Il villaggio di Ipamba, presso il quale ho svolto la mia attività di ricerca, si trova nella regione di Iringa, città affacciata sulla valle del Little Ruaha River e attualmente capoluogo di regione. Iringa fu fondata all’inizio del XX secolo dai tedeschi, che vollero sfruttare la sua strategica posizione come bastione contro la popolazione indigena degli Hehe; oggi la città è un importante centro agricolo e via d’accesso per il Ruha National Park.
A pochi chilometri di distanza da Iringa (circa quindici), sulla sommità di una collina circondata da campi di mais, si trova la missione di Tosamaganga, fondata subito dopo la conquista tedesca da monaci benedettini (1896) per poi passare sotto la responsabilità dei padri missionari della Consolata (1923). Ai piedi della collina il villaggio di Ipamba e l'ospedale.
Quando è stato costruito l'ospedale (nel 1967), attorno vi erano solo una manciata abitazioni ma, ben presto, il luogo ha conosciuto una forte affluenza, attirata dalle nuove prospettive lavorative, e si è formato quello che ora è il villaggio di Ipamba. 2 Cioè il rappresentante Paese dell'ONG Medici con l'Africa Cuamm, che risiede a Iringa e si occupa di salute pubblica e della gestione dei progetti Cuamm nell'ospedale di Tosamaganga e, in generale, in tutte le strutture sanitarie tanzaniane in cui il Cuamm opera.
Non ho potuto avere dati certi sulla popolazione, ma probabilmente si tratta di diverse centinaia di abitanti; quasi tutti sono di etnia Hehe e cristiani cattolici, anche se vi sono circa una decina di famiglie musulmane e una famiglia anglicana.
A Tosamaganga è situata la chiesa principale, e all'interno dell'ospedale c'è una cappella; una delle strade che collegano il villaggio e la missione costeggia il cimitero religioso, dove sono sepolti solamente i preti e le suore, espatriati e locali. Gli abitanti del villaggio seppelliscono i loro morti in un altro cimitero, più distante. Non c'è una moschea, anche se andando verso la città, Iringa, se ne trovano numerose.
Il villaggio è strutturato intorno ad una via centrale, sulla quale si affacciano i negozi, i bar e qualche ristorantino; questa via attraversa nel senso della lunghezza tutto il villaggio, è in terra battuta ed è praticamente impossibile per le macchine transitarvi, pur essendo abbastanza larga. Il problema sono le vie di accesso a questa zona centrale: viottoli stretti e/o molto sconnessi. Tuttavia le moto, mezzo di locomozione molto apprezzato, vi circolano liberamente. Gli edifici sono quasi tutti in muratura e con il tetto in lamiera, anche se man mano che ci si allontana dal centro compaiono capanne di fango con il tetto di paglia. Tutte le case hanno l'elettricità, mentre per l'acqua ci sono dei rubinetti disposti nei cortili o in luoghi comuni a più case. Da circa vent'anni il villaggio, grazie ad una sorta di acquedotto, riceve acqua pulita di sorgente. Prima veniva utilizzata l'acqua del fiume Ruha (che scorre lì vicino) e dove ogni sabato le donne si recano a fare il bucato.
Per entrare in contatto con gli abitanti del villaggio ho cercato un punto d'inizio e l'ho trovato nel biliardo: alla fine della via centrale infatti si trova un tavolo da biliardo, sistemato all'aperto sotto un tetto di paglia, e ogni pomeriggio, tranne la domenica, i giovani del villaggio si ritrovano lì per giocare e trascorrere il tempo in compagnia. Verso sera, prima che cali il sole (solo alla fine della mia permanenza hanno sistemato una lampadina ad illuminare il tavolo), giocano a soldi, ma nelle ore precedenti si tratta di normali partite a biliardo, riservate comunque ai maggiori di diciotto anni. Solo gli uomini sono coinvolti, spesso passavano donne con carichi di legna o cesti sulla testa, ma non si fermavano né salutavano. A meno che non si trattasse della proprietaria del negozio-bar lì vicino, una signora voluminosa e arrogante, che vende birra e ulanzi, una delle varianti di alcool locale. In generale ho avuto molte più difficoltà a instaurare una relazione con le donne, piuttosto che con
gli uomini.
