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sentimenti? –E allora soltanto comprese pienamente che cosa significassero per lei quei poveri,

piccoli orfanelli e quella pietosa, semipazza, Katerina Ivanovna con la sua tisi e il suo picchiar la testa al muro. (…) Che cosa mai la sorreggeva? Non già la depravazione? Tutta quella sozzura l’aveva toccata solo in modo meccanico; di vera depravazione nel suo cuore non n’era penetrata nemmeno una goccia». Ibidem.

277 Ibidem.

278 Nel grande dialogo, caro a Dostoevskij, Raskol’nikov ha fatto sentire a Sonja profondamente

tutta la sua miseria. E poi continua: «Tu dunque, Sonja, preghi molto Dio? –le domandò- Che sarei mai senza Dio? –sussurrò ella rapida, con energia, alzando su di lui i suoi occhi tutt’a un tratto scintillanti, e gli serrò forte la mano nella propria (…) –E Dio che cosa fa per te? –domandò [egli], continuando l’interrogatorio. –Tacete! Non fatemi domande! Voi non siete degno! Tutto fa!». Ivi, p. 177.

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e lo condanna sinceramente. Non sa come avrebbe potuto agire in modo diverso ma non consentirebbe mai a cercare una giustificazione al suo agire. Sa che, ancora oggi, è colpevole e la coscienza di essere colpevole è in lei sempre ugualmente viva e dolorosa, eppure non fa nulla per mutare il suo stato. È profondamente pia, ma questa pietà non le fa evitare il peccato. La pietà di Sonja, forse, sta nel suo doloroso immobilizzarsi in un destino che secondo lei non avrebbe potuto essere diverso, in una colpa che non avrebbe dovuto commettere ma che non vede come avrebbe potuto evitare. Rimane ferma in un atteggiamento di silenziosa e dolente perseveranza per cui ogni cosa, in fondo, risulta incomprensibile e nulla deve essere spiegato: non il destino, non la colpa, non l’amore, non il consenso. Soffrire sino in fondo il mistero dell’esistenza, sembra essere la sua sorte particolare. Tutto in lei esprime questo mistero doloroso di una colpa che pure in qualche modo è santificata. Credere che possa darsi un’esperienza simile, vissuta e sofferta nella sua contraddittorietà dolorosa: ma senza ricavarne un principio, una teoria. Appena il suo fare e patire fossero accolti in una teoria che li spiegasse e giustificasse, verrebbe infirmata la distinzione stessa tra ciò che è bene e ciò che è male. Prenderebbe avvio quella mistificazione diabolica a cui soggiace Raskol’nikov e dalla quale Ivan Karamazov trarrà la sua filosofia della rivolta. Tutto diventerebbe falso, ingannevole, demoniaco, se ella cercasse di giustificarsi; ella stessa ne perirebbe.280

Né la ragione, né la coscienza morale possono aiutare a chiarire la posizione di Sonja. La sua pace interiore, cristiana sta nel non giustificarsi in alcun modo – qui anche solo voler capire significherebbe voler cercare una giustificazione- e nel continuare a vivere convinta della sua colpa; in attesa di un segno e pronta alla penitenza, con una fiducia che non oserebbe esprimere apertamente. La

280

Un giorno che Raskol’nikov vorrebbe dissentire con lei la sua teoria del superuomo e il diritto che alcuni avrebbero di vivere, altri no, ella gli risponde: «Ma io non posso mica conoscere la Divina Provvidenza (…) E perché domandate quello che non si può domandare? Perché queste domande vuote?». Si tratta di parole dette in una circostanza particolare, ma rivelano il rispetto di Sonja per il mistero delle cose sante. F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., p. 161.

