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sconforto si uccide buttandosi dalla finestra Il breve racconto ritrae la tragedia degli uomini soli,

incapaci di comunicare nell’amore. «Gli uomini sulla terra sono soli, ecco il male!» esclama il protagonista. «Tutto è morto, intorno non c’è che la morte. Gli uomini sono soli e intorno è il silenzio, ecco che cos’è la terra. “Amatevi l’un l’altro”, ha detto qualcuno. Chi? Di chi sono queste parole?» F.M. Dostoevskij, Krotkaja, pubblicato sul settimanale “Grazdanin”, nella rubrica:

Dnevnik pisatelja [Diario di uno scrittore], Moskva 1877, trad. it. di B. del Re, La mite,

Bompiani, Milano 1984, p. 32.

342 A proposito della categoria del sottosuolo ha scritto Grossman: «Questa formula risuona nei

suoi scritti solo a partire dal 1864, ma si presenta già in Goljadkin, Ordynov, Opiskin. In sostanza, l’uomo del sottosuolo è uno spirito che si è isolato dalla vita e dagli uomini, oppure un carattere torturato dalla vita che a sua volta diviene torturatore e si fa beffe delle cose belle e alte, respingendo tutte le grandi idee percorritrici come astratte ed impotenti ed apportargli un utile qualsiasi. I motivi delle Memorie dal sottosuolo sono immediatamente ripresi nelle riflessioni di Raskol’nikov, Svidrigajlov, Ippolit, Šigalëv». L. Grossman, Dostoevskij, cit., p. 156.

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veduto in questo una esaltazione della vita, una frattura degli schemi tradizionali di valutazione, un processo esuberante di salute che rinnova la psicologia, la logica e l’etica; la critica di orientamento esistenzialistico ha indugiato con predilezione sul senso di smarrimento e di desolazione che nasce dalla tragicità di Dostoevskij.344

Quando l’esistenzialismo “religioso” di Thurneysen, Šestov e Berdjaev, non sa scorgere nell’uomo che un essere tragico, colpevole, refrattario a ogni ordine, ad ogni logica e ad ogni sintesi terrestre, non compie un’analisi obiettiva dell’esperienza umana, ma sovrappone all’esperienza umana non indagata liberamente nella ricchezza fenomenologica delle sue forme, una metafisica antiquata che ne deforma il senso. Soprattutto nei Fratelli Karamazov Dostoevskij ha tracciato un disegno abbastanza completo della propria antropologia, la quale non descrive l’uomo eterno e paradigmatico ma l’uomo storico nella realtà delle sue contraddizioni. Questo quadro dell’uomo lo si ottiene considerando alcune figure demoniache (Dmitrij, Ivan, Smerdjakov, Fëdor Pavlovic) o angeliche (Alëša, Zosima, il fratello di Zosima), ma anche avendo presente l’intero dramma della famiglia Karamazov. Troppo spesso la critica semplifica il proprio compito e

344 Edward Thurneysen, insieme a Brummer e a Gogarten, è stato uno dei rappresentanti principali

della teologia dialettica o teologia della crisi, movimento religioso neo-protestante che ha avuto come caposcuola Karl Barth. La caratteristica di tale movimento, di netta derivazione kierkegaardiana, è l’esasperazione dell’abisso qualitativo esistente tra l’umano e il divino. Umanità per i teologi della crisi, che seguono in special modo la prima fase del pensiero di Barth, significa colpa, insufficienza, limite, incapacità di possedere, esprimere e raffigurare il divino, che, ineffabile, si cela nel mistero irrazionale, affascinante e tremendo, della sua trascendenza. Se Dostoevskij ha sezionato in modo implacabile tutta l’ingenua immediatezza della natura umana, scoprendo sotto le lustre ingannevoli della morale, dell’ estetica e della religione, i tratti ferini di una umanità senza presupposti, egli è importante, secondo Thurneysen, non per il radicalismo delle sue negazioni ma per l’affermazione ancora più grande che sorge da queste negazioni. Thurneysen vede dunque in Dostoevskij un metafisico della trascendenza. «L’ultimo risultato di tutte le sue approfondite analisi dell’uomo, è la constatazione di quell’unico e unificante riferimento di ogni cosa umana a un punto di fuga che si trova al di là di ogni realtà psicologica. Al di sopra di sé, verso questo punto di fuga si svolge tutto lo spettacolo della vita descritto da questa psicologia che non è più psicologia». E. Thurneysen, Dostoevskij, cit., p. 110. Intendere l’opera dostoevskijana come una introduzione alla rivelazione, come un preludio all’escatologia, significa deformare il problematicismo in un duplice senso: dal basso, per così dire, rendendo ancora più tetra, inquieta, torbida, esasperante la raffigurazione dell’uomo; dall’alto, giustificando paradossalmente tale problematicismo nella mistica irrazionale del Dio sconosciuto.

