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l’autocompiacimento I normali sono sempre compiaciuti di se stessi Sono coloro i quali, secondo

le parole di Marmeladov, “esclamano” a proposito dei traviati: “Signore, perché li accogli?” e ai quali sarà riposto: “Li accoglierò, o saggissimi, li accoglierò, o molto assennati, perché nessuno di loro se n’è considerato degno”. F.M. Dostoevskij, Prestuplenie i nakazanie, Zarogodnij, Moskva 1866, trad. it. di G. Kraiski, Delitto e castigo, Garzanti, Milano 1989, p. 118. Quel che dice Marmeladov degli ubriaconi, dei deboli e dei viziosi si applica naturalmente anche a tutti i traviati. Ovviamente se essi hanno coscienza di essere tali.

211 Scrive Pareyson: «Fra il bene e il male non c’è differenza quanto a energia: in entrambi è la

stessa potenza che agisce, se non che, nel caso del male l’energia rimane senza impiego, come un’enorme potenzialità inutilizzata, la quale non potendo esplicarsi finisce con l’assumere un carattere non solo distruttivo, ma anche autodistruttivo, e nel caso del bene quell’energia, avendo trovato un impiego, non solo si disperde né si volge contro di sé, ma anzi si rigenera e si riconferma continuamente». L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 165.

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necessità, che considerando il male come necessario al bene finisce col cancellare la distinzione fra i due termini, oppure culminare in un estremo appello alla libertà che, decidendo l’alternativa, offre un significato alla natura bifronte dell’uomo. Il carattere ancipite delle cose umane si rivela esposto a una doppia possibilità: per un verso può essere assorbito in una dialettica che istituisce i termini contrari in momenti necessari, e quindi rende ogni distinzione indifferente, facendola degenerare nell’equivoco; per l’altro verso può essere dispiegato in un esercizio di libertà, in cui i termini contrari diventano oggetto di una consapevole scelta, mostrando così la loro natura più alternativa che antinomica, più dilemmatica che bivalente. Difatti, che importanza può avere l’ambiguità delle cose umane se la loro duplicità non è che una confusa compresenza, e non assurge all’altezza di una contraddizione che si deve risolvere con una scelta? Qui sono contrapposte due concezioni del mondo: da un lato la dialettica della necessità, che degrada l’ambiguità a mera indistinzione e indifferenza, dall’altro la dialettica della libertà, che esalta l’ambiguità sino alla tensione dell’alternativa e della decisione.212

È proprio la dialettica della necessità che porta con sé l’eliminazione della distinzione fra bene e male, cioè l’indifferenza e la tiepidezza; la dialettica della libertà pone invece l’alternativa e la scelta, e quindi conferisce all’azione del giusto il suo pieno valore e al peccatore la possibilità della salvezza. Se l’esperienza del peccato è necessaria alla salvezza, se per realizzare la vera virtù è necessario impegnarsi nella via del male, allora la differenza fra bene e male scompare nell’indistinzione e l’ambiguità degenera nell’equivoco.213

212 Particolarmente illuminante su questo punto è la ricorrente citazione di un passo

dell’Apocalisse nei Demoni: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né ardente. Oh, se tu fossi freddo o ardente! Ma poiché sei tiepido, e non ardente né freddo, ti rigetterò dalla mia bocca» (3, 15-16). Veramente buono è l’ardente, cioè chi fa il bene sapendo che potrebbe anche fare il male, e avrebbe il coraggio di farlo. Ecco in qual senso, a mio giudizio, il delitto è la prova suprema dell’uomo, perché esso solo offre la possibilità di poter distinguere il freddo e l’ardente.

213

A questo riguardo, Pareyson sulla scia di Dostoevskij e prolungandone l’esercizio, osserva che l’esperienza della libertà è assai più profonda di quella del male, e lo stesso male è tale solo se prodotto dalla libertà, allo stesso modo che solo dalla libertà dipende che la sofferenza riesca a riscattarlo attraverso la libera esperienza del pentimento. L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia,

