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21 L Šestov, cit., p 35.

X. V Ivanov: “agiologia”, “demonologia”

Con l’opera di Vjaceslav Ivanov -il quale, non a caso, si richiama a Rozanov- si assiste a un capovolgomento di prospettiva, al punto che il pensiero di Dostoevskij è trattato alla stregua di un sistema teosofico. Ma, nonostante questa pesante armatura, l’interpretazione di Ivanov165 , permette di liberare Dostoevskij da quello che stava diventando un luogo comune, cioè dalla sua appartenenza al novero degli autori maledetti e satanizzanti. In un suo libro su Dostoevskij. Tragedia, mito, mistica166, l’Ivanov riprende alcuni spunti di un suo primo saggio e fa notare che l’opera dostoevskijana non solo non si lascia catturare, pur rappresentandola, dalla «terribile letale pestilenza» in cui la ΰβρις della destrutturazione del senso e del valore spinge il soggetto a celebrare «l’apoteosi della propria mancanza di fondamento», ma, nel momento in cui la mette in scena, già la oltrepassa nella direzione del tragico: dove per tragico deve intendersi soprattutto il luogo della produzione e della sperimentazione del mito e di quella sua forma trascendentale, entro cui esso si produce, che è la lotta della luce e delle tenebre. Qui, la stessa caduta del senso, come esperienza radicale e non superabile dialetticamente, della lacerazione, dell’ambiguità, della doppiezza, resta ancorata, al suo controsenso.

Essere posseduti da un’immagine che si dissolve e tuttavia rimanda all’inesauribile deposito degli archetipi che presentano come esterna l’idea stessa

165 Ivanov si era occupato di Dostoevskij fin dai primi anni Dieci, con un saggio di notevole

importanza per quel che riguarda la successiva storia delle interpretazioni dostoevskijane in Russia: si pensi a Bachtin, che in quel saggio riconoscerà alcune anticipazioni delle sue tesi. Cfr. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica: «Per la prima volta la caratteristica strutturale di base del mondo artistico dostoevskijano è stata avvertita da Vjačeslav Ivanov, ma, a dire il vero, si tratta soltanto di un primo approccio. Il realismo di Dostoevskij è definito da Ivanov come fondato non sulla conoscenza (oggettuale) bensì sulla “penetrazione”. Formare lo “io” altrui non come oggetto ma come altro soggetto, tale è il principio della visione del mondo di Dostoevskij. Affermare l’altrui “io” –il “tu sei”- è, secondo Ivanov, il compito che gli eroi di Dostoevskij devono superare, il proprio solipsismo etico, la propria “idealistica” coscienza superata» (Ibidem, p. 17).

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V. Ivanov, Dostoevskij: Tragödie-Mythos-Mystik, J.C.B. Mohr, Tubinga 1932; trad. it.

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di dissoluzione, essere valutati da una misura che non c’è o che è venuta a mancare ma proprio perciò sovrasta paradigmaticamente la propria assenza, essere assaliti da una speranza che è tolta ma insieme affidata alla disperazione, che appunto la conserva: questo il tragico. Questo il tragico secondo Ivanov, sul suo rapporto con il pensiero contemporaneo: liberandolo, Dostoevskij indica l’alternativa a quella che sarebbe, invece, l’inevitabile conclusione nel solipsismo idealistico, che non è altro, secondo Ivanov, che «nichilismo».167

Qual è la collocazione dell’ermeneutica nel sistema generale dell’opera di Ivanov? Quali sono le particolarità del metodo ivanoviano di interpretazione di Dostoevskij? Più facile è rispondere alla prima domanda, tenuto conto del fatto che in uno degli ultimi saggi di Ivanov noi troviamo in questa prospettiva una dichiarazione illuminante: «E la nostra comprensione vera d’un capolavoro consiste nel vivere dentro di noi quell’atto che dopo averla procreata continua ad animare l’opera che spira, e spande attorno a sé l’alito e il ritmo della sua vita arcana».168