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problematica è quella della salvezza il cui processo deve passare attraverso la sofferenza e l’accettazione della sofferenza per condurre poi alla «felicità», alla «vita nuova». Problematica della salvezza, della resurrezione o della rinascita, che passa per un cammino che il peccatore non può percorrere da solo: occorre l’aiuto di un altro che offra il suo amore e, attraverso questo dono d’amore, lo apra all’amore.281

Ma a partire da questo punto di vista, è il senso stesso di quel personaggio centrale che è Sonja a trovarsi capovolto. Ella è colei che deve dare a Raskol’nikov quell’amore che gli permetterà di ritornare in seno alla comunità umana. È colei che, silenziosamente, nell’inapparenza, con la sua sola presenza muta, con la discreta insistenza del suo amore, deve volgere Raskol’nikov verso la parola del Cristo che comanda di amare l’altro come se stessi, è colei che deve volgerlo verso questa Buona Parola o questo Vangelo. Non è possibile intravedere in Sonja, come vorrebbe dimostrare Jacques Rolland, la figura per eccellenza dell’Altro il cui puro Volto piega Raskol’nikov che, in questo gesto, ribadisce il fallimento del suo tentativo di negazione e di annullamento dell’alterità in quanto tale. Piuttosto, Sonja si fa guida discreta del cammino di Raskol’nikov verso la resurrezione offrendosi come l’occasione, la causa prossima, «della sua graduale trasformazione, del suo lento passaggio da un mondo a un altro mondo, del suo incontro con una realtà nuova e fino a quel momento completamente ignorata».282

Figura certamente fondamentale nell’uno e l’altro caso, ma in maniera sostanzialmente diversa. Figura propriamente centrale quando viene vista come il Volto nel quale prende carne «tutta la sofferenza umana», Volto che, nella sua stessa nudità di volto, piega l’omicida e determina la sconfitta del suo tentativo.

281 Amore, però, nota Rolland, che, a sua volta, si comprende come fusione di due esseri che apre il

cammino della reintegrazione del peccatore nella comunità dalla quale si era separato facendosi

raskol’nik –identificandosi come Raskol’nikov- diventando prestupnik: ad un tempo criminale e

trasgressore dei limiti il cui rispetto fonda la comunità umana. J. Rolland, Dostoevskij et la

question de l’Autre, editions Verdier, Paris 1983, trad. it. di A. Dell’Asta, Dostoevskij e la questione dell’Altro, Jaca Book, Milano 1990, p. 142.

282

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Figura senza dubbio sempre essenziale, ma non più centrale in senso proprio, quando si fa messaggera cioè si pone come un essere che, per definizione, si ritrae davanti a ciò che annuncia, così come fa il segno davanti a ciò di cui è segno. Ciò che annuncia è la Parola evangelica con la quale Cristo offre la promessa della resurrezione e della salvezza, e ciò che essa segnala, è l’Altezza della trascendenza a partire dalla quale Cristo offre questa promessa lasciando in eredità la sua parola. E poiché in virtù della sua funzione di messaggera, si ritrae davanti a questa “alta parola” che annuncia, conduce tutto il romanzo verso l’apoteosi di questa stessa “parola” e fa posare sulle sue spalle la struttura che trova nell’epilogo il centro dell’opera. In questo ritrarsi, cede il posto di figura centrale del romanzo alla figura del Cristo, figura senza dubbio assente dal romanzo283 -ma romanzo che, peraltro, sembra scritto solo per poter culminare con l’iscrizione di questa figura, là dove si erge la sua “altezza” e dove trionfa la sua “parola”. In questo senso, la tensione del romanzo non è più data dalla relazione di Raskol’nikov con questa figura che si ritrae e che, definitivamente relegata nella sua funzione di annunciatrice, si limita ad aprire il cammino alla relazione verso la quale il romanzo è teso: relazione di Raskol’nikov alla parola evangelica, relazione del peccatore alla persona del Cristo. Relazione che Dostoevskij non descrive –segno di intelligenza romanzesca? –e che egli, ancora, non inscrive nel romanzo nel suo orizzonte, trasformandola così nel fuoco che, esterno al testo, lo attrae irresistibilmente.284

La figura che si ritrae è peraltro quella dell’Altro come Altri ed è a favore dell’Altro come Trascendente, come Cristo –come «Verbo incarnato, Dio

283 È soltanto nel suo ultimo romanzo, ne I fratelli Karamazov, che Dostoevskij iscriverà

direttamente la figura del Cristo nello spazio romanzesco. Ciò avverrà attraverso la finzione poetica di Ivan. Ne L’idiota, Myškin è certamente figura del Cristo, o più esattamente figura cristica, non è evidentemente il Cristo stesso. Si veda a questo proposito: M. Bouttier, «L’Idiot,

figure du Christ?», in Les cahiers de la nuit surveillée, n. 2, p. 108.

