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Filosofia e Letteratura: H Hesse, A Gide, S Zweig S Freud: Dostoevskij e il parricidio.

21 L Šestov, cit., p 35.

IV. Filosofia e Letteratura: H Hesse, A Gide, S Zweig S Freud: Dostoevskij e il parricidio.

Gli anni dell’immediato dopoguerra segnano una nuova svolta nella storia delle interpretazioni dostoevskijane. Traduzioni dell’opera completa come quella a cura di Moeller van der Bruck, ma anche traduzioni di saggi fortunati (Šestov, Merežkovskij) si accompagnano a prese di posizione sempre più ricorrenti da parte di poeti e scrittori, sollecitando interventi spesso clamorosi ma in fondo, occasionali e datati. Questa tendenza vistosamente riduttiva è riscontrabile in alcuni dei poeti e degli scrittori che in quegli anni non mancarono di confrontarsi con F. Dostoevskij. È possibile affermare, però, che in alcuni di essi il presentimento della portata dell’opera dostoevskijana scavalca senz’altro il piano di un discorso meramente espressivo del gusto di un’epoca. Lo attesta, tra l’altro, il prepotente affiorare di costellazioni concettuali che il precedente lavoro ermeneutico aveva individuato, ma non ancora divulgato o addirittura, come s’è veduto, lasciato cadere. In un’opera pubblicata a Berna nel 1920, Hesse raccoglie due saggi dostoevskijani, dedicati rispettivamente all’Idiota ed ai Fratelli Karamazov.48

La prospettiva si presenta spengleriana; ma sembra evidente che, se Hesse vi si avvicina, è per forzarla in una direzione che ne liquida senz’altro i presupposti.

Leggere Dostoevskij, osserva Hesse, significa infatti prendere atto che i termini «declino dell’Europa», «crisi dell’Occidente», e «destino della civiltà» -il riferimento a Spengler risulta evidente, anche se inesplicitato, e del resto la stesura di questi due saggi è immediatamente successiva alla lettura da parte di Hesse della prima parte del Tramonto dell’Occidente- esigono per essere compresi altre

48 Givone riferisce che i due saggi citati (Gedanken zu Dostojewskjs «Idiot» e Die Brüder Karamazoff oder der Untergang Europas), entrambi scritti nel 1919, si trovano ora nel vol. VII, Betrachtungen und Briefe, delle Gesammelte Schriften, Frankfurt a. M 1957. S. Givone, cit., p. 34.

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categorie che quelle di «ciclo» e di «processo», le quali appartengono ad un quadro teorico ancora influenzato dal positivismo e comunque scompaginato proprio da ciò che l’opera dostoevskijana porta in primo piano. Ciò che viene maggiormente messa in questione è l’idea stessa di tempo, sulla base del riconoscimento del carattere epocale della storia: idea, questa, sottoposta da Dostoevskij ad una specie di verifica paradossale ed estrema, attraverso la saldatura di esperienza auratica della intemporalità e di esperienza escatologica della fine del tempo. Ne risulta una concezione del «ritorno» non organicistica ma semmai naturalistica, che punta direttamente all’origine, nel cono di una luce micidiale. Luce auratica e apocalittica -«il tempo non ci sarà più»-, ma d’una apocalisse infera, rovesciata, regressiva: si tratta infatti del disvelamento dell’inizio e non della fine, dell’accettazione del disordine e non del compimento del senso, dell’abbandono al passato remoto (che è intemporale e dissipatamente produttivo come l’impeto sotterraneo della natura) e non dell’attesa del futuro anteriore (che è l’intemporale, chiuso in se stesso, accartocciato alla maniera del cielo dell’ultimo giorno). Se Muškin si consegna all’inconscio, alla follia, all’animalità è per ritrovare nel «fango primigenio» la possibilità di «ricominciare daccapo a creare, a valutare, a dividere il mondo», e se i Karamazov e la loro «sostanza spirituale ancora informe», si consumano nella «forma» in cui si può soltanto morire e non vivere, è, sembra concludere Hesse, per riaprire la via verso «l’Asia, le sorgenti, le madri».49