E così l’interpretazione è un proseguimento della creazione e, quando l’ermeneutica è vicino all’atto creativo iniziale (è proprio così nel libro di Ivanov su Dostoevskij), essa è un proseguimento della di lui opera originale. Analizzando il saggio ivanoviano si scoprirà nella definizione della particolarità del realismo ontologico di Dostoevskij o nell’analisi della demonologia la presenza del principio etico, estetico e teologico centrale, proprio, del poeta stesso alla cui definizione è dedicato l’articolo Tu sei del 1907 e successivamente il poema Uomo degli anni 1915-1919. La risposta alla questione relativa alla particolarità

167 Il fondamento filosofico della prospettiva che Ivanov sviluppa da Dostoevskij risiede

nell’intuizione interiore di Dio, la quale consentirebbe appunto il superamento di quella forma di interiorità senza Dio rappresentata dal «nichilismo solipsistico». Scrive Ivanov: «L’uomo coglie Dio in se stesso. O il mio cuore mente, o il Dio-uomo è la verità (…) La quale attesta ciò che io sento, in me e intorno a me per mezzo di un oscuro presagio, come essenziale» (Ibidem, p. 24).

168 Una serie di essenziali categorie estetiche di Dostoevskij coincide effettivamente con le

categorie estetiche di Ivanov come ha mostrato in modo convincente Victor Terras in The

Metaphisics of the Novel. Tragedy: Dostoevskij and Vjaceslav Ivanov, in Russianness. Studies on a

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del metodo interpretativo ivanoviano è rintracciabile in modo esplicito nei titoli delle prime due parti del libro: prendendo in esame immagini e significati dei testi di Dostoevskij, l’Ivanov aspira ad individuare e mostrare il principio della tragedia ed il mito che ad esse sottostanno. Nella terza parte Ivanov pone la questione della natura del diavolo e dell’ideale di Santità per Dostoevskij. La sua interpretazione tende a combinare gli aspetti filologico e filosofico-religioso. Secondo l’Ivanov tragica è la visione del mondo stessa di Dostoevskij, giacché la vera tragedia è possibile non ai livelli bassi dell’essere (il piano degli accadimenti esteriori della vita quotidiana, il piano psicologico), ma solo sul loro piano più alto, in determinati momenti critici (di crisi), quando tutta la vita si apre alla luce del fulmine: solo allora l’uomo agisce come una personalità compiutamente libera decidendo quale parte nel dramma metafisico egli debba sostenere, quella di Dio o quella dei suoi nemici. La speculazione di Dostoevskij nelle sue opere si solleva fino alla massima tragedia metafisica, fino alla diretta contemplazione della realtà superiore, dell’Ens realissimum. Tuttavia, occorre enumerare tutte le possibilità che offre all’interpretazione dei romanzi di Dostoevskij il loro confronto con la tragedia attica. Il punto più alto di questa tragedia, erede del rito purificatorio dionisiaco, è la catarsi, la purificazione dell’eroe. Se si accetta la tesi ivanoviana sulla presenza del principio della tragedia nei romanzi di Dostoevskij, allora è possibile applicare all’interpretazione di questi romanzi la categoria della catarsi.

Ma alla stessa tesi, l’Ivanov giunge attraverso l’interpretazione del loro contenuto in prospettiva filosofico-religiosa. Certo un fatto è vedere nella tematica e nelle idee di Delitto e castigo il tema della morte spirituale e della resurrezione di Raskol’nikov. Un altro fatto è invece vedere come la struttura stessa, la forma del romanzo con tutto il suo intreccio di cause-effetti conduca il romanzo al suo punto più alto, alla purificazione ed alla salvazione dell’eroe, e altro ancora è notare che questo punto più alto della narrazione corrisponde alla catarsi finale della tragedia antica. Sotto una luce del tutto particolare cade l’episodio catartico di Delitto e castigo quando l’ermeneuta mostra che nei tempi arcaici la