284 È in questo senso che si potrebbero interpretare le ultime parole del romanzo: «Potrebbe essere

l’argomento di un nuovo racconto; ma il nostro intanto è terminato». F.M. Dostoevskij, Delitto e

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incarnato»,285 –che essa, appunto, si ritrae. Tutto ciò lascia intuire sin da adesso che l’articolazione della doppia struttura del romanzo dovrà svilupparsi come articolazione di queste due dimensioni. Nello smarrimento di una situazione umanamente confusa e moralmente equivoca, una fede ingenua e fiduciosa e un sincero spirito di dedizione hanno trovato un sostegno in qualche cosa che, in un senso razionalmente non più definibile, è più profondo della semplice distinzione che la coscienza morale opera tra il bene e il male, sebbene non porti affatto a cancellarla minimamente. E quanto profonda sia anche la certezza nella trasformazione redentrice dell’esistenza ad opera di una sofferenza accertata nella fede dicono le parole con le quali si chiude il dialogo tra Sonja e Raskol’nikov: «Prenderai su di te la tua sofferenza e troverai così la redenzione (…) Poi verrai da me e io te la metterò al collo (la crocetta donata da Sonja a Raskol’nikov), poi pregheremo e andremo via insieme».286

Tuttavia, né il tema dell’espiazione vicaria né l’idea di una colpevolezza solidale, né l’idea della possessione diabolica riescono a dare ragione del perché della sofferenza inutile, che è uno dei temi più discussi della fenomenologia dostoevskijana della colpa. Se la sofferenza ha la sua ragione d’essere non solo come via di espiazione di una colpa particolare, ma anche come riscatto di una colpa che pesa su tutta l’umanità, la sofferenza inutile non può mai diventare viatico di salvezza, né strumento di metanoia del cuore.287 È una sofferenza inutile, sterile, anche perché essa riguarda i più deboli, i bambini, gli idioti e finanche gli animali. È questo un tema che ricorre spesso nei Fratelli Karamazov. Basta ricordare il caso di una povera donna, inebetita dal dolore per la morte di quattro figlioletti, che si presenta a padre Zosima e a lui così si confida: «La mia creatura compiango, batjuška. Aveva quasi tre anni, gli mancavano solo tre mesi e avrebbe avuto tre anni. Per lui mi tormento, padre, per il mio piccino. Era l’ultimo

285 F.M. Dostoevskij, Taccuini dei Demoni, in Romanzi e taccuini, a cura di E. Lo Gatto, Sansoni,

Firenze 1963, p. 904.

286

F.M. Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., p. 596.

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figlioletto che mi restava; quattro ne avevamo io e Nikituška; ma nella nostra casa i bimbetti non sopravvivono, adorato, non sopravvivono. I primi tre li ho seppelliti, ma loro non li ho pianti molto, invece quest’ultimo che ho seppellito non posso dimenticarlo. Mi ha disseccato il cuore».288

Dunque, i conti non tornano, perché i figli morti comunque non possono essere resi e la ferita non può essere risanata. Ma soprattutto, perché la sofferenza dei deboli e degli innocenti? Si pensi alla folla di bambini fragili e macilenti, magari mendicanti o già alcolizzati, sui quali spesso si accanisce la crudeltà degli adulti, si pensi solo per fare un esempio, a Matrëša, la fanciulla sedotta da Stavrogin e da lui indotta, con la sola persecuzione dello sguardo, al suicidio. La sofferenza inutile diviene, in tal modo, il risvolto dell’assurdità dell’esistenza, un tema lungamente frequentato, oltre che da Pareyson, anche da Albert Camus e Henry de Lubac. Per de Lubac è emblematica la vicenda di Ivan Karamazov, il quale, facendo forza sull’interna coerenza del “pensiero euclideo”, vorrebbe vincere il cruccio lacerante da cui, in effetti, è soggiogato. In realtà, sull’asse di questo pensiero egli approderebbe alla assurdità radicale dell’esistenza.289