Anche André Gide ha notato questo «rifiuto di concludere» derivante in Dostoevskij da «un bisogno di lealtà del suo spirito». Gide appartiene a quei critici che ammirano in Dostoevskij soprattutto la reazione alla psicologia geometrica e cartesiana dell’occidente, che semplifica ed impoverisce la realtà complessa e contraddittoria dell’uomo. Dostoevskij ci rivela le ambiguità, le oscillazioni, le antinomie della personalità; attraverso le sue rivelazioni, la topografia dell’anima umana si arricchisce e si complica, la scala gerarchica dei

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valori muta profondamente e non si lascia più comprendere se non da uno sguardo ammaestrato dalla dialettica che trasmuta i valori e ne scorge le radicali antinomie.

A Dostoevskij Gide si era accostato fin dagli anni Dieci, con due articoli sul «Figaro»; ma di particolare rilievo è la conferenza da lui tenuta al Vieux- Colombier, nell’arco delle celebrazioni del centenario dostoevskijano, nel 1921.50

Sembra che Gide vi ribadisca la tesi dell’atteggiamento sperimentale che Dostoevskij assumerebbe programmaticamente, ma per trasferirlo in ciascuno dei suoi personaggi: i quali, appunto, sperimentano, saggiano, portano all’estremo quella che in definitiva è la disperazione di Dio. Il movimento è dialettico: giacché, dice Gide, Dio lo si incontra all’estremità del suo abbandono, dove la fede negata è ripresa dalla parte della sua stessa negazione.

È per questo, ad esempio, che Dostoevskij mette il superuomo in rapporto – sia nel senso dell’inciampo nella propria contraddizione, sia nel senso dell’apparizione del proprio doppio- non con la volontà di potenza, bensì con la volontà di patimento, di dissipazione, addirittura di peccato. Gide fa osservare come Raskol’nikov trovi nel miserabile Marmeladov il suo unico, autentico interlocutore, quello capace di dirgli: «Ma voi sapete cosa significa non saper più dove andare?»; accade che Zosima s’inginocchi davanti a Dmitrij; accade che Tichon veda Stavrogin caricato di sventura più che di colpa. Questo per esprimere che il «demonismo dostoevskijano è di fatto al di là di se stesso: non, dunque, un praticare la negatività in senso costruttivo e progressivo, bensì un mettersi dalla sua parte con disperata speranza, fino all’esaurimento di tutte le vie della negazione».51

50 A. Gide, Dostoevskij, Plon, Paris 1923. Anche Gide, per quel che riguarda l’aspetto più

propriamente filosofico della sua interpretazione, muove dal confronto Dostoevskij-Nietzsche. Secondo Gide, la questione centrale intorno a cui ruota il pensiero dell’ultimo Nietzsche- non chi è l’uomo, ma cosa può- è già posta da Dostoevskij e da lui sviluppata conseguentemente. (Ibidem., pp. 183 sgg).

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«Chez Dostoevskij, en effet, nulle pose, nulle mise en scéne. Il ne se considére jamais comme un surhomme; il n’y a rien de plus, humblement humain que lui; et meme je ne pense pas qu’un esprit orgueilleux puisse tout è fait bien le comprendre (…) Les quelques vèritès d’ordre psychologique et moral que les livres de Dostoevskij, vont nous permettre d’aborder me paraissent de vans paraitre paradoxsales si je les abordais de front. J’ai besoinde prècautions».52

I Fratelli Karamazov costituiscono appunto un attento rilievo topografico dell’animo umano, un grande dramma antropologico dal quale emergono tutte le forze da cui è composto l’uomo. «Quali sono queste forze che nel loro insieme rappresentano l’uomo?» si è chiesto Zweig. «Essi sono il senso, l’intelletto e l’amore, che si incarnano in varie forme e proporzioni, nei diversi componenti della famiglia Karamazov». Il volume che Zweig dedica a Dostoevskij fu pubblicato nel 1920.53