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purificazione catartica era sentita in «senso puramente religioso come illuminazione beatificante e pacificazione dell’anima» nel servizio di Dioniso che senso religioso e destinazione della catarsi «era la restaurazione della norma trasgredita dei rapporti reciproci tra la personalità e gli dei celesti e attraverso di loro la cittadinanza civile sottomessa ai loro comandamenti».169

Nell’ultimo caso il dramma della libertà, del compimento, della vittima e del pentimento, che si sviluppa davanti a Raskol’nikov, acquista già dimensioni del tutto diverse, attribuendo nell’ultimo caso all’interpretazione tratti propriamente contenutistici. Dallo studio di Dostoevskij attraverso il prisma della religione arcaica, l’Ivanov dedusse la tesi sul «dionisismo» dello stesso Dostoevskij.170

La tesi che Dostoevskij giunga all’affermazione religiosamente fondata della realtà ontologica dell’altro, “tu sei”, è una delle tesi principali del libro di Ivanov. Essa è riportata brevemente nella prefazione del libro: «La concezione del mondo di Dostoevskij si presenta come una specie di realismo ontologico, costruito sopra una auto-identificazione mistica con l’Io estraneo, come una realtà fondata nell’Ens realissimum». Trasferita nella sfera etica e filosofica la formula “tu sei” risulta un principio dialogico. Il quadro antropologico di Dostoevskij, secondo l’Ivanov, è inquietante perché l’uomo che egli descrive, l’uomo contemporaneo, è disarmonico, scisso tra opposte esigenze che cercano e non trovano la loro sintesi. Soprattutto nei Fratelli Karamazov l’Ivanov individua un disegno abbastanza completo dell’antropologia dostoevskijana, la quale non descrive l’uomo eterno e paradigmatico ma l’uomo storico nella realtà delle sue

169 Secondo l’Ivanov, lo scrittore, condannato a morte per la partecipazione al circolo di

Petraševskij, sperimentò una sorte di morte spirituale e di nuova nascita che nella lingua della religione dionisiaca è possibile chiamare «partenza e ritorno, individuazione e sua dissoluzione», nella lingua dei mistici medievali «morte della personalità». Questa rinascita interiore della personalità condizionò l’unicità e l’originalità dello scrittore, la particolarità del metodo artistico del suo realismo «superiore», simbolico o ontologico (secondo la terminologia di Ivanov), la scrittura architettonica del mondo artistico da lui creato. Prima conseguenza di questa rinascita «dionisiaca», secondo Ivanov fu che Dostoevskij scoprì il miracolo della penetrazione dell’io altrui. (v. seconda parte, cap. I).

170 Con questo schema, ad esempio, la soluzione dell’Idiota è l’amore per gli uomini di Myškin,

quella dei Fratelli Karamazov il messaggio religioso di Zosima, raccolto da Alëša, quella dei

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contraddizioni. Questo quadro dell’uomo lo si ottiene non già considerando alcune figure demoniache (Mitja, Ivan, Smerdjakov) o angeliche (Alëša, Zosima, il fratello di Zosima), ma avendo presente l’intero dramma della famiglia Karamazov. Nel destino di questa famiglia, nella personalità del padre e dei suoi quattro figli, in tutto ciò che ruota intorno a queste cinque persone in cui si incarnano aspetti diversi dell’uomo, si deve ravvisare il quadro completo dell’uomo. Troppo spesso l’Ivanov semplifica il proprio compito e si lascia sedurre da uno schema semplicistico, senza scavare in profondità per saggiare la reale consistenza di quello schema. Tale semplificazione consiste nell’applicare alle tragedie di Dostoevskij la seguente astratta formula: ogni tragedia dostoevskijana descrive l’itinerario di un errore, ne addita le conseguenze funeste e fa intravedere la soluzione positiva.171

Tale impostazione ivanoviana a tendenza “edificante”, che interpreta la problematicità solo come esperienza dell’errore, come descrizione della malattia nichilistica, come crisi di un’epoca corrotta e smarrita, senza scorgere in essa altro valore che quello d’essere la zona di oscurità che dà risalto alla luce, ha una verità apparente. I Fratelli Karamazov costituiscono un attento rilievo topografico dell’animo umano, un grande dramma antropologico dal quale emergono tutte le forze da cui è composto l’uomo. «Quali sono queste forze che nel loro insieme rappresentano l’uomo?» -si chiede Ivanov- Esse sono il senso, l’intelletto e l’amore, che si incarnano, in varie forme e proporzioni, nei diversi componenti della famiglia Karamazov.