Tuttavia anche questa frequentazione del tavolo del biliardo – seppure in compagnia maschile – mi è stata utile, uno dei giocatori era un insegnante di inglese, con cui riuscivo a conversare abbastanza agevolmente. E la mia presenza non è passata inosservata, la notizia si è diffusa rapidamente e un pomeriggio, mentre chiacchieravo con le cuoche della guest house dove alloggiavo, queste mi hanno chiesto molto divertite se era vero che giocassi a biliardo, e ciò ha offerto lo spunto a una di loro, Leonida, per proporre alla collega, Brigitta, di invitarmi a casa sua, molto vicino al tavolo da biliardo. È stato strano che non mi avesse invitata direttamente Brigitta, ma Leonida ha una personalità molto più vivace e socievole. Riporto dal mio diario di campo le impressioni sul mio primo ingresso in una casa:
Oggi sono stata invitata a casa di una delle dade [scorrettamente chiamavamo così le signore che lavoravano alla guest house: dada significa sorella ma noi italianizzavamo il plurale], da mama Deo (qui le signore si chiamano mama e il nome del primo figlio/a). Abita in una capanna con il tetto in lamiera e credo ci siano diverse stanze. Lei mi ha fatto accomodare in salotto, una stanza lunga e stretta (circa 4 x 1.5 m), con due divani e diverse poltrone (con poggiatesta e centrini simil-ricamati), un tavolino, una credenza e una tv, accesa su un canale di video musicali..mi ha voluto offrire una soda e l’ho trovato un pensiero molto gentile, considerando che costa 40 cent e lei guadagna 60 euro al mese. Mi ha chiesto quale preferivo e ha mandato il nipote a comperarla apposta. Mi sono offerta di condividerla con l’altra nipotina, di tre anni. Brigitta ha figli già grandi, ha 43 anni e due anni fa è morto suo marito e i parenti del marito hanno comprato al figlio maggiore (che ha 23 anni) una moto, così può guadagnare qualcosa. Perché qui le moto funzionano un po' come taxi, in alternativa ai daladala [gli autobus locali, dei mini van]. Bè è stato un poco imbarazzante, le mie competenze linguistiche erano assolutamente inadeguate, per un po' sono stata da sola con questa bambina, una ragazza che piegava delle kanga [stoffe locali] e un gatto a guardare la tv. Giusto per non stare immobile ho accarezzato e giocato un po' con il gatto, avrà pensato che era il suo giorno fortunato, ha cominciato a fare le fusa e non mi si staccava più..pelle e ossa! Poi anche quando è tornata, la mia ospite era molto interessata alla tv e i miei tentativi di
conversazione cadevano nel vuoto..ma alla fine mi ha accompagnata per un pezzo verso casa e ci siamo fermate a salutare qualcuno..venerdì sono invitata a casa di un’altra dada e domenica invece a casa di uno dei guardiani, che mi ha chiesto di fare delle foto ai suoi figli..la cicciona del negozio di kanga (gliene ho comprata una e poi sono ritornata con le ostetriche che ne hanno comprata un’altra) ogni volta che mi vede passare mi dice rafiki rafiki [amico/a, amico/a] e si sbraccia! E qualcuno mi saluta per nome, tantissimi mi salutano e basta, qualcuno mi chiede dove sto andando e un paio hanno provato a chiedermi soldi, ma non con grande convinzione. (Dal diario di campo, 20 aprile 2013)
In seguito sono stata invitata diverse volte a pranzo o a bere del tè. Spesso le mie ospiti erano preoccupate per le mie abitudini alimentari e mi facevano trovare del pane – loro lo mangiano solo a colazione – e talvolta anche delle posate. È cortesia lasciare qualcosa nel piatto dicendo nimeshiba, sono sazio, ricevendone in cambio grandi sorrisi compiaciuti. Cortesia che per altro non risultava difficile viste le porzioni enormi di riso o ugali (una polenta bianca senza sale) che usano mangiare.
Presto mi sono accorta di essere abbastanza conosciuta – ero facilmente identificabile – e questo comportava una serie di saluti e visite obbligate quando passavo per qualche zona del villaggio. Ciononostante non tutti hanno avuto un atteggiamento amichevole nei miei confronti, alcuni mi evitavano e deridevano apertamente il mio interprete, che mi accompagnava quasi sempre.
I bianchi in swahili sono chiamati wazungu, un termine specifico che non indica il colore bianco3, ma è un nome con cui siamo identificati. Quando per strada qualcuno voleva attirare la mia attenzione, mi si rivolgeva sempre con mzungu (il singolare di wazungu), solo quelli con cui ho stretto un rapporto di maggiore confidenza mi chiamavano per nome. A lungo andare mi è risultato un po' fastidioso venire continuamente chiamata mzungu, anche perché sospetto non sia esattamente un termine neutro. Nonostante i locali mi abbiano confermato più volte che non ha assolutamente alcun tipo di connotazione, mzungu ha la stessa radice del verbo kuzungumza, che significa chiacchierare. Pare che chi ha ideato questo nome
considerasse i bianchi gente che va in giro senza far niente, a chiacchierare. Pregiudizio che, peraltro, con il mio lavoro, ho ampiamente confermato.