• Non ci sono risultati.

B ONNEFOY E LE « TRADUCTIONS NOUVELLES » DI L EOPARDI ( E K EATS )

L’importanza dell’elaborazione di un apparato paratestuale ruotante intorno al «far poesia» stricto sensu si palesa anche nel lavoro di traduzione.

Un’altra riflessione critica intorno a Leopardi è infatti presente in apertura del volume Keats et Leopardi. Quelques traductions nouvelles in cui Bonnefoy propone delle ri-traduzioni dei due celebri poeti, accostandoli –sorprendentemente- l’uno dopo l’altro.

Si ha così una conferma di come sia impossibile parlare isolatamente di traduzione in Bonnefoy senza che i piani della scrittura poetica, della critica letteraria e artistica e quello appunto traduttivo si intersechino vicendevolmente.

Secondo quanto indicato nella premessa, che ha già in sé tutti i caratteri di una prosa poetica, traducendo si giunge a un miglior ascolto del testo e sia l’Ode to a nightingale di Keats che il leopardiano Canto notturno, essendo per il traduttore francese tra le più belle poesie mai scritte, suscitano il desiderio di «les rencontrer au plus immédiat de soi-même».247 Ritorna quindi il motivo del desiderare associato alla traduzione e, tra le «découvertes» che le poesie dei due autori permettono di fare vi sono molti termini chiaramente connotati in senso leopardiano, dal «chant de l’oiseau» alla «lune», dalla «lampe» evocata nella Sera del dì di festa alla finestra che costituisce il punto di osservazione privilegiato del giovane Giacomo per poter poi cantare il mondo circostante, sino allo scenario notturno «avec se propres rumeurs, ses propres chants qui s’éloignent».248

L’io lirico romantico si autoidentifica simbolicamente con elementi naturali (come la ginestra o la luna), e questo è un motivo anche di Keats o di Wordsworth, offrendo quasi, al tempo stesso, al critico-traduttore le categorie interpretative, e lessicali, con cui esprimere il proprio discorso. Questa premessa sembra essere, infatti, uno degli esempi più chiari, di assimilazione del dettato lirico degli autori tradotti, entro la propria scrittura.

La traduzione, in qualche modo, permette quasi l’avveramento di un sogno: «Nous traduisons par rêve qu’il y ait sous la diversité des idiomes un chemin qui s’ouvre, le seul parce qui’ il serait déjà tout près de son arrivée, dans l’invisible».249

247 Bonnefoy, Keats et Leopardi. Quelques traductions nouvelles¸ Mayenne, Mercure de France, 2000,

p. 7.

248 Ibidem. 249 Ivi, p. 8.

Una costante del lavoro critico di Bonnefoy è rappresentato dal legame tra gli autori presi in esame e la morte e la finitudine, in un’indagine del crinale tra disperazione e lucidità nell’accostarsi a questa ‘presenza’ ineluttabile nelle nostre vite.

La poesia si configura allora non solo secondo dei criteri formali, ma come ostinazione,250 sforzo di volontà, un modo di reagire alle contraddizioni dell’esistenza umana.

Questo discorso potrebbe aiutarci a cogliere meglio il senso del dittico creato da Bonnefoy col porre a confronto Keats e Leopardi: entrambi, secondo Durisotti,251 in questo volume di Voix parallèles (più che di Vies parallèles) si muovono nei territori di una profonda lucidità, differendo per altri aspetti quali una maggiore sensualità nel poeta inglese e un senso più marcato del tragico in quello italiano.

La traduzione viene allora a porsi come luogo in cui si esplica la complementarità esistente tra critica e poesia, venendo talvolta a colmare delle lacune presenti nella propria lingua poetica, permette di compiere un’agnizione della propria voce ritrovata in quella di un altro.

Baudelaire ha, ad esempio, espresso in modo molto chiaro questa capacità ‘suppletiva’ della traduzione a proposito della sua scelta di tradurre Edgar Allan Poe, ricordando di essersi accostato a «des poèmes et des nouvelles dont j’avais eu la pensée, mais vague et confuse, mal ordonnée, et que Poe avait su combiner et mener à la perfection. Telle fut l’origine de mon enthousiasme et de ma longue patience».252 Ma anche Leopardi, come si ricordava all’inizio di questo capitolo, aveva espresso dei concetti simili quando rievocava le sue prime esperienze di traduttore come rimedio a situazioni che si potrebbero definire, secondo la terminologia freudiana, ‘perturbanti’.

Ciò che si trova allo stato confuso, magmatico, disarticolato nel nostro pensiero, può passare dalla potenza all’atto nel momento in cui una voce straniera esprime qualcosa che corrisponde a un nostro stato d’animo, a una nostra emozione, per cui si ha la conferma, ancora una volta, di come il tradurre sia una forma di scrittura che si produce all’ombra di un’altra lingua, per riprendere il titolo del recente saggio di

250 Cfr. Maxime Durisotti, Yves Bonnefoy traducteur de Keats: d’une finitudine à l’autre, in:

http://mdurisotti.files.wordpress.com/2008/12/yves-bonnefoy-traducteur.pdf, Aix-en-Provence, 3-5 décembre 2008, p. 2.

251 Ibidem.

252 Charles Baudelaire, lettre à Armand Fraisse, 18 février 1860, in Id., Correspondance, choix et

Antonio Prete sulla poetica del tradurre, in cui la varietà delle lingue garantisce una chance in più per chi è in cerca di una parola in grado di esprimere compiutamente il nostro pensiero.