Alëša, l’uomo chiaro, angelico, ritrova nell’umanità molto amore «quasi simile all’amore di Cristo»; Ivan, l’oscuro, il demoniaco, invece di questa traccia divina scorge nell’uomo la traccia beluina. Il grande disegno antropologico di Dostoevskij, il suo quadro dell’uomo, secondo l’Ivanov, non sarebbe completo senza la descrizione dal punto di vista terrestre di Ivan. L’antropologia di Dostoevskij è un quadro completo in cui l’uomo compare con tutte le sue

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antinomie, con tutti i suoi valori e disvalori, accettato nell’infinita ampiezza dei motivi che lo compongono. Alla fenomenologia dell’uomo appartengono in egual misura, secondo Ivanov, Mitja, Ivan e Alëša.

Però, se si vuol essere criticamente rigorosi, bisogna dire che mentre Alëša, come Myškin, rappresenta il dover essere dell’uomo, la chiarezza sognata, la luce ideale, l’esistenza storica dell’uomo è assai più vicina a Mitja e a Ivan, all’oscurità del senso, della passione, dell’intelletto, incapace di elevarsi fino alle vette etiche cui pervengono gli spiriti chiari come Alëša, Myškin, Zosìma. In Ivan l’affermazione ateista, il punto di vista euclideo, è vissuto con tale passione da esser prossimo, forse, spiega l’Ivanov, a convertirsi nel suo opposto. «L’ateismo di Ivan è problematico e profondo fino alla possibilità di un’inversione nel senso opposto».172

L’amore nelle sue forme più primitive è desiderio irresponsabile, impulso cieco, Trieb impersonale che mira al soddisfacimento. L’amore si rischiara, si obiettiva, si espande, ascendendo a forme spirituali in cui diviene consapevole di sé e degli oggetti cui si dirige. In queste forme più alte l’amore è ricco di contenuti intellettuali, è comprensione non immediata e sentimentale ma attraversata dalla mediazione e dall’esercizio. Che cos’è “l’intelligenza primaria” di Myškin, la saggezza di Zosìma, l’apostolato laico di Alëša, se non questo amore in cui è stata soffiata appunto l’intelligenza primaria e cioè un’intelligenza libera da tutte le schematizzazioni che l’intelletto adopera?173

La posizione degli uomini come Zosima, Myškin o Alëša è singolare. Spiriti chiari in un mondo avvolto di tenebra e di equivoco mistero. Spiriti fermi, decisi, equilibrati in un mondo dove nulla sta fermo e tutti sono agitati e irrequieti. Essi, mostra l’Ivanov, sono necessari al mondo nel quale vivono e il mondo nel quale sono gettati è necessario ad essi, così come due termini dialettici sono in un rapporto di polarità tra di essi. In Alëša v’è qualcosa dell’angelo divenuto uomo in

172 Ibidem, p. 126. 173

Ivanov accentua sempre il senso mistico dei testi dostoevskijani. In Alëša egli vede realmente il “cherubino”, l’inviato da Dio, il profeta, il salvatore.