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si lascia sedurre da uno schema semplicistico, senza scavare in profondità per saggiare la reale consistenza di quello schema. Tale semplificazione consiste nell’applicare alle tragedie di Dostoevskij la seguente astratta formula: ogni tragedia descrive l’itinerario di un errore, ne addita le conseguenze funeste e fa intravedere la soluzione positiva. Con questo schema, ad esempio, la soluzione dell’Idiota è l’amore per gli uomini di Myškin, quella dei Fratelli Karamazov il messaggio religioso di Zosima, raccolto da Alëša, quella dei Demoni la confessione che Stavrogin fa a Tichon. Questa impostazione degli studiosi a tendenza “edificante”, che interpretano la problematicità solo come esperienza dell’errore, come descrizione della malattia nichilistica, come crisi di un’epoca corrotta e smarrita, senza scorgere in essa altro valore che quello dell’essere la “zona di oscurità che dà risalto alla luce”, ha una verità apparente. Berdjaev, che pure è il capostipite di questi critici “edificanti”, intuisce la fragilità del suo schema quando scrive: «C’è nella dialettica di Dostoevskij una complessità che rende qualche volta difficile capire da quale parte si mette egli stesso. Che parte prende egli alle stupefacenti riflessioni dell’eroe delle Memorie dal sottosuolo o di Ivan Karamazov? Come considera egli, infine, il paradiso terrestre nel Sogno di un uomo ridicolo o nel quadro tracciato da Versilov? La vita delle idee in Dostoevskij è al più alto grado dinamica e contraddittoria: non si saprebbe afferrarla in modo netto e statico e domandarle semplicemente un sì o un no».345

Ma poi Berdjaev abbandona questa felice traccia e ritorna allo schema tracciato dinanzi. Anche Gide ha notato questo «rifiuto di concludere» derivante in Dostoevskij da «un bisogno di lealtà del suo spirito». Gide appartiene a quei critici che ammirano in Dostoevskij soprattutto la reazione alla psicologia geometrica e cartesiana dell’occidente, che semplifica e impoverisce la realtà complessa e contraddittoria dell’uomo. Lo scrittore non solo non nasconde l’incoerenza dei suoi personaggi ma la fa spiccare continuamente. Nell’uomo coabitano sentimenti contraddittori e il ritmo dialettico della vita interiore, così

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scissa, si riflette nelle azioni e nelle parole che quest’ultimo compie e pronuncia nel mondo esterno. Attraverso le rivelazioni psicologiche dostoevskijane, la topografia dell’anima umana si arricchisce e si complica, la scala gerarchica dei valori muta profondamente e non si lascia più comprendere se non da uno sguardo ammaestrato dalla dialettica che trasmuta i valori e ne scorge le radicali antinomie.346

I Fratelli Karamazov costituiscono appunto un attento rilievo topografico dell’animo umano, un dramma antropologico dal quale emergono tutte le forze da cui è composto l’uomo. «Quali sono queste forze che nel loro insieme rappresentano l’uomo?» -si è chiesto Zweig- «Esse sono il senso, l’intelletto e l’amore, che si incarnano, in varie forme e proporzioni, nei diversi componenti della famiglia Karamazov. Nei Karamazov vi è anzitutto una brama famelica di vivere, una frenetica sete terrena, un desiderio sensuale oscuro, indecente e irrefrenabile. Questa libido è voluttà di vivere, è sfrenatezza portata fino all’insozzamento di se stesso, è un profondo impulso di mescolarsi all’ultima bassezza della vita, solo perché è ancora vita, di godere del suo intimo fondo, della sua feccia, per una esaltazione della vitalità».347

Anche questo universo dei sensuali si configura tuttavia come un mondo differenziato e pluritonale. Se si confronta la sensualità di Fëdor Pavlovic con quella dei suoi tre figli, Dmitrij, Ivan, Smerdjakov, o di Svidrigajlov, ci accorgiamo che il motivo sensuale risuona in tonalità diverse. Dostoevskij sviluppa creativamente la sua visione della realtà secondo un metodo che con

346 Gide intuisce che Dostoevskij quasi sempre è soltanto un pretesto per esporre le sue idee. Ci

troviamo, quindi, dinanzi a un Dostoevskij «gidizzato»; ma tale processo è la via maestra della grande critica che non è mai impersonale e obiettiva, benché rivelatrice della personalità, delle idee, del gusto del critico, il quale impegna e cerca nell’autore e attraverso l’autore anche se stesso. D’altra parte, proprio questa coincidenza, questo incontro tra Gide e Dostoevskij è singolare. Il pensiero tradizionale ha voluto ordinare, «edificare» l’uomo, scorgendo in lui un essere soprattutto razionale e unitario.