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La stessa libertà, a cui si fa supremo ricorso, risulta ambigua. La costitutiva ed essenziale illimitatezza della libertà può essere tanto quella dei demoni quanto quella del Cristo, per un verso la libertà della ribellione e dell’arbitrio e per l’altro la libertà della scommessa e dell’obbedienza. Con ciò è dato toccare l’essenza della tragedia che conferisce una specifica impronta alle creazioni nelle quali la vita umana è svelata e definita fino all’ultima sua interna conformazione. La tragedia è possibile soltanto sul terreno di una concezione del mondo profondamente ambigua. Essa si svolge tra Dio e l’anima umana, si riflette nell’incarnarsi della seconda, si ripete, duplicata e triplicata, nei rapporti tra le realtà dell’anima umana. E derivi essa dall’odio originario per Dio, oppure dall’ottenebramento dell’anima posseduta da selvagge passioni: si accende la lotta tra il principio divino nella creatura e la potenza del «principe di questo mondo», nella quale l’uomo ora, come Dmitrij Karamazov, viene a trovarsi in straziante contraddizione con il suo io più alto e migliore, ora come l’«Idiota» che considera il mondo come perfetta armonia e pace in Dio, ma aspira ad una piena incarnazione e ad un’attiva partecipazione alla vita ed alla sofferenza, non è capace di affermare la legge dell’esistenza terrena e seguirla.214

Ma com’è possibile questa correlazione, com’è possibile definirne i portatori, qual è l’essenza della volontà universale comune? La personalità ha una natura antinomica. Da una parte essa è in sé sostanzialmente unitaria: per quanto possa essere scissa in molte parti, piena di contraddizioni, strappata da un dissidio interiore, deve univocamente concordare in se stessa e adempiere il proprio destino. D’altra parte, nonostante tutto ciò non è una entità chiusa in sé. La sua stessa unità è fondata sul fatto che una unità superiore vive in essa in una particolare maniera. I legami che la tengono stretta al suo tutto e la rendono con

214 Vjaceslav Ivanov evidenzia come il principio tragico che determina il rapporto tra Dio e

l’umanità, si intende al di là della sfera umana su tutte le creature subordinate all’uomo e trovi correlativi nella vita spirituale della Natura. La Madre-Terra, che alla fine rappresenta tutta la Natura, è partecipe di tutto il ciclo della Passione del Dio-uomo. L’uomo porta davanti ad essa una colpa antica, la accresce a causa della sua peccaminosità, ma allo stesso tempo per mezzo della sua santificazione tende alla sua espiazione.

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ciò stesso partecipe del vero essere sono sacri: è infatti qualità del vero essere rivelarsi come unità in una molteplicità di volti. Se tuttavia la personalità è possibile solo in connessione con l’essere, se l’integrazione in una unità personale superiore costituisce la base ontologica del singolo, base che pone una barriera salvifica alla individuazione assoluta, bisogna allora ammettere l’esistenza tra le due sfere confinanti, l’uomo universale e l’individuo umano, di una serie graduale di unità personali sincretiche che si riferiscono al tutto, come gli «angeli» dell’Apocalisse di Giovanni si riferiscono alla Chiesa unica di Dio. Bisogna risalire alla concezione biblica per comprendere questa visione nella sua concretezza: l’idea dei popoli come personalità e angeli è infatti alla base di tutta la storiografia ed escatologia biblica.215

La religiosità della vita è avvertita non nelle norme della vita stessa, ma nelle sue perversioni, nella devianza umana, nella lotta tra le passioni umane. Dio è avvertito molto più nell’opera di demolizione dei capisaldi dell’autoaffermazione che nell’ascesa al cielo che è propria ai metodi tradizionali dell’ascetismo e della santità cristiana.

In sostanza, dall’attrazione particolare per i perversi, i traviati, i passionali, traspare un pensiero di grande significato il quale, pur non essendo espresso in forma astratta, si impone come ineluttabile conclusione delle intuizioni religiose dello scrittore. Tale pensiero consiste nell’idea che le supreme conquiste religiose possiedono un legame organico con alcune manifestazioni peccaminose della volontà umana e che la morale cristiana purificata e sublimata non è patrimonio dell’essere umano. E anche se lo è, ha sempre un legame intimo con il peccato nel passato personale. Il peccato è una sorte di concime spirituale; è il letame in assenza del quale non può crescere un rigoglioso e saldo germoglio religioso.216

215 Appunto nella sua dottrina sul popolo Dostoevskij si appoggia all’autorità della Chiesa, come si

vede specialmente nella sua ultima opera, ma egli non separa tuttavia in modo abbastanza distinto i concetti di popolo e di Chiesa, il che, nonostante tutti i suoi sforzi di rimanere fedele al principio «ecumenico», lo conduce al nazionalismo confessionale.