288 F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 69. Pareyson osserva che il dolore della madre

inconsolabile per la morte del figlio costituisce l’archetipo del dolore eccessivo, così atroce da essere talvolta infruttuoso per chi lo prova, secondo l’esempio biblico di Rachele, «plorantis filios suos et nolentis consolari, quia non sunt». Si sa che la lamentazione di Geremia (31,15), ripresa da Matteo (2,18), viene adattata a quel primo –controproducente e sconcertante- effetto della venuta del Salvatore ch’è la strage degli innocenti, crudelissimo esempio di sofferenza inutile, sia da parte dei figli, martiri involontari, sia da parte delle madri, «che i nati videro trafitti impallidir». Secondo il detto biblico, la madre disperata per la morte del figlio non soltanto è inconsolabile, ma non

vuole essere consolata, il che attesta che la sua inesprimibile e incontenibile angoscia è al limite

della rivolta: in lei il proposito di sottrarsi alla rassegnazione rivela non meno la continua riformulazione d’una domanda che già sa senza risposta che la fedeltà al bene incomprensibilmente perduto e al proprio irrimediabile dolore; e l’ostinata resistenza all’accettazione riesce a evitare la ribellione e la bestemmia solo se non rinuncia alla protesta e all’accusa. Lo starec Zosima, ricordando Rachele che non voleva essere consolata, le rivolge le compassionevoli parole: «E dunque non consolarti, la consolazione non ti è necessaria: non consolarti e piangi pure»; e Dostoevskij commenta che «un dolore simile non cerca neanche conforto, e si nutre anzi della consapevolezza d’essere inestinguibile: i lamenti non rappresentano altro che il bisogno d’irritare continuamente la ferita»; col che l’eccesso del dolore viene rinviato ad un groviglio inestricabile di incredulità, isolamento e sfida, urto contro l’assurdo e desiderio di sofferenza. F.M. Dostoevskij, cit., pp. 300-304.

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Secondo Camus, l’infinita sproporzione tra colpa e pena proverebbe l’assurdità del mondo e dunque l’inesistenza di Dio. Difatti, Ivan rifiuta «l’interdipendenza profonda che il cristianesimo ha introdotto tra sofferenze e verità (…) Il che significa che anche se Dio esistesse, anche se il mistero celasse una verità, anche se lo starec Zosima avesse ragione, Ivan non accetterebbe che questa verità fosse pagata con il male, la sofferenza e la morte inflitti all’innocente. Ivan incarna il rifiuto di salvezza (…) A queste condizioni, anche se la vita immortale esistesse, Ivan la rifiuterebbe».290

A parere di Pareyson, ogni «scandalo cessa se anche Dio soffre e vuole soffrire». Forse, solo la sofferenza di Dio è la risposta per antonomasia al problema del dolore. Allo scandalo della sofferenza inutile del bambino, dell’idiota, dell’inerme, Alëša contrappone lo “scandalo” della croce, del Dio che “soffre e muore”. Pareyson propone di andare oltre Dostoevskij, svolgendo le stesse idee dostoevskijane. Con l’idea del Dio che soffre, la sofferenza non è più limitata all’uomo, ma «si insedia nel cuore stessa della realtà»291: così il dolore acquista una portata non solo umana, ma cosmica. Eppure, l’idea della sofferenza in Dio implica la presenza della negazione nella stessa divinità, o l’idea, secondo l’espressione pareysiana, di “un momento ateo della divinità”. Dio, con l’evento sconvolgente della crocifissione, è coinvolto nella morte e nell’autodistruzione; egli, che è sommamente misericordioso verso l’uomo, proprio per amore è crudele sino alla morte, alla negazione di sé e all’abbandono del Figlio.292

Lo scandalo del dolore è così lo scandalo di un Dio dialettico che conosce la contraddizione, il conflitto e il dissidio. Si potrebbe parlare nei termini di una salvezza isolata destinata ai puri ed immacolati? Del dovere da parte di chi è puro ed elevato di mescolarsi con chi è laido e vile e di sentirsi colpevole per lui Dostoevskij parla attraverso lo starec Zosima, attraverso la cui figura ed i cui

290 A. Camus, L’uomo in rivolta (1951), trad. it. di L. Magrini, in Opere, a cura di R. Grenier,

Bompiani, Milano 1992, p. 682.

291

L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 211.