In esso si sostiene che «demoniaco» e «tormento di Dio» sono tutt’uno in Dostoevskij, e sono cioè il risultato della rottura più radicale dell’orizzonte della fede positiva come luogo di ricomposizione e di riconciliazione. «In Dostoevskij – scrive Zweig- la antitesi è permanente, l’unità è distrutta, l’oscillazione è insaldabile. È il demonio che tormenta l’uomo con l’idea di Dio, ma per lasciarlo senza risposta».54

«Io non so se Dio esista o no»,55 esclama l’infernale parassita apparso a Ivan Karamazov. Dostoevskij resta «inchiodato alla croce della sua incredulità» e, se si professa credente, la sua non è che «un’umile menzogna», mentre la sua parola più autentica è da lui detta là dove osa affermare il primato della «vita» sul «senso della vita».56

52 Ivi, p. 102.

53 S. Zweig, Drei Meister, Frankfurt a. M. 1920; trad. it. Tre Maestri. Balzac, Dickens, Dostoevskij, Bompiani, Milano, 1968 da cui si cita.

54 Ibidem, p. 104.

55 F.M. Dostoevskij, Brat’ja Karamazovy, Zarogodnij, Moskva 1879-1881; trad. it. di N. Cicognini

e P. Cotta, I fratelli Karamazov, Mondadori, Milano 1994, p. 818.

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Difatti il «segreto di Dostoevskij», il suo cercare un Dio che non trova, sta tutto nell’affermazione d’un sempre inconcluso differimento dell’esperienza, che proprio in quanto tale attesta come tutto ciò che è in ogni momento ha nel fatto di essere, qui ed ora e non altrove, la sua ragione, e dunque è degno di esistenza, di amore, di vita. Il che significa: Dostoevskij, predicatore cristiano, di fatto compie il passo decisivo verso il superamento del cristianesimo.57

(Tesi, questa, che Zweig sostiene sul filo della contraddizione: egli procede, infatti, secondo uno schema ampiamente usato da molti degli interpreti di Dostoevskij, a quella unilaterale demonizzazione di Dio che proprio in base al riconoscimento del carattere ancipite del pensiero dostoevskijano dovrebbe in realtà escludere). Trova ulteriore conferma la linea delle interpretazioni dostoevskijane che nell’opera dello scrittore intravedono l’affacciarsi di una forma liminare e precaria di nichilismo tragico, nella direzione che, come s’è veduto, va da Šestov a Lukàcs e oltre. Esemplare, a questo proposito, il caso di S. Freud; il quale, intorno alla metà degli anni Venti, in un saggio su Dostoevskij e il parricidio58 di grande risonanza, non esita a dirsi tentato di «annoverare Dostoevskij tra i delinquenti». Per Freud, possono distinguersi in Dostoevskij quattro aspetti: lo scrittore, il nevrotico, il moralista, il peccatore. Di questi, Freud, che giudica grandissimo il valore dello scrittore, considera, in particolare, solo il secondo, mentre per il “moralista” ed il “peccatore” ha accenni brevi e discutibili, da cui trarrà origine una interessante polemica con Theodor Reik.59

57 Lo compie, cioè, nel caso della messa in chiaro delle condizioni d’un pensiero che si colloca al

di là del problema di Dio, in quanto problema dell’”Unità” metafisica o del senso ultimo di tutte le cose: ciò che Dostoevskij appunto, secondo Zweig, rende impensabile. Zweig chiama Dostoevskij «il grande distruttore dell’unità». (Ibidem., p. 171).

58 Il saggio di Freud è stato pubblicato per la prima volta nel 1927; Dostoevskij und die Vatertötung, prefazione all’edizione tedesca de: I fratelli Karamazov, a cura di R. Füllöp-Miller e

F. Eckstein, München 1928; trad. it. di S. Daniele, Dostoevskij e il parricidio, in: Freud, Sigmund,

Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978, p. 124.

59 Reik aveva giudicato troppo severe le riserve fatte da Freud sulla moralità di Dostoevskij e non

era d’accordo col contenuto del terzo capoverso del saggio. Freud rispose a questa critica con una lettera (si veda S. Freud, Lettere 1873-1939, lettera a Reik del 14 aprile 1929).

