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oltre: riconosce che solo l’amore può rendere accettabile l’ingiustificabile sofferenza dei bambini.

Secondo Camus, Ivan incarna il «rifiuto della salvezza»: la chiave per interpretare la sua posizione è l’«anche se». Questa interpretazione di Ivan non è tanto distante da quella che Berdjaev propone dell’ateismo russo, e in un certo modo insiste anch’essa sul carattere religioso che malgrado tutto ispira la sua posizione, la quale tuttavia deve considerarsi come assai più complessa e sfumata.

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F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 434.

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sia possibile realizzare un sistema di armonia e felicità in cui ogni sofferenza si trasforma in gioia attraverso il perdono universale. Lo spettacolo delle lacrime umane di cui è imbevuta la terra, pone all’uomo degli interrogativi escatologici. Perché? A qual fine? Già qui (sulla terra) l’uomo cerca la spiegazione di ciò che accade. Proiettare la soluzione nel mistero dell’infinito, in un paradiso dove non valgono più le leggi dello spazio e del tempo, della materia e della causalità, significa rinunciare all’intelletto, alla logica di uomini terrestri.325

Per questo Ivan rifiuta la suprema armonia; essa non vale le lacrime dei bambini, non le riscatta; e se non le riscatta, di quale armonia si parla? «Io non voglio l’armonia, non la voglio per amore verso l’umanità. Preferisco che le sofferenze rimangano invendicate. Troppo poi si è esagerato il valore dell’armonia!».326

Crede Ivan o non crede? Anche se crede, non accetta né logicamente né moralmente l’irrazionalità e l’ingiustizia. Anche se tutte le sofferenze saranno sanate e cancellate, anche se tutte le contraddizioni saranno superate; anche se in ultimo, «alla fine del mondo e nel momento dell’eterna armonia», «si compirà e si rivelerà qualcosa di tanto prezioso che basterà per colmare tutti i cuori, per placare tutte le indignazioni, per riscattare tutti i misfatti degli uomini, tutto il sangue da

325 Questo è il punto di vista di Ivan. «Io non ho mica sofferto per concimare con il mio essere, con

le mie colpe e le mie sofferenze, la futura armonia in pro di qualcuno. Io voglio vedere coi miei occhi il daino ruzzare accanto al leone e l’ucciso alzarsi ad abbracciare il suo uccisore. Io voglio esser presente quando tutti apprenderanno di colpo perché tutto sia stato così». Ivi, p. 337. La logica terrestre è la logica dell’hic et nunc, la logica della certezza e non del mistero. «La solidarietà fra gli uomini nel peccato io la comprendo, comprendo la solidarietà anche nell’espiazione: ma la solidarietà nel peccato non riguarda i bambini, e se la verità sta realmente nel fatto che anche loro sono solidali coi padri in tutti i delitti da questi commessi, una tale verità non è certo di questo mondo e mi riesce incomprensibile». Ivi, p. 339.

326 Ibidem. La volontà che ha creato il mondo è, forse, una volontà malvagia. Berdjaev, come nota

Evel Gasparini, «vede nel rifiuto della creazione di Ivan Karamazov una delle fonti “marcioniche” dell’ateismo russo. Marcione, infatti, vedeva tutta la storia del mondo, com’è raffigurata nel Vecchio Testamento, come un dramma malvagio e contraddittorio, messo in atto da un Dio che ha creato questo mondo nel modo peggiore possibile e che non è, Egli stesso, migliore della sua creazione. Cristo, per conseguenza, non può essere figlio di questo creatore (…) ma figlio di un Dio buono sconosciuto agli uomini ed estraneo al mondo, figlio del “Dio straniero” che Paolo predicava nel mercato di Atene». E. Gasparini, Il cosiddetto Cristianesimo di Dostoevskij, in S. Graciotti, Dostoevskij nella coscienza d’oggi, Sansoni, Firenze 1981, pp. 133-144.

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essi versato», anche, afferma Ivan, «se le parallele si congiungono sotto il mio sguardo io lo vedrò e dirò che si sono congiunte, ma tuttavia non l’accetterò».327

Inorridisce al pensiero che il regno dell’armonia ultima si eriga attraverso l’itinerario doloroso della sofferenza. Come si possono amare i prossimi se li si considera per quello che obiettivamente sono?328

A questa osservazione cruda e realistica, la vera replica è quella di Alëša: c’è chi può perdonare perché ha sofferto innocente, c’è chi «può perdonare tutto, tutti e per tutti perché lui stesso ha dato il suo sangue per tutti e per tutto»329; né il mondo è assurdo né la redenzione è fallimentare: il mondo non è fondato su un architetto che finalizza la sofferenza inutile all’eterna armonia, ma sul redentore e sulla sua infinita sofferenza, e la stessa Leggenda è un grande elogio del redentore. A tutta prima il richiamo sembra banale. Prima doverosa notazione è che la posizione di Alëša è del tutto nuova. Egli non insiste sul fatto che nessuno ha diritto di lamentarsi dopo le sofferenze del Cristo; non è questo, a mio giudizio, il fulcro del suo ragionamento, ma tutt’al più una conseguenza secondaria. La sua posizione appare fondata invece su due elementi fondamentali: lo scandalo e il perdono.330