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S. Askol’dov, Il significato etico-religioso di Dostoevskij, in Un artista del pensiero. Saggi su

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Ovviamente ciò che conta non è il peccato in sé e per sé, ma ciò che ad esso è collegato nell’anima umana: la sincerità, la sofferenza, l’umiliazione, il pentimento.

Questa è la dialettica di Dmitrij, che ne spiega la concezione contro Ivan: «Ho aspettato fino all’ultimo, per svelarti il mio animo. Fratello, io ho sentito dentro di me un uomo nuovo, è risorto in me un uomo nuovo! Era prigioniero dentro di me, ma non sarebbe mai comparso senza questo fulmine. Ho il terrore di altro, ora: che quest’uomo risorto mi abbandoni. Si può far rinascere un cuore che si era fermato; si può curarlo e far uscire alla luce un’anima nobile, una coscienza sofferta; far rinascere l’angelo (…) Le filosofie mi uccidono, che il diavolo se le porti via!».217

Non potrebbe esservi un capovolgimento più radicale della tesi di Ivan. Ed è alludendo a questo capovolgimento, in fondo, che Dmitrij può esclamare: «Se cacceranno Dio dalla terra, noi lo ritroveremo sotto terra! (…) Noi, uomini chiusi sotto terra, dalle viscere della terra innalzeremo un tragico inno a Dio».218

«Tragico» è l’inno che Dmitrij innalza a Dio. Così come trapassa da un orizzonte di tragedia classica a un orizzonte di tragedia cristiana. L’espiazione cercata da Dmitrij è tragica perché non libera dalla sofferenza e dal patire, ma coincide con essi. E vi si mantiene: tanto che il dolore riattivato e moltiplicato dal suo stesso venir meno e cadere ma soprattutto dalla consapevolezza di ciò e dalla

217 F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 818. 218

Nei Taccuini relativi ai Fratelli Karamazov (che, ricordo per inciso, a differenza di quanto accade per le altre opere dostoevskijane, riflettono solo uno stadio avanzato della composizione del romanzo) questo passo presenta la seguente variante: «Noi innalzeremo un triste e tragico inno dalle viscere della terra -alla natura, al misterioso e inevitabile genio del destino, a Dio infine». Un’ipotesi: che la caduta del «misterioso e inevitabile genio del destino» corrisponda al bisogno di togliere qualsiasi equivoco circa il carattere direi postclassico di questa «tragedia». In ogni caso, osservo che la tragicità dell’espiazione, quale viene esplicitamente alla luce in questo passo, è in rapporto non tanto con la sofferenza in generale, che nulla vieta di pensare come strumento di un occulto piano divino di redenzione, bensì con la sofferenza inutile: sofferenza che dissolverebbe l’idea stessa di Dio, se Dio dovesse darne ragione, e che quindi non può essere pensata, in Dio,

che come da Dio presa su di sé. Su questo tema, di importanza fondamentale per la comprensione

della «dialettica religiosa» di Dostoevskij, Luigi Pareyson ha scritto pagine assolutamente decisive (L. Pareyson, La sofferenza inutile in Dostoevskij, in Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed

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resistenza a ciò, nel dolore che non è se non il dolore di Dio, il suo universale patire, la sua sofferenza per tutto e per tutti, l’espiazione semina una possibilità estrema. Quella che «nel grande dolore» fa intravedere a Dmitrij, come una specie di lampo profetico la «gioia»; ma soprattutto quella che fa apparire come gioiose (tragicamente gioiose) le parole, tragiche, pronunciate da Alëša sulla tomba del bambino morto: «Non dimentichiamoci mai di lui. (…) Ci ricorderemo del suo viso, del suo vestito, dei suoi poveri stivaletti, della sua piccola bara, del suo debole, infelice babbo, e di come egli insorse coraggiosamente, solo contro tutta la classe, per difenderlo! (…) Eterna memoria al piccolo morto!».219

Espiare è lottare con Dio. Dmitrij in carcere dice: «Sono tormentato dall’idea di Dio. È l’unica cosa che mi tormenti».220