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S. Zweig, Der Kampf mit dem Dämon, trad. it. di T. Prina e S. Guccione, La lotta col demone, Frassinelli, Milano 1992, p. 18.

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Lauth potrebbe dirsi “antitetico”, lontano dallo “schematismo dialettico” dell’“idealismo tedesco”.348

Tale metodo non passa dall’opporsi delle idee alla loro sintesi, ma pratica quella che con una immagine non perfettamente adeguata, ma qui simbolicamente espressiva, potrebbe caratterizzarsi come una “partita doppia”: è cioè un metodo che procede come registrazione e svolgimento rigoroso di due serie differenziate e antitetiche di fattori, positivi e negativi. Ciò accade perché si tratta primieramente di un “pensatore etico”, per lui ne va essenzialmente del destino dell’uomo, e nell’etica –annota Lauth non senza una reminiscenza kierkegaardiana- “può darsi soltanto un aut-aut, non un et-et”.349

Quanto più lo scrittore rifletteva sulla realtà dell’uomo, tanto più egli doveva rendersi conto che la domanda sull’essere e sulle possibilità dell’uomo stesso non poteva venire sciolta soltanto sul piano della antropologia. Vedeva che l’uomo è qualcosa di “condizionato”, comunque si voglia designare questo “incondizionato” stesso, natura o legge o Dio.

Sicché, sembra che la relazione dell’uomo con la sua condizione condizionante divenga per Dostoevskij la questione centrale della filosofia. Entrando in discussione con le idee filosofiche del suo tempo riguardo alla questione del senso dell’esistere dell’uomo, perviene a mettere a fuoco le due possibilità estreme e ultime che si aprivano a una riflessione conseguente: nichilismo o cristianesimo. S’egli riconosce e afferma la verità di Cristo, come è accaduto di fatto, ciò si è realizzato non per ignoranza o per sottovalutazione della potenza della posizione antagonista, ma grazie alla rigorosa e implacabile

348 R. Lauth, Die Philosophie Dostojewskis. In systematischer Darstellung, Piper, München 1950;

seconda edizione invariata, ivi 1980. Si segnala che la filosofia trascendentale di Fichte –in quanto svolge una dialettica pratico-teoretica della libertà (cfr. L’origine della dialettica nella filosofia di

Fichte, a cura di M. Ivaldo, Guerini e associati, Milano 2000, pp. 75-97)- non può essere

ricondotta per Lauth a questo “schematismo dialettico” idealistico.

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esplorazione di entrambe le possibilità fino alle loro ultime conseguenze (“partita doppia”).350

Lo scopo diretto di questa contrapposizione è però di chiarire e approfondire il senso della differenza di principio che Dostoevskij individua tra i due tipi umani e sociali, quello che conserva la sua fede in Dio e quello avverso a Dio.351

Certo, egli chiama i due demoni con nomi diversi.352

I due demoni sono le due figure di una sola entità, la quale in realtà non si esaurisce necessariamente in questa duplicità, ma al contrario nasconde in sé,

350 «Il perfetto ateo-per riprendere una espressione del vescovo Tichon nei Demoni- sta sul

penultimo gradino prima della fede più perfetta». F.M. Dostoevskij, I demoni, cit., p. 402. A proposito di questa antitetica Luigi Pareyson –con cui Lauth è stato per lunghi anni legato da sincera amicizia- ha affermato che «se oggi non si può essere veramente e consapevolmente cristiani ignorando Kierkegaard e Dostoevskij, ciò è perché la loro professione di cristianesimo è confermata e riaffermata sulla possibilità dell’anticristianesimo». Cfr. L. Pareyson, Esistenza e

persona, Il Melangolo, Genova 1985, p. 13. Dostoevskij in particolare ha affermato il

