l'occhio nella stanza, quando ci ha visto dentro una mamma ero quasi felice. Col mio poco swahili chiedo alla mamma «Quando è nato?», capisco un paio di giorni prima. Poi vedo lì vicino una cartella. La apro. Erano tre gemellini. Ne sono già morti due. Senza guardare in faccia la mamma mi metto ad aprire il fagotto. È vivo. Respira. Trovo il coraggio di guardare la mamma negli occhi, e le dico, forte del fatto che non possiamo comunicare veramente: «Proviamo». Temperatura, nutrizione, rischio di infezioni. Cerco di pensare a cosa farei in Italia, e ogni volta quello che mi viene in mente lo giudico non fattibile qui, almeno per adesso. Ogni possibile azione mi sembra più rischiosa che utile. […] Dopo qualche giorno trovo il coraggio di pesarlo. Decisione difficile, visto che voleva

dire staccarlo dalla mamma per qualche secondo e appoggiarlo su una bilancia fredda. Come dire tirarlo fuori dall'incubatrice. Il piccoletto pesa 800 grammi, ma anche lui ci sta provando. La fatica più grande è sapere quanto si farebbe in Italia e decidere di non farlo, perché non ci sono i mezzi o perché sarebbe peggio. Con il piccolo Petro ci vuole pazienza, tanta. Ma continua a vivere senza flebo, senza accessi venosi, senza alcun monitoraggio, tranne i miei occhi. Chiedo di parlare con il padre, che non si vede mai durante la degenza. Il giovedì che viene al colloquio scopro che per arrivare alle 13 in ospedale, è partito alle 4.30 del mattino in bicicletta. Gli prometto che suo figlio ce la farà e che li dimetterò quando peserà almeno 1,5 kg.

Il peso aumenta da quando integro il latte materno con il latte di formula in polvere (cioè diluendo la polvere nel latte materno, invece che in acqua). Finalmente il 28 febbraio 2013 arriva il grande giorno. Petro può tornare a casa. C'è aria di festa nella sua piccola stanza. Ha raggiunto oggi 1600 grammi. E succhia talmente forte che quando provo a dargli il mio dito, quasi me lo stacca. Il papà, mentre mi ringrazia, dice: «Atakuwa daktari kama wewe / diventerà dottore come te.» (G. Soldà, Èafrica 2013: 16-17)

Un altro esempio di uno strumento che ci sarebbe ma non viene utilizzato è quello dell'ecografo. Il SISM29 nel 2012 ha raccolto dei fondi per regalare un ecografo all'ospedale, tuttavia non è stato praticamente mai utilizzato: mancano le competenze necessarie all'uso, competenze che non vengono normalmente insegnate nei percorsi che portano alle varie professioni mediche e sanitarie. Pertanto il SISM sta ora pensando di inviare qualcuno che possa insegnare ad utilizzare lo strumento ai medici locali, per non disperdere completamente l'investimento. Ma non sono solo gli strumenti “tecnologici” quelli che vengono accantonati o utilizzati male, emblematico il caso del partogramma, come si è visto precedentemente.

Per quanto riguarda i medicinali, il discorso è analogo. Non sono a disposizione tutti i medicinali di cui si avrebbe bisogno, e il personale cerca di arrangiarsi con 29 Segretariato Italiano Studenti di Medicina. Si tratta di un'organizzazione degli studenti di medicina che organizza e gestisce progetti di vario genere, come ad esempio inviare studenti in ospedali

quello che c'è.

Non ho alcuna preparazione per giudicare le competenze ostetriche, posso solo riportare ciò che mi è stato riferito dai medici e dalle ostetriche italiane con cui ho parlare. Per diventare ostetriche in Tanzania occorre completare un percorso di due anni, durante il quale si studia teoria generale e si accumulano ore di tirocinio. A Tosamaganga c'è una scuola per infermiere, tuttavia – forse è un caso – le uniche infermiere che pare lavorino bene si sono diplomate in altre scuole.

A parte la durezza con cui trattano le partorienti, mi sono state riferite diverse stranezze, che sembrano indicare un fondamentale disinteresse per la salute delle loro pazienti. Un esempio lampante è il ruolo di Giorgia, la neonatologa inviata da Medici con l'Africa Cuamm. Nonostante le sue frequenti richieste di essere chiamata subito, a qualsiasi ora del giorno e della notte, in caso di parto difficile con probabile sofferenza fetale, il più delle volte non viene chiamata affatto o viene chiamata troppo tardi. Analogamente, le sue prescrizioni e indicazioni terapeutiche, soprattutto nel reparto di pediatria, vengono solitamente ignorate, a meno che non siano corroborate dalla caposala. O ancora, la semplice abitudine delle infermiere, man mano che Giorgia si appropriava dello swahili, di parlare sempre più veloce, in modo che fosse comunque esclusa dalla comunicazione.

Da queste problematiche ampie si passa ad atteggiamenti meno lampanti, della routine quotidiana, che non hanno nulla a che fare con figure esterne all'ospedale, ma sono di non poca importanza. Ad esempio, banalmente, le fialette di vetro dei medicinali vengono aperte rompendole contro un armadio metallico. Così facendo però dei micro frammenti di vetro possono cadere dentro la fialetta e venire iniettati direttamente in vena al neonato. Oppure, come evidenzia il rapporto del 2012 del Cuamm, l'uso dei guanti da parte del personale più con l'idea di proteggersi dal contrarre infezioni che per evitare la contaminazione tra pazienti. O, ancora, un giorno il medico ha incaricato le ostetriche italiane di compilare loro i moduli di dimissione, moduli che prevedono l'informarsi sullo stato di salute di madre e neonato, pur sapendo che loro non parlano swahili e le donne non parlano inglese.

Un altro fatto che probabilmente incide in qualche modo in questo atteggiamento è la posizione occupata dai medici (e le varie figure intermedie, non laureate) e dalle infermiere nella gerarchia dell'ospedale. L'idea alla base non è quella del medico

disponibile e pronto ad aiutare, è piuttosto quella del medico come figura autorevole a cui portare grande rispetto. Un chiaro esempio è il modo in cui viene fatto il giro in pediatria: non il medico, o l'infermiera, che passano di letto in letto, ma l'infermiera seduta e le mamme in fila che le portano il bambino malato; questa è una pratica piuttosto frequente negli ospedali africani, soprattutto per quanto riguarda il reparto di pediatria. Giorgia mi ha raccontato che quando ha provato a fare il giro come era abituata in Italia ha suscitato grande stupore e divertimento.