Colui che espia, lottando con Dio, ne riceve una ferita inguaribile, perché appunto in questo consiste l’espiazione: in una paradossale e cenotica forma di deificazione. Colui che espia, imputa a sé quello strazio, lo raccoglie nel profondo, se lo infligge, esattamente come se lo infligge Dio. Sul problema, il problema della espiazione, si tornerà in diversi luoghi: tra questi, l’appendice ai Demoni, di cui Dostoevskij stesso ha voluto sottolineare l’eccezionale importanza togliendola al corpo del romanzo e conferendo ad essa la dignità di un suo sigillo conclusivo. Questa appendice è divisa in tre parti, e contiene, nella seconda, la confessione di Stavrogin data in lettura, dallo stesso Stavrogin, al vescovo Tichon.221

219 F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 1071. «Dio li dimentica per sempre» è detto,

viceversa, dei dannati nella «Leggenda del Grande Inquisitore». Ivi, p. 359.

220 Ivi, p. 823.

221 La confessione di Stavrogin, inoltre, è preceduta da una breve presentazione da parte

dell’anonimo io parlante. Sono poche righe, tra le quali si legge: «Questo documento, secondo me, è opera di un uomo in stato morboso, dettato dal demone che si era impadronito di lui (…). L’idea fondamentale del documento è la terribile, non simulata esigenza del castigo, l’esigenza della croce, del pubblico supplizio. E tuttavia questa esigenza della croce si fa sentire in un uomo che non crede nella croce (…). Realmente, il fatto stesso di redigere un documento simile è una nuova sfida». F.M. Dostoevskij, Besy, Zarogodnij, Moskva 1871-1872, trad. it. di R. Küfferle, I demoni, Mondadori, Milano 1987, p. 772.

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Si accenna molto chiaramente alla sua alta vocazione: non per nulla porta un nome segnato da croce (σταυρός). Misteriosi indizi gli hanno promesso una unzione per così dire regale. Gli fu data la grazia di conoscere misticamente gli ultimi misteri, gli furono rivelate l’anima del popolo e la sua attesa dello sposo, portatore di Dio. Egli inizia Šatov e Kirillov ai misteri originari del messianismo russo e trapianta nelle loro anime un profondo sentimento del Cristo, insieme al più profondo dubbio sull’esistenza di Dio. Ma egli stesso, in un momento decisivo del suo terribile passato, ha tradito la santità rivelataglisi. Traditore davanti a Cristo, egli è infedele anche a Satana, tradisce la rivoluzione, tradisce la Russia stessa (simboli: l’assunzione di un’altra nazionalità ed in particolar modo la separazione dalla moglie, da Mar’ja Timofeevna). Ma benché abbia tradito Satana, egli rimane il latore passivo, il sensibilissimo canale percorso dalla forza satanica che si impadronisce per suo tramite, intorno a lui, del gregge dei possessi (Marco 5,9).222

Stavrogin confessa la propria passione per l’ambiguità, si dichiara irresistibilmente attratto dalle situazioni ignominiose, umilianti e soprattutto ridicole: lì uno sdegno smisurato si accompagna sempre a un incredibile piacere, ed è il piacere che si sprigiona dalla capacità di dominare e contemplare lo sdegno stesso. Questo accade sulla base di una professione di radicale indifferentismo etico: al di là del bene e del male la vita rischia di diventare noiosa fino all’incretinimento, sicché, a chi si sia collocato in quella dimensione, si impone la decisione di spingerla ai suoi confini (dove essa si rivela sinistramente solidale con la propria negazione), di provocare un sussulto liberatorio tanto più efficace quanto più iterativo e tuttavia tanto più paralizzante quanto più abnorme, non fosse per l’assuefazione che richiede aumenti progressivi e sempre più letali.

A contrassegnarlo, infatti, è il suo non poter essere ricordato, il suo spegnersi nella successione indifferenziata degli istanti, il suo sottrarsi al tempo

222 La citazione del Vangelo di Marco, dove si parla dei diavoli che, dopo la guarigione del

posseduto della legione, si trasferiscono in un gregge di porci, è messa come epigrafe a tutto il romanzo.