Il rifiuto dello scandalo può avere due esiti: quello di Ivan, e quello di Alëša, per il quale l’affermazione dell’esistenza di Dio esce non solo

327 F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 259.

328 «Sono precisamente i prossimi che, secondo me, non si possono amare, i lontani forse si. Ho

letto, a proposito di Giovanni il Misericordioso (un santo) che, essendo venuto da lui un uomo affamato e intirizzito e avendolo pregato di scaldarlo, si coricò nel letto insieme a lui, lo abbracciò e si mise ad alitargli sulla bocca purulenta e fetida per non so quale orribile malattia. Io sono persuaso che egli lo fece con strazio, con lo strazio della menzogna, per un sentimento d’amore impostogli dal dovere. Per amare un uomo, bisogna che egli rimanga nascosto; non appena mostra il suo viso, l’amore vien meno». Ivi, pp. 260-261.

329 Ivi, p. 336.

330 L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 208. Concordo

con Pareyson nell’asserire che anche Alëša enuncia il suo «non accetto il mondo». Quando egli, a Rakitin che acutamente l’ha sorpreso nel momento del dubbio, dichiara, riprendendo la formula di Ivan: «Io non mi ribello al mio Dio, soltanto “non accetto il suo mondo”», segna chiaramente il limite fra il rifiuto e la rivolta, fra la ripulsa e la negazione, fra lo scandalo e la bestemmia, col che stabilisce la barriera entro la quale può procedere d’accordo con Ivan e oltre la quale deve divergere da lui, e la misura in cui il discorso di Ivan è ammissibile.

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compromessa ma addirittura rafforzata dallo scandalo e dal rifiuto. Scrive Pareyson: «Per Alëša il problema è di rimuovere le cause che affrettano indebitamente il ragionamento di Ivan verso la negazione senza che vengano esperite altre vie; e il motivo di ciò non può essere che il pensiero euclideo, che sin dall’inizio ha scartato la possibilità di “pensieri di altri mondi”, quale potrebbe essere l’idea della redenzione, e che segue con razionale e rettilinea impazienza la propria dimostrazione in due tempi circa il fallimento della creazione e quello della redenzione».331

L’antropologia dostoevskijana culmina nel fermo amore di Alëša, ma questo amore ha un senso solo perché passa attraverso la problematicità di Ivan, che non è semplicemente l’errore o il male, come ritengono alcuni critici. Ivan aveva enunciato il principio dell’assoluta imperdonabilità della sofferenza inutile. Ma quando Alëša dichiara che c’è chi per aver sofferto innocente può perdonare e quindi riscattare la sofferenza dei bambini, mostra di ritenere che dalla stessa sofferenza si leva un’esigenza di perdono e di riscatto: «La sofferenza inutile, nell’atto stesso che grida allo scandalo e ingiunge il rifiuto, eleva un’aspirazione di riscatto e una implorazione di perdono».332

L’esempio dei bambini ha un’evidenza e una forza singolari e dimostra quanto sia incoerente ed ingiusto il presunto ordinamento provvidenziale del mondo. Alla negazione di Ivan fa subito da contrappeso l’affermazione di Alëša, e l’antitesi non meno della tesi entra a comporre l’uomo, in cui convivono gli opposti. In ogni uomo si nasconde una belva e un santo: è questo il paradosso dell’esistenza. Ciò che Ivan non accetta è di unirsi al coro: egli preferisce restare dalla parte della «sofferenza invendicata» -la sofferenza dei bambini, oggetto di sevizie gratuite e perverse- perché quella sofferenza non può e non deve servire ed essere piegata ad altro, sia pure a un’armonia che la fagociti in una eternità di redenzione.

331 Ivi, p. 209. 332 Ibidem.

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Non può perché precisamente quell’armonia non le farebbe che un’ulteriore violenza e un ulteriore sfregio, con ciò spesso contraddicendosi e mostrandosi disarmonica anche solo per questo fatto; non deve, perché anche se lo potesse, e se cioè anche questa contraddizione logica fosse a sua volta riassorbibile dall’armonia stessa in quanto teodicea, l’imperativo etico che ne impone il rifiuto sarebbe non meno categorico. Giustamente Givone sostiene che, da questo punto di vista, Dio appare come un doppio e un simulacro.333