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carne ed ossa,174 o, meglio, dell’uomo in cui si scorgono tratti angelici. Il suo legame con la chiesa e con la religione istituzionale, sebbene non dogmatico, è stretto. L’Ivanov è riuscito a ritrarre felicemente gli elementi caratteristici della posizione di Alëša nel mondo: «…privo di qualsiasi pretesa e desiderio per sé, lontano come un uomo veramente libero dalla generale malattia del suo tempo, l’egoismo e nello stesso tempo integro e incorruttibile: un giovinetto che non si spaventa né di fare un passo indipendente nella vita, né di apparire ridicolo agli occhi degli uomini, né di una vicinanza tentatrice, né di un mutamento pieno di fatali conseguenze nelle circostanze della vita, né davanti a un pensiero velenoso che ponga alla prova le sue più profonde convinzioni religiose».175

Questa mancanza di rilievo e di formato del personaggio angelico ha un suo significato profondo. Nell’orizzonte morale la figura purissima di Alëša emerge su quella degli altri componenti della famiglia Karamazov. In fondo Alëša costituisce la controfigura di Ivan. Figli della stessa madre e dello stesso padre, essi sono necessari l’uno all’altro, come la domanda e la risposta, la ribellione e il suo superamento.

Dostoevskij, secondo l’interpretazione che l’Ivanov ne offre, si trova nella sfera di pensiero di Barth e di Kierkegaard, e tutte le opere hanno un significato religioso e descrivono la condizione dell’uomo in una vita che, all’infuori del suo riferimento con il Dio sconosciuto, è necessariamente problematica e demoniaca. Dostoevskij getta il suo sguardo nel caos e mostra l’uomo sperso, miserabile, colpevole, contraddittorio, soprattutto quando è invaso dal demone del prometeismo e del titanismo. Eritis sicut Deus: ecco il titanismo dell’idea, la bestemmia, la trasgressione dei limiti che separano il cielo dalla terra, la seduzione dell’uomo-Dio. Il fine dell’uomo non è su questa terra e il Dostoevskij di Ivanov, dopo avere descritto la protervia e la miseria dell’uomo, fa irradiare dalle sue opere una luce misteriosa, non più terrena. L’opera di Dostoevskij

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Ibidem, p. 126.

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avrebbe dunque una funzione maieutica e il suo insegnamento coinciderebbe con le verità ultime della Bibbia. Se Dostoevskij ha sezionato in modo implacabile tutta l’ingenua immediatezza della natura umana, scoprendo sotto le lustre ingannevoli della morale, dell’estetica e della religione, i tratti ferini di una umanità senza presupposti, egli è importante, secondo l’Ivanov, non per il radicalismo delle sue negazioni ma per l’affermazione ancora più grande che sorge da queste negazioni.

L’interpretazione di Ivanov è satura di metafisica e di teologia e ripercorre il mondo di Dostoevskij con una intenzionalità polemica per configurarlo secondo un ordine mentale preordinato. Dostoevskij, anche se intriso di inconsapevoli motivi kierkegaardiani, fu storicamente l’apologeta della chiesa ortodossa russa e non già del protestantesimo alla Kierkegaard od alla Barth.

Le figure positive di Dostoevskij, da Alëša a Myškin, a Zosìma, sono figure di uomini saldamente legate al mondo, la cui innegabile religiosità, dai toni dolci ed umani, appare assai lontana dall’atmosfera apocalittica e tragica dei teologi della crisi. L’Ivanov interpreta la problematicità di Dostoevskij unicamente come una fenomenologia del peccato ma non intende il significato positivo di questa stessa problematicità. Se Dostoevskij svaluta la ragione e la scienza è per il dogmatismo insito nella ragione e nella scienza del suo tempo. Attraverso la sua opera egli volle proteggere la delicata complessità del vivente, e protestare contro la pretesa di semplificare astrattamente l’uomo riducendolo ad un anello casuale ed insignificante di una catena deterministica. Sotto questo profilo, la sua opera si può avvicinare al vitalismo antintellettualistico di Bergson. Intendere l’opera di Dostoevskij come una introduzione alla rivelazione, come un preludio all’escatologia, significa deformarne il problematicismo in un duplice senso: dal basso, per così dire, rendendo ancora più tetra, inquieta, torbida, esasperante la raffigurazione dell’uomo; dall’alto, giustificando paradossalmente questo problematicismo nella mistica irrazionale del Dio sconosciuto.

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CAPITOLO II