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«L’aspetto più aggredibile in Dostoevskij è quello etico. Se lo si vuole esaltare come uomo morale con l’argomentazione che soltanto chi ha toccato il fondo estremo del peccato può raggiungere il grado più alto della moralità, si trascura una riflessione: morale è colui che già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, senza cadervi. Chi alternativamente pecca e poi, una volta in preda al rimorso, avanza alte pretese morali, si espone al rimprovero di fare i propri comodi (…) L’ammenda diventa una pura e semplice tecnica volta a rendere possibile il delitto».60

Considerare Dostoevskij un peccatore o un delinquente provoca una violenta opposizione, che non si fonda necessariamente sulla valutazione filistea del delinquente. Il motivo reale dell’opposizione, scrive Freud, si fa presto evidente: i due tratti essenziali del delinquente sono l’egoismo illimitato e la forte tendenza distruttiva; «elemento comune a questi tratti, e premessa alle loro manifestazioni, è la mancanza di amore, l’assenza di apprezzamento affettivo degli oggetti».61

Ci si domanda da dove proviene la tentazione di annoverare Dostoevskij tra i delinquenti. Secondo l’autore del saggio, la scelta del materiale operata dal narratore, il quale predilige ad ogni altro caratteri violenti, assassini, egoisti, indica l’esistenza nel suo intimo di tali tendenze. Freud osserva che «la fortissima pulsione distruttiva di Dostoevskij si dirige nella sua esistenza principalmente contro lui stesso e si esprime perciò in forma di masochismo e di senso di colpa».62

Il parricidio costituirebbe la fonte principale del senso di colpa, l’origine psichica della colpa e del bisogno di espiazione. In Delitto e castigo, Dostoevskij sembra anticipare la teoria freudiana formulata nel saggio del 1916. Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico, secondo la quale si avrebbe, in alcuni casi, un nesso di casualità tra senso di colpa e commissione dei delitti.

60 Ibidem., p. 65. 61 Ibidem. 62 Ibidem, p. 63.

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Dostoevskij lascia intendere che l’omicidio descritto in Delitto e castigo sia stato commesso da Raskol’nikov al fine di dimostrare che la morale esisterebbe soltanto per le persone comuni, mentre le nature dominatrici (che opererebbero per il bene dell’umanità), avrebbero il diritto di compiere dei crimini per creare qualcosa di migliore rispetto alla realtà esistente.63

Ma leggendo il romanzo in chiave psicoanalitica, è possibile individuare un diverso movente dell’omicidio di Raskol’nikov. Questo movente, profondo, sincero, svincolato da costruzioni intellettualizzate, è il bisogno di punizione che nasce dal senso di colpa del protagonista. Dostoevskij non fa mai riferimento esplicito ad un nesso causale tra senso di colpa e commissione dei delitti. Per di più, in un frammento dei taccuini degli anni 1872-1875, sembrerebbe escludere una sorta di determinismo nei delinquenti.64

Tuttavia, in Delitto e castigo, egli menziona ripetutamente un sentimento inconscio e indefinito che spinge il protagonista del romanzo a compiere il delitto, come se fosse mosso da una forza misteriosa. È possibile identificare questo sentimento indefinito, alla luce delle scoperte della psicoanalisi freudiana, con il senso di colpa che induce alla commissione di delitti. Questa tesi, anche se espressa in forma dubitativa, sembra essere condivisa da Roberto Speziale- Bagliacca, il quale si domanda se Dostoevskij avesse “spianato la strada” a Freud per l’intuizione di un nesso di casualità tra senso di colpa e delinquenza.65

In Delitto e castigo esistono tre diversi livelli di profondità delle motivazioni del criminale: il livello più superficiale è quello utilitaristico, il secondo livello è quello ideologico-intellettualistico ed il livello più profondo, che viene dal subconscio, è costituito dal desiderio del dolore. La spinta verso il dolore si lega nel profondo con un preesistente sentimento di colpa, che è a sua

63 F.M. Dostoevskij, Prestuplenie i nakazanie, Zarogodnij, Moskva 1866; trad. it. di G. Kraiski, Delitto e castigo, Garzanti, Milano 1989, pp. 291-292.