Niente si incunea in questa struttura teorica più fortemente che il sommesso ma fermo rilievo di Alëša. Quando Ivan racconta di un certo latifondista che ha fatto sbranare dai cani il figlio di un servo della gleba, Alëša esclama: «Che sia messo al muro!» Come si può parlare di un programma di attività sociale? Del resto, in Alëša vediamo venirci incontro prima di tutto l’uomo della comunità. Comunità è, in prima linea, unione di uomini; e intorno ad Alëša tutto si riunisce come spontaneamente. Il simbolo della fratellanza fondata da Alëša è significativo. Prescindendo da profonde esperienze vissute nelle relazioni coi fratelli, è prima di tutto una metamorfosi interiore che lo ha reso spiritualmente uomo e saggio. Mi riferisco a ciò che gli è accaduto nel monastero dopo la morte dello starec, quando dopo una breve ma terribile «rivolta» luciferina, egli provò una impreveduta estasi, dopo di che lasciava il monastero per «perseverare nel mondo» secondo l’ordine dello starec. L’azione di Alëša nel mondo comincia con la creazione di un particolare legame tra gli uomini che lo circondano. Questo legame viene stabilito non per il conseguimento di un qualsiasi scopo né per servire ad una qualsiasi idea determinata: esso è concreto e lega tutto l’uomo in ognuno di coloro che si affratellano a lui. È il legame degli uomini in nome di una personalità che è vicina a tutti e allaccia tutti tra loro, una personalità che in vita

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Il punto di vista di Ivan, sottolinea Givone, è quello del pensiero da lui chiamato «euclideo», pensiero che si attiene all’esperienza, pensiero che concepisce il mondo sul modello della meccanica: qui, se è riconoscibile la realtà della sofferenza, non lo è però quella dei colpevoli, se non altro perché ogni cosa deriva naturalmente da un’altra e «tutto scorre e si equilibra». Cfr. S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, cit., p. 143.

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era al contempo fanciullo ed eroe, ribelle e martire, ma se stesso nella sua totalità. Già Ivanov riconosceva l’importanza del carattere personale, reale della fratellanza di Iljuša.334

Si può dire che il ricordo di Iljuša proteggerà dalla disperazione e dalla rovina, dall’ultimo cedimento di fronte allo spirito del non-essere.335

Il fondatore di questa piccola comunità, devota alla memoria sacra del giovinetto-martire Iljuša, è appunto Alëša. La conclusione educativa di Alëša, con la quale ha termine il romanzo, è l’invito a «non temere la vita», perché essa è buona, «quando si fa qualcosa di buono e di giusto».336

La piccola lega è un’autentica Chiesa mistica e invisibile e in essa sopravvive l’apostolato umile di Alëša. Ma tale apostolato, per quanto elevato, a

334 Scrive Ivanov: «Questo legame somiglia piuttosto ad una coppa che gira, nella quale una volta,

durante l’epoca amara e sconsolata di una fanciullezza comune quasi ancora pura di ogni colpa, si siano mescolati tutta la vita ogni singolo, la comune colpa e il comune perdono, come se tutta la vita di Iljuša si fosse diffusa sulla vita di ogni singolo, arricchendola e mutandola per l’eternità e ognuno fosse in contatto con l’altro in Iljuša e per mezzo di Iljuša». Cfr. V. Ivanov, Dostoevskij.

Tragedia. Mito. Mistica, cit., p. 154.

335 Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk considera che ciò che caratterizza la posizione

dostoevskijana nel campo della filosofia delle religioni è il fatto di essere stata la prima a riconoscere e a pensare fino alle sue estreme conseguenze la possibilità di riprogrammare la cristologia su base idiotica, anziché su base angelotica. L’idiota, ma anche il bambino, è un angelo senza messaggio, colui che completa intimamente e senza distanza ogni entità che incontra casualmente. Anche la sua entrata in scena è legata all’apparenza, ma non perché nell’al di qua essa richiami alla mente lo splendore trascendente. Non è il suo carattere infantile, nel senso corrente del termine, ad aprirgli una particolare via d’accesso verso gli esseri umani. È possibile qualificare come infantile la propensione, nelle relazioni con gli altri, a non mettere in gioco il proprio Sé, ma a rimanere a disposizione quale complemento dell’altro. Quando la possibilità dell’essere infantile così compreso si trasforma in attitudine, ci si trova di fronte a quello che lo scrittore ha espresso col termine “idiozia”. È questo tratto, sempre secondo Sloterdijk, che deve avere interessato Nietzsche nella questione della presunta idiozia di Gesù, dal momento che questi incarna in modo infantile l’ideale della vita nobile e senza risentimento; non, però, dalla parte del Sé attivo, ma da quella dell’accompagnatore, di colui che incoraggia e completa. Di conseguenza, avremmo un’idiozia eminente che si esprime sotto forma di disponibilità e di propensione a servire al contempo, preumani e sovrumani. La vasta opera di Sloterdijk può risultare a tratti irritante. Ma sempre intelligente e raffinata nelle sue analisi. Cfr. P. Sloterdijk, Sfere, a cura di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma 2009.