292

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insegnamenti si delinea il nuovo cammino della religione che, per la verità, viene abbozzato solo nelle linee generali. È la via del monacato laico a cui lo starec Zosima spinge Alëša Karamazov, l’unica figura sulla quale sono concentrate le sue speranze ed aspirazioni religiose. È proprio Alëša a offrire la possibilità di capire la sostanza e l’originalità di questa nuova via che a prima vista appare così rischiosa e piena di contraddizioni interne. Lo scrittore ha inteso mostrare come chi è puro ed elevato debba entrare in contatto con chi è corrotto e vile per compiere la propria missione religiosa. «Lo scopo di tale contatto non è naturalmente quello di imbrattare le proprie bianche vesti spirituali, ma di rivivere dentro di se il peccato insieme con gli altri, di riviverlo con compassione e comprensione».293

La caratteristica di Alëša è infatti proprio quella di essere capace di tale compassione e comprensione. Egli è un rampollo di quello stesso sangue karamazoviano, peccaminoso e ardente, che scorre nelle vene di Ivan e di Dmitrij, ma è un figlio tardivo che ha ricevuto l’onerosa eredità del peccato già allo stadio del suo superamento interno. Proprio perciò Alëša comprende ogni cosa, prova compassione per tutto, ma, per sua fortuna, non vi prende parte. Con la propria compassione prende su di sé il fardello dei peccati altrui senza aggiungerne di propri. È puro, ma ciò non gli impedisce di stare in compagnia dei peccatori perché li capisce. La particolarità della sua natura consiste, a mio giudizio, nel fatto che ha in sé l’esperienza del peccato, ma solo come un modo particolare di soffrire per i peccati altrui. Tuttavia il peccato in lui non è una vuota finzione né una piena rinuncia, ma, al contrario, sempre una viva possibilità. Anch’egli, innegabilmente, ha le proprie tentazioni personali e lotta contro di esse; non a caso i suoi fratelli lo accusano di avere una natura identica alla loro. Ma se ad Alëša è proprio il karamazovismo, lo è solo come debole eco. Egli non vive l’esperienza dello sdoppiamento; né viene risparmiato perché ha accettato quanto era stato

293

S. Askol’dov, Il significato etico-religioso di Dostoevskij, in Un artista del pensiero, cit., p. 126.

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respinto dai fratelli, vale a dire la coscienza religiosa della chiesa. Il suo rapporto personale con Zosima e l’obbedienza a lui lo hanno reso invulnerabile, inattaccabile dal forte fascino delle passioni che in lui si agitano solo come estranee, come emozioni provenienti dall’esterno che non si identificano con la sua anima. Proprio per questo, vale a dire per la sua capacità di compatire i peccatori pur senza partecipare ai peccati, egli ha un forte ascendente sugli altri, la forza della conversione. Anche perché lo starec gli ha comandato di restare nel mondo.294

«Dal fondo della sua debolezza, Altri mi chiama; dallo strapiombo della sua Altezza, egli mi ordina di dargli risposta; e in questo doppio movimento mi rende responsabile. Responsabilità che non partecipa a “l’amore dell’umanità” ma a “l’amore attivo”, se si riprende la distinzione posta dallo starec Zosima».295

Ecco, dice, «ciò che mi raccontava, gran tempo fa, un dottore (…). Io, diceva, amo l’umanità, ma stupisco di me stesso, quanto più amo l’umanità in generale, tanto meno amo gli uomini in particolare, cioè presi separatamente come individui. Non di rado mi sono spinto, fantasticando, fino a concepire degli appassionati propositi di servire l’umanità, e per gli uomini sarei forse idealmente salito sulla croce, se ciò fosse stato comunque necessario (…) Mi è sempre successo che, quanto più odiavo gli uomini in particolare, tanto più si infiammava il mio amore per l’umanità in genere».296

294 La via raccomandata ad Alëša è per Zosima la via generale del cristianesimo del futuro, la vita

attiva. Nelle parole “monacato laico” è racchiuso un pensiero di immensa importanza che, in verità, viene solo intuito da Dostoevskij e non sviluppato in tutta la portata del suo significato. In un certo senso in questa idea si intravedono già in parte la teologia di Vladimir Šolov’ëv e dei suoi successori e in parte le idee legate al nome di Dmitrij Merežkovskij. Innanzi tutto, in essa vi è la consapevolezza da parte di Dostoevskij che si è conclusa l’epoca storica della tendenza ascetica del cristianesimo legata alla rinuncia dei monaci al mondo. L’ascetismo poteva realizzare solo una parte dei compiti della storia, intesa come processo cristiano, vale a dire la parte esclusivamente