64 F.M. Dostoevskij, Taccuini degli anni 1872-1875, in F.M. Dostoevskij, Saggi, Mondadori,

Milano, 1997, p. 334.

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R. Speziale-Bagliacca, Colpa. Considerazioni su rimorso, vendetta e responsabilità, Astrolabio- Ubaldini, Roma 1997, p. 42.

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volta collegato ad una inconscia necessità di punizione. Tali concetti, che rivestono un ruolo considerevole nella psicologia del profondo, sono già tutti espressi in Dostoevskij nella loro sostanza, anche se non nella formulazione che verrà ad essi data dalla psicoanalisi. Il senso di colpa, che è già presente prima di commettere il delitto, e la necessità della punizione inducono il criminale al compimento del reato.

Scrive Freud: «La simpatia di Dostoevskij per il criminale è senza limite, supera assai i confini della compassione alla quale l’infelice ha diritto. Il criminale è per lui quasi un redentore che ha preso su di sé la colpa, che in caso contrario sarebbe toccato agli altri portare».66

Il delinquente, però, al contempo, si sente spinto a dare sfogo al fortissimo senso di colpa preesistente (che, nella sua vaghezza, diviene sempre più insopportabile) tramite il delitto ed a consegnarsi, senza essere in grado di spiegare né la ragione, né la finalità del suo comportamento, ai tormenti della pena. Il senso di colpa di Dostoevskij si manifesterebbe, secondo Freud, come una pulsione distruttiva che, se in certi casi conduce alla delinquenza perché viene rivolta verso l’esterno (sotto forma di sadismo), nel caso dello scrittore russo si rivolgerebbe soprattutto verso l’interno (sottoforma di masochismo). Il senso di colpa di Dostoevskij spiegherebbe anche la sua posizione politico-reazionaria e quella religiosa. Per Freud, infatti, lo zar, da un lato, Dio, dall’altro, avrebbero rappresentato per Dostoevskij dei sostitutivi della figura paterna punitrice.

D’altro canto, al saggio freudiano non sono mancate critiche. Tra le tante si segnala quella dell’allievo e amico di Freud, Theodor Reik, il quale, nel paragrafo dedicato allo scrittore russo del volume Thirty years with Freud accusa il suo maestro di aver sottovalutato la grande conoscenza di Dostoevskij della mente umana. Freud avrebbe dovuto rivalutare l’acume psicologico di Dostoevskij e

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avrebbe dovuto riconoscere nello scrittore uno dei più grandi precursori della psicoanalisi.67

Ciononostante, nella lettera a Theodor Reik del 14 aprile 1929, Freud replica all’allievo che l’acume di Dostoevskij non andava oltre la vita psichica anormale e che la sua rinuncia pessimistica a qualsiasi forma di un futuro migliore gli risulta irritante.

Anche Magda Campbell68, commentando la lettera di Freud a Theodor Reik, insinua che il padre della psicoanalisi fosse invidioso di Dostoevskij. In ogni caso, qualunque fosse il sentimento di Freud nei confronti di Dostoevskij, è innegabile che la psicoanalisi ha fornito uno strumento di lettura delle opere dello scrittore russo che ne esalta la grandezza. Le teorie freudiane, difatti, consentono di mettere in luce, accanto agli indubbi pregi artistico-letterari, gli aspetti psicoanalitici degli scritti di Dostoevskij, che ne fanno se non un precursore della psicoanalisi, almeno un prefiguratore di alcune importanti teorie.

67 T. Reik, The study on Dostoevskij. In: T. Reik, Thirty years with Freud; trad. ingl. di Richard

Winston, New York, International Universities Oress, 1949.

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M. Campbell, Dostoevskij and Psychoanalysis. In “Transactions of the Associations of Russian – American Scholars in U.S.A. 5 (1971).

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