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pronto a riconoscere con sincera umiliazione la sua depravazione, ma è fiero della gioia che ha

provato quando ha saputo trattenere la propria sensualità e non abusare di Katerina Ivanovna, pur potendolo: «Mi piaceva la depravazione, mi piaceva la depravazione più ignobile. E mi piaceva la crudeltà: non sono forse una cimice, un insetto malefico?(…) Ma per quanto bassi siano i miei desideri, e per quanto io ami la bassezza, però non sono un disonesto (…) Chi vi parla è un galantuomo, un uomo che ha commesso un’infinità di bassezze, e proprio per questa ragione si è tormentato tutta la vita, perché aveva sete di onestà, era una specie di martire dell’onestà, la cercava col lanternino, e intanto durante tutta la sua vita non ha fatto che porcherie».

Ivi, p. 202.

207 V. Ivanov, Dostoevskij, cit., p. 146. Vjăčeslav Ivanov, basandosi sull’antica tradizione gnostica

contrappone Lucifero, “spirito della ribellione”, “forza che serra le fila, divinizzazione della volontà individuale, ad un altro principio satanico, Ahriman”, “spirito della corruzione”, “forza che disgrega”, dissoluzione della individualità. Ahriman, nella religione zoroastriana demone e avversario di Dio, secondo una tradizione iranica, è il malvagio e maleodorante demonio della morte, della tenebra, della malattia, del sudiciume e del cibo infetto. Egli è l’antitesi del luminoso e profumato dio Ormuzd. Questi nomi erano spesso impiegati da Rudolf Steiner nelle sue opere antroposofiche, tuttavia Vjaceslav Ivanov ha tenuto a precisare che l’impiego da parte sua di tale terminologia non aveva nulla in comune con l’antroposofia. In una lettera a E. Müller Gangloff dell’11 giugno 1949 Vjaceslav Ivanov scriveva: «Ora mi rincresce di non aver dato un altro nome a Lucifero e Ahriman nel mio saggio su Dostoevskij (per esempio Lucifero e Letifero, da lètum, morte), affinchè nessuno dei miei lettori prendesse le mie considerazioni per una variazione della dottrina antroposofica sulle due entità che Rudolf Steiner contrappone l’una all’altra. Il mio pensiero diverge radicalmente da questa dottrina che ignora Satana e che non sembra dare per scontata la libertà iniziale dell’uomo creata da Dio». Cfr. V. Ivanov, M.O. Gersenzon,

Corrispondenze da un angolo all’altro, Aktis, Roma 1991, p. 78.

208 Proprio l’Inno alla gloria di quest’ultimo, come anche le sue parole sulla tristezza di Cerere di

fronte all’umiliazione dell’uomo (nella Festa di Elensi) egli non si stanca mai di ripetere come una preghiera.

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tristezza per la sua prigionia, per la sua bassezza, in continuo pentimento per i propri peccati.209

Questo sdoppiamento dell’individuo non ne contraddice l’unità che anzi è la sua caratteristica peculiare. Tale unità emerge proprio dal fatto che l’individuo, nello sdoppiarsi, soffre. Una persona non fortemente individualizzata non solo non si accorge neanche che la vita, gli uomini, le circostanze lo tirano con diversi fili da tutte le parti, come una specie di burattino. L’idea dello sdoppiamento non ha di solito il semplice significato di instabilità empirica della coscienza, ma un significato mistico di possessione. Il “doppio” è un tema mistico troppo ricorrente per non avere un ruolo nell’ambito del tema fondamentale. Anzi, è proprio tale figura a fornire una delle chiavi per la comprensione del rivolgimento interiore vissuto da Dmitrij Karamazov. In questo modo, la soluzione della crisi religioso- morale è una lotta tra i due principi che convivono nell’uomo.

E quello che attira l’uomo al delitto e a tutte le sofferenze ad esso connesse è qualcosa che ha un potere temporaneo, talvolta nefasto. Versilov, nel raccontare all’adolescente la sua prima impressione sull’Achmakova, dice apertamente che si è trattato del suo “fato”. Ma tale fatalità della forza tentatrice introdotta nell’uomo sotto l’aspetto di doppio o di passione magnetica non annulla la libertà umana. La libertà consiste proprio nel fatto che ciò che viene compiuto al di fuori della legalità può portare a due conclusioni: al radicamento dell’uomo nel suo delitto o al ravvedimento. Nell’ultimo caso, non solo la caduta conduce alla riabilitazione, ma si trasforma anche nello strumento della rinascita, nell’animo dell’uomo, in forma più salda e più ricca di ciò che prima era stato respinto. Nella singola anima umana si ripete in piccolo la storia religiosa dell’umanità.210

209 V. Ivanov, Dostoevskij, cit., p. 145.

210 Questo è il motivo che spiega la particolare inclinazione dostoevskijana per i traviati,

inclinazione che non deve essere trascurata quando si parla delle sue considerazioni sulla vita. Il gusto artistico e umano di Dostoevskij non è attratto dalle persone normali, equilibrate e morali, ma da quelle che recano segni profondi e cicatrici prodotte da ogni genere di trauma morale. La normalità, la costante serenità dell’animo nauseano il suo spirito. E la cosa peggiore è che sotto di essa si annida inesorabilmente qualche male nascosto, e in fondo a tutto, il male più orribile:

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La prima risposta all’interrogativo su quali siano le vie per ritornare alla legge morale in un primo momento respinta consiste nel riferimento alla coscienza della verità morale di tale legge, coscienza che vive in eterno nell’uomo, anche se viene temporaneamente soffocata, e che diviene ancora più viva nel momento in cui ne sono state respinte le basi non religiose. La legge della vita viene respinta ed infranta dallo spirito indagatore dell’individuo umano solo nel suo aspetto di regola imposta dall’esterno per poi rinascere sotto un’altra forma. Si comprende come nessuna spiegazione può dare l’etica ottimistica della bontà naturale né l’etica razionale sia eudemonistica che moralistica, né in generale alcuna etica: di fronte all’immenso problema della coscienza che si trova a un livello più originario e profondo, che è quello della lotta immane fra il bene e il male e della loro differenza, che nell’atto di dividersi vengono accomunati sotto il peso di una opprimente ambiguità.211

Con questi presupposti, si dovrà dunque accettare l’idea che l’umanità è da dividersi non fra buoni e cattivi, quanto piuttosto fra deboli e forti? E si dovrà, soprattutto, accettare il corollario che ne consegue, cioè che ogni etica della norma è fatta per i deboli, mentre i forti sono al di là del bene e del male? L’ambiguità si riempie di significato non appena una scelta suprema tagli il nodo e decida la drammaticità alternativa. È sconcertante che l’ambiguità stessa si sviluppi in due alternative assolutamente dissonanti: essa può irrigidirsi in una dialettica della