cristianesimo avendo sperimentato il nichilismo come «possibilità di cui si accetta costantemente il rischio»; anzi il nichilismo è svolto e condotto da lui sino in fondo, sino al punto in cui, «vinto dalla sua stessa estremizzazione, si rovescia nel suo contrario». Cristianesimo dopo il nichilismo, e avendo “esperienza” del nichilismo come possibilità reale e giudicata: questo sembra l’esito dell’antitetica dostoevskijana secondo Pareyson e Lauth. Lauth ha per parte sua rievocato in una pagina suggestiva la prossimità e la differenza nella interpretazione di Dostoevskij fra lui stesso e Pareyson, una pagina che, dato il suo rilievo, conviene riprodurre per intero: «Consentivamo entrambi che lo scrittore ha compreso in maniera profonda la terribile problematica della libertà e del male che da essa è reso possibile. Ora, ciò che per il mio amico era al centro della sua comprensione di Dostoevskij era la schietta visione della faccia spaventosa del male satanico. Per me il centro risiedeva altrove; consisteva, se così posso esprimermi, nel fatto che Dostoevskij potè guardare e raffigurare il Paradiso non soltanto o prevalentemente in maniera astratta, ma in una concreta vita. Chi soprattutto mi parla non è Ivan Karamazov, non è Stavrogin, ma il suo Myškin e la sua Sofija. Considero il pensiero più profondo di Dostoevskij che l’amore etico, quale si manifesta concretamente in queste figure, non rappresenta soltanto la giustificazione insuperabile di loro stesse ma anche la definitiva vittoria sul potere del male. Myškin, l’apparente “idiota”, ripete per Nastasja Filippovna la morte espiativa di Cristo e con questo libera la “passione della vita” incorporata in Rogožin dalla maledizione del peccato, dal fatto di poter soltanto attraverso un delitto conseguire la meta della sua brama. Ma in questa maniera la collera veterotestamentaria di Dio cede il passo al compimento ed alla sopraelevazione della giustizia di Dio stesso che è il suo amore». R. Lauth, Ricordi dalle mie conversazioni con Luigi Pareyson, in Id., Il pensiero

trascendentale della libertà, cit., p. 368; ed. anche in A. Di Chiara (cur.), Luigi Pareyson filosofo della libertà, La città del sole, Napoli 1996, pp. 43-44.

351 V. Ivanov, Dostoevskij. Tragedia. Mito. Mistica, cit., p. 130.

352 Scrive Ivanov: «Se in Delitto e castigo Raskol’nikov e Svidrigajlov cercano di penetrarsi l’un

l’altro coi loro sguardi e il primo, pieno di orrore e disgusto, deve segretamente riconoscere che è nel vero il suo avversario, il quale osserva che il legame fatale che li unisce non è un legame casuale, che essi sono sostanzialmente affini e fanno pensare a due sosia nemici, ciò avviene perché Lucifero che è nell’uno e Ahriman che tiene prigioniero l’altro, si misurano con lo sguardo della nera profondità spalancata in ognuno dei due». Ibidem.

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nelle «sataniche profondità» un terzo volto, un volto cioè femminile, la «bellezza sodomitica» contrapposta alla «bellezza della Madonna». In ogni caso il diavolo di Ivan Karamazov, meschino, ma tipico, come spirito dell’insulsaggine e della trivialità, sviluppa la tesi puramente luciferina, da lui proclamata come di sua proprietà: «Quando tutto il genere umano si sarà liberato di Dio, l’uomo si solleverà con lo spirito dell’orgoglio titanico eguale a quello degli dèi e verrà l’uomo-Dio».353

Questa rivolta e la lotta che ne deriva costituiscono insieme uno dei temi ricorrenti dell’opera dostoevskijana. S’è veduto come la responsabilità si aggravi in colpevolezza e come quest’ultima finisca per costituire la dimensione stessa dell’angeologia. La persistenza di tale colpevolezza spiega probabilmente il perché la risposta dell’appello dell’angelo si dia innanzitutto nel mondo della rivolta.

Ma, in questo senso, potrà essere descritta solo come omicidio. D’altra parte non si può non sottolineare come tra i cinque romanzi della maturità, in uno solo, L’adolescente, non sia presente l’omicidio, con la precisazione però che anche questo rischia di concludersi con l’assassinio di Katerina Nikolaevna. E Bachtin ha ragione quando rileva a tal proposito che «del mondo dostoevskijano sono caratteristici l’omicidio (raffigurato nell’orizzonte dell’omicida), il suicidio e la follia. Morti naturali ve ne sono poche, e di esse egli si limita ordinariamente ad informare il lettore».354

Tra i romanzi dell’epoca della maturità, Delitto e castigo (che è il primo di essi da un punto di vista cronologico), ha però un posto a parte nel senso che

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F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 881. «Ognuno riconoscerà –continua il diavolo- che egli è mortale, del tutto mortale, senza resurrezione, e che non ha nessun motivo di lamentarsi che la vita dura solo un istante, e comincerà ad amare il suo fratello disinteressatamente». Ibidem. «Il contegno –osserva Ivanov- è qui ancor sempre quello solenne di Lucifero, ma l’accentuazione del fatto che l’uomo è mortale, del tutto mortale, senza resurrezione, smaschera Ahriman con la sua cupidigia elementare e la sua ben determinata intenzione: dissolvendo e corrompendo insieme alla spoglia estrema dell’uomo, anche la sua più profonda e intima volontà, distruggere in lui l’immagine e la somiglianza di Dio, uccidere il suo spirito». V. Ivanov, Dostoevskij. Tragedia.

Mito. Mistica, cit., p. 131. 354