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del dover rendere conto: tempo che richiede durata, tempo ora frantumato e sciolto. Occorre sottolineare, tuttavia, come il personaggio non manchi di cogliere il malinconico legame di liberazione e perdizione. Con assoluta esattezza ne formula il pensiero: non solo, egli osserva,di ignorare (di non conoscere, non sentire, avendone perduto il senso) la distinzione del bene e del male, ma di sapere che il male e il bene non esistono se non come pregiudizi, eppure se sta proprio a lui liberarsi da essi, raggiunta quella libertà non potrà che perdersi, avendo modo di esercitarla solo negandola, solo rivolgendola contro se stessa, solo identificandola di volta in volta con l’infinito prodursi di fatti tutti diversi e tutti equivalenti. Stavrogin, che è spinto a uccidersi perché «preso dalla malattia dell’indifferenza»223, si decide per l’azione più abietta: seduce una bambina, spia in lei il tormento della colpa in una sorta di colpevolizzazione vicaria che mentre solleva lui schiaccia lei, e lascia infine che la bambina si uccida nella convinzione di aver «ucciso Dio».224

Stavrogin «cerca il dolore»225, o almeno vorrebbe cercarlo, per liberarsi dalla supposta liberazione, dalla labilità della immersione nel fluire indifferenziato ed estetizzante di eventi immemori di sé, dalla tiepidezza per cui non c’è mai nulla che faccia veramente differenza. Ma appunto il dolore, come ciò che al di là o al di qua del bene e del male svanisce perché con il bene e con il male ha un rapporto costitutivo, gli si nega; semmai, a lui, che «non è ne freddo né caldo», è concesso solo in un contraccolpo della memoria che però lo presenta nella forma abortiva e velenosa di una espiazione inevitabilmente mancata.226

223 S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 117. 224

F.M. Dostoevskij, I demoni, cit., p. 779. «L’avvenimento, scomparso il pericolo, l’avrei dimenticato affatto, come ho dimenticato tutte le cose di allora (e invece) ecco quello che accadde allora! Vidi dinanzi a me –oh, non da sveglio! Almeno fosse stato un vero fantasma! –vidi Matrëša (…) La misera disperazione di una creatura impotente, dalla ragione non ancora formata, che minacciava me (di che? Che cosa mai poteva farmi, o Dio), ma che accusava, certamente, soltanto se stessa!». Ivi, p. 785.

225 S. Givone, Dostoevskij, cit., p. 118.

226 Diversi i modi di questa confessione, che Stavrogin fa a Tichon mostrandogli alcuni foglietti a

stampa in cui l’ha messa per iscritto. (Stavrogin ha deciso di renderla pubblica, e se ne comprende la ragione: il gesto da lui compiuto e subito cancellato, svuotato di senso, richiede un suo

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Anzitutto, c’è il restituirsi alla memoria della responsabilità alienata e dissolta, che perciò suscita il bisogno del pentimento e insieme esaspera l’impossibilità di soddisfare questo bisogno. In secondo luogo, la sete di sofferenza, che però resta ambigua. La difficoltà è tutta lì; che è doppia: infatti, da una parte il desiderio di sfidare il proprio giudice e l’impulso ad andare oltre ogni eccesso (secondo quella regola implicita nell’estetismo stavroginiano, per cui ciascun istante è negato da quello successivo, nel tempo immemoriale dell’istantaneità che spezza il legame tra il passato e il futuro) fanno sì che il criminale sia esaltato piuttosto che il peccatore umiliato, dall’altra la paura dello scherno «spalanca sotto i piedi un abisso quasi insuperabile».227

Da questa incapacità di distinguere il bene e il male deriva l’indifferenza e l’equivalenza di due termini: per Stavrogin è indifferente fare il bene o il male, e il criterio in base al quale egli compie o l’uno o l’altro dei due è completamente indipendente dalla loro distinzione.228

La sua forza originaria era positiva, ma una misteriosa decadenza l’ha inficiata alla radice; egli avrebbe potuto essere la stella del mattino, e ora non emana che barlumi maledetti. L’amoralismo e l’indifferenza portano con sé la morte dell’anima, la più fredda insensibilità: il peccato di sicuro più grave della vita interiore, cioè l’accidia, che non è soltanto indolenza, ozio, pigrizia, ma è soprattutto noia, mancanza di interesse, aridità interiore, congelamento degli