336 F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., pp. 825-826. «Se l’uomo può raccogliere molti

vitali ricordi e portarli con sé nella vita, egli è salvo per sempre. E quand’anche un solo buon ricordo rimanesse con noi, nel nostro cuore, anche quello potrebbe un giorno servire alla nostra salvezza. Forse anche noi più tardi diventeremo cattivi, non avremo la forza di astenerci dalle male azioni, rideremo delle lacrime umane; e di coloro che dicono, come Kolja: “voglio soffrire per tutti gli uomini”, anche di questi forse ci befferemo malvagiamente». Ibidem.

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mio avviso rimane catechistico. Ci porta realmente Alëša su di un piano di umanità superiore? Incarna veramente un tipo perfetto e armonico di uomo, in cui siano superate le manchevolezze biologiche dell’“idiota”? Credo sia lecito dubitarne. Attraverso Alëša, lo scrittore intendeva uscire dalla crisi dell’uomo, additando nell’amore religioso la soluzione alla colpa di vivere unilateralmente nel senso, nell’intelletto o in un loro infelice abbinamento. Alëša rappresenta uno degli aspetti di quella crisi in cui Dostoevskij stesso si dibatte. Certo non si può sostenere che la sua figura sia marginale o mancata o non vissuta. Essa rappresenta forse l’impotenza dello spirito e dell’etica. Queste considerazioni, anche se non chiaramente esplicitate, sono contenute nella replica di Alëša, che non è da ricondurre alla tesi banale che nessuno ha diritto di lamentarsi di soffrire di fronte alle sofferenze del Cristo. Ciò che egli intende affermare è che perfino la sofferenza perde molto del suo carattere di scandalo di fronte ad uno scandalo infinitamente più grande, quale può essere quello della sofferenza del redentore. La sofferenza del redentore è l’unica risposta che si può dare al problema del dolore: è la risposta in generale al problema della sofferenza.

Allo scandalo della sofferenza del puro paziente, Alëša contrappone lo scandalo del redentore, del Dio che soffre e muore. Il problema di Dio, in quanto problema soltanto metafisico, è superato d’un colpo: giacché se Dio ha preso su di sé il carico, nella sua forma più folle e scandalosa, allora non è più possibile far valere contro Dio questo scandalo e questa follia: questo, è il nichilismo a esigerlo, proprio in quanto è pensiero ancora metafisicamente strutturato, e come tale incapace di vedere in Dio altro che il fondamento, la ragione di tutto ciò che accade, sia pure il fondamento e la ragione da togliere, negare portare al niente.

Dio, piuttosto, si fa scandalo e follia, e fa dello scandalo e della follia la condizione tenebrosa del suo essere: senza scandalo, senza follia, come pensare Dio, in che modo averlo come interlocutore all’estremo confine, dove riconoscerlo differente dal semplice disordine delle cose? È Dio che, negando se stesso, portandosi al niente e portando il niente a sé, rende sperimentabile la

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negazione, l’annientamento, ed è il movimento dell’annientare che reclama l’essere, così come, là dove è arrestato sul fronte dell’insensatezza dell’essere, ne chiede il senso. Ma in tal modo il problema è davvero risolto?337

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Dostoevskij non affronta lo sconcertante mistero della sofferenza degli animali, se non per riprovare l’uomo che incrudelisce su di essi e diffidarlo dal trasmettere loro il disordine della sua peccaminosità. È evidente che per un’adeguata trattazione di questo problema si deve ricorrere a Schopenhauer; della sofferenza degli animali Dostoevskij offre una rappresentazione poeticissima, ripercorrendola due volte, tanto nel sogno di Raskol’nikov quanto nel discorso di Ivan, in cui seguendo la poesia di Nekrasov si descrive il contadino che percuote senza pietà il suo cavallo mite e indifeso sui «mansueti occhi lacrimanti» sino a farlo morire. Questo atteggiamento verso gli animali riveste un duplice e indivisibile carattere di crudeltà, giacché tanto più si infierisce sull’animale quanto più esso è paziente e indifeso, come se si trattasse di un attentato alla sacralità della vita e al volere divino. Ciò appare non soltanto dal giudizio implicato nelle descrizioni delle atrocità compiute dai ragazzi (Kolja e Iljuša) sugli animali, ma soprattutto dalle parole dello

starec: «Amate gli animali: Dio ha dato loro un principio di pensiero e una gioia senza

inquietudine. Non tormentateli, non turbateli. Uomo, non ti esaltare al di sopra degli animali: essi sono senza peccato, mentre tu contamini la terra». Ivi, p. 884.

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CAPITOLO III

Il mondo alla rovescia: