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voi avete pur vergogna d’ingannarlo! Io li chiamo uccellini perché al mondo non c’è nulla d

meglio degli uccellini». F.M. Dostoevskij, L’Idiota, cit., p. 70.

254 Ibidem. 255

L’episodio di Myškin, di Maria e dei ragazzi costituisce un vero e proprio capitolo di alta pedagogia e Dostoevskij ha coscienza di porsi in radicale contrasto col la pedagogia ufficiale, rappresentata, nell’episodio, dal pastore del villaggio e dal maestro di scuola, che aizzano contro di lui i bambini. La verità sul principe Myškin è parzialmente intuita da Schneider, il medico della clinica svizzera, il quale afferma che Myškin «è un perfetto bambino, un vero e proprio bambino, che solo per la statura e il viso rassomiglia a un adulto, ma quanto a sviluppo, anima e carattere, e forse anche intelligenza, non è un adulto». In realtà, Myškin ha del fanciullo le doti migliori, la verginità e la freschezza dello spirito, la capacità di avere impressioni libere. F.M. Dostoevskij,

L’idiota, cit., p. 13.

256 Gli esempi più tipici sono, rispettivamente, le due bimbe in Netočka Nezvanova, la piccola

Nelly in Umiliati e offesi, e Iljuša e Kolja nei Fratelli Karamazov.

257 Di questi personaggi «chiari» e «chiarificatori» -perché tale è la funzione della chiarezza:

irradiare se stessa e illuminare gli altri- Myškin costituisce il prototipo, e Alěša il suo fratello spirituale. Indubbiamente, l’idiota, termine che in greco significa l’uomo privato, l’uomo cioè che non prende parte alla vita pubblica, possiede una saggezza che gli altri non possiedono, appunto quell’intelligenza primaria a cui si accennava. Eppure il mondo travolge Myškin al pari di come travolge Don Chisciotte, Socrate e Cristo.

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È possibile che i valori dell’intelligenza primaria siano nel mondo tanto offuscati e vilipesi che il loro portatore ed il loro rivelatore debba apparire come un fenomeno assurdo e paradossale, come follia e malattia? È possibile che Dostoevskij sia convinto che la verità risieda unicamente nel paradosso, in ciò che è marginale, in ciò che è sconveniente? È possibile,come suggerisce Thurneysen, che la vera interpretazione, il senso di ogni evento in terra, sia così completamente spostato verso il margine che soltanto coloro che in un certo qual modo si trovano al di fuori, meretrici, assassini e dementi possono rintracciarlo e comprenderlo? Che, ove questo senso, questa interpretazione venga nuovamente spostata verso il centro, essa possa apparire di fronte a tutto ciò che finora è stato pensato e che avviene, in primo luogo come turbamento di tutte le abitudini, come ingenuità ridicola, come idiozia, come qualcosa del tutto inconsueta, differente in modo inaudito?258

Tuttavia, questi interrogativi si presentano estremamente gravi e rischiosi perché potrebbero suggerire di cercare la verità ed i valori in una direzione opposta a quella che conduce all’esperienza e al mondo nella loro normalità, in un sopramondo di essenze e norme ideali di cui nell’esperienza non traluce che un pallido e misconosciuto riflesso.

Trasparente nella semplicità del suo cuore, il fanciullo pone in contatto con una verità che si lascia cogliere solo dalla schiettezza dell’animo e sfugge alle tortuosità dell’intelletto. In lui vi è qualcosa dell’angelo divenuto uomo in carne e

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E. Thurneysen, Dostoevskij, Berlin 1921, trad. it. Dostoevskij, Tipografia operaia romana, Roma 1929, p. 51. Dostoevskij, secondo l’interpretazione thurneysiana, si colloca nella sfera di pensiero di Karl Barth e Soren Kierkegaard, e tutte le opere del russo hanno un significato religioso e descrivono la condizione dell’uomo in una vita, che all’infuori del suo riferimento con il Dio sconosciuto, è necessariamente problematica e demoniaca. Il mondo degli uomini è un mondo cupo e misterioso, caotico e inquietante. Sotto la superficie dell’esistenza, così bene ordinata in apparenza, cova l’ardore focoso di una vita primitiva piena di una problematicità indomita e di enigmi insolubili. Il Dostoevskij di Thurneysen, dopo avere descritto la protervia e la miseria umane, fa irradiare dalle sue opere una luce misteriosa, non più terrena. «L’ultima parola dei suoi romanzi è resurrezione». Ibidem, cit., p. 37.

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ossa259, o, meglio, dell’uomo in cui si scorgono tratti angelici. Egli sta con la verità in un rapporto del tutto speciale. C’è in lui una forza di verità che non soltanto non mente ma afferma apertamente quello che è, e precisamente in un modo che trasforma il semplice fatto di dire il vero in un atto religioso, in una “illuminazione” che opera in lui. Ed ecco che un particolare apparentemente secondario s’illumina all’improvviso di un significato inatteso: Alëša è chiamato continuamente «angelo».260

Dostoevskij traduce in evidenza e concretezza umana l’essere non umano, in modo che tuttavia l’immagine del sovrumano appaia nella persona che davanti ai nostri occhi vive e si muove, perfettamente reale. La qualità del fanciullo non è soltanto umana: si esprime in lui anche qualcosa di sovrumano, la natura angelica. Ed è una figura di angelo particolare, in cui la verità è atto dell’esistere, che vive la santa verità. Così in certi momenti dire la verità significa parlare come un messo di Dio. La verità prorompe allora da lui quasi come un’estasi. Egli sente di doverla dire, di essere illuminato e incaricato di parlare. Questa è di tutte le missioni la più difficile, la più insidiata. La natura angelica presuppone difatti la possibilità di una caduta, poiché solo chi sta in alto può “cadere”. Anche la serenità, la castità, il disinteresse, traggono le loro origini qui e sono espressione di una singolare elevatezza e insieme della possibilità di una caduta precipitosa. Alëša è un essere che non solo può declinare, ma anche cadere, precipitare.261

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R. Guardini, Dostoevskij. Il mondo religioso, cit., p. 47. Guardini (pp. 129 ssg), accentua sempre il senso mistico dei testi dostoevskijani. In Alëša egli vede realmente il cherubino, l’inviato da Dio, il profeta, il salvatore.

260 Il vecchio Karamazov lo chiama «il mio angelo» e l’eccentrica Kochakov dice ch’egli «si è

comportato come un angelo». Ma la definizione più profonda è di Dmitrij –e Ivan la fa sua- quand’egli chiama Alëša «cherubino».

261 In un’ora di profondo sconforto, parlando con la piccola Lise, quella singolare creatura, mezza

malata e mezza corrotta, che si direbbe perfino della natura degli elfi, Alëša dice: «I miei fratelli si perdono, mio padre anche. E perdono altri con sé. È la “forza dei Karamazov, una forza terrena, frenetica e bruta… Non so nemmeno se al di sopra di questa forza aleggi lo spirito di Dio… Sono un monaco, io, un monaco? Sono un monaco, Lise? Avete detto un momento fa che io sono un monaco? –Si, l’ho detto. –E io, forse, non credo neanche in Dio! –Voi non credete, che cosa dite? –Ma Alëša non rispose. C’era in quelle sue parole così improvvise qualcosa di troppo misterioso e di troppo soggettivo, qualcosa forse che per lui stesso non era chiaro, ma che senza dubbio già lo

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Qui l’angelo sta veramente davanti a un abisso. Disegnando nelle figure dei Fratelli Karamazov simbolicamente i misteriosi e tragici destini della Russia, si racconta di un sogno profetico che Dmitrij ha avuto sulla soglia del suo martirio, sogno nel quale la Russia gli appare come un villaggio arso, sprofondato nell’oscurità e nella disperazione, nel quale madri affamate tendono a colui che passa i loro lattanti; colmo di pietà e di terrore Mit’ja cerca nel sogno di scoprire da dove derivi tutta questa sofferenza e riceve come risposta le parole disperate che si ripetono all’infinito e lo colpiscono nel fondo del cuore: «Il bambino piange». Il bambinello piange, è questa l’origine di tutta la sofferenza del mondo: l’inesauribile colpa del mondo è la colpa verso i bambini. Secondo la concezione dostoevskijana, in ogni istante intere schiere di anime che hanno conservato in se stesse il ricordo del paradiso scendono sulla terra; esse possono trasfigurare la terra in paradiso, perché il dono che hanno portato resti immacolato, intatto, non profanato. Con fiducia infantile essi si avvicinano agli uomini sulla terra e portano loro la lieta novella che ad ogni momento il paradiso può rivelarsi, gli uomini tuttora li oltraggiano e li traviano, li contagiano con la loro peccaminosità e trasformano i semi paradisiaci che sempre si rinnovellano in amara cicuta. «I bambini debbono crescere nei giardini», si legge nel Diario di uno scrittore: «nel futuro anche le fabbriche saranno circondate di giardini». «Non tormentate, non macchiate, non corrompete i bambini»262, si ripete continuamente con un fervore quasi morboso. Myškin, come Alëša, è un bimbo coi bimbi e nel suo profondo, nonostante che i suoi pensieri indaghino la più segreta natura del male, resta sempre un bimbo; così egli porta in sé, secondo le parole del Vangelo, la luce del regno dei Cieli. L’incontro coi bambini è al principio della sua vita cosciente: l’unica azione che egli è stato capace di compiere sulla terra, è la salvezza della