Il primo dato che si rivela immediatamente a chi compulsa il volume Keats et Leopardi è il consistente fenomeno di amplificazione testuale compiuto sistematicamente dal traduttore, fenomeno questo che si manifesta sovente nelle traduzioni, ma qui particolarmente evidente.

Già scorrendo i titoli delle sette poesie inglesi tradotte si notano molte contiguità tematiche con I Canti: dal riferimento astrale della prima poesia, al compiacimento per la gioia dell’usignolo nell’Ode to a nightingale («’Tis not through envy of thy happy lot, / but being too happy in thine happiness, -», vv. 6-7) affine al motivo dell’invidia degli uccelli presente in Leopardi nell’operetta L’elogio degli uccelli e nella fantasia metamorfica del Canto notturno («Forse s’io avessi l’ale»), sino alla traduzione dell’Ode on melancholy, a quella dedicata a un’urna greca (e sia le note melanconiche che il riferimento alla classicità è anche del Recanatese) per concludere poi con The day is gone, assimilabile nel pensare alle sensazioni alla fine della giornata a La sera del dì di festa.

Le affinità non sono comunque solo tematiche, e anche secondo Scotto,253 nell’interpretazione critica di Bonnefoy si rivela la possibilità per la poesia moderna, inaugurata da Leopardi, di una sostanziale identità di verità e bellezza, celeberrimo tema keatsiano: «“Beauty is truth, truth beauty”», Ode on a grecian urn tradotta dal poeta francese con «Beauté, c’est Vérité, Vérité Beauté» e poi riproposta nella sua produzione creativa in più luoghi, ad esempio ne La maison natale tratta da Les planches courbes: «La beauté même en son lieu de naissance / quand elle n’est encore que vérité».

Dopo le versioni da Keats, la prima traduzione leopardiana a essere inserita nel volume è L’infini che si riporta integralmente per poter meglio analizzarne le specificità:

Toujours chère me fut cette colline Solitaire; et chère cette haie

Qui refuse au regard tant de l’ultime Horizon ce monde. Mais je m’assieds,

253 Scotto, Yves Bonnefoy e Leopardi: tra critica e traduzione, «Trasparenze», 21, 2004, pp. 69-80 (in

Je laisse aller mes yeux, je façonne, en esprit, Des espaces sans fin au-delà d’elle,

Des silences aussi, comme l’humain en nous N’en connaît pas, et c’est une quiétude On ne peut plus profonde: un de ces instants Où peu s’en faut que le cœur ne s’effraie. Et comme alors j’entends

Le vent bruire dans ces feuillages, je compare Ce silence infini à cette voix,

Et me revient l’éternel en mémoire Et les saisons défuntes, et celle-ci Qui est vivante, en sa rumeur. Immensité En laquelle s’abîme ma pensée,

Naufrage, mais qui m’est doux dans cette mer.254

La poesia di Leopardi si articola in due momenti, corrispondenti a due distinte sensazioni: la prima (vv. 1-8) visiva o meglio segnata dall’impossibilità della visione (la siepe che impedisce allo sguardo di spingersi oltre) che porta a riflessioni sull’infinito spaziale e la seconda (vv. 8-15) uditiva in cui l’immaginazione prende l’avvio dallo stormire del vento, dato effimero che viene paragonato all’infinito temporale (l’«eterno»).

Nei Canti i due momenti occupano ciascuno esattamente sette versi e mezzo, laddove il momento di passaggio è segnato al verso 8 da una forte pausa al centro, marcata dal punto fermo: «il cor non si spaura. // E come il vento», anche se la congiunzione coordinativa «e» permette di cogliere la continuità tra le due fasi.

Nella traduzione di Bonnefoy, invece, i due momenti sono nettamente separati in due strofe distinte: la prima di 10 versi e la seconda di 8 per un totale di 18 versi liberi anisosillabici di decasillabi di contro ai 15 versi isosillabici endecasillabi del testo monostrofico leopardiano.

Nonostante la maggiore lunghezza della versione francese, tuttavia, il numero di periodi, e quindi la struttura sintattica d’insieme, rimane invariata. Molte sono comunque le libertà che il poeta si concede dialogando, più che traducendo alla lettera, l’originale.

Al primo verso vi è l’enjambement con «cette colline / solitaire» che traduce «quest’ermo colle»: in tal modo si assiste alla consueta perdita del termine desueto «ermo» come già avvenuto in altre traduzioni francesi prese in esame e insieme alla maggiore enfasi sul tratto semantico della solitudine con il termine «solitaire» posto

a inizio del secondo verso, così come «caro» usato una sola volta da Leopardi si duplica con la ripetizione di «chère» in riferimento alla collina e poi alla siepe.

Anche nel caso di «ultimo orizzonte» Bonnefoy adotta un procedimento analogo inarcando il verso 3 proprio con «ultime / horizon».

La diretta transitività dell’espressione «il guardo esclude» non è mantenuta in genere nelle traduzioni francesi, e quindi anche in questo caso, che limitano la scarsa visibilità dell’orizzonte a «tant de», a una parte cioè di esso, di contro ad altre traduzioni che lo escludono per intero.255

Si ritrovano poi alcune aggiunte di tipo esplicativo, ad esempio al verso 4 con «horizon de ce monde» che rende più ‘attuale’ e colloquiale la profondità di «ultimo orizzonte» o al momento di tradurre i gerundi «sedendo e mirando», fondamentali per comprendere la valenza del percorso immaginativo compiuto da Leopardi.

In questo caso, infatti, i verbi al modo infinito sono resi scindendo i due momenti, accostati per asindeto e separati, ancora una volta, in versi diversi («je m’assieds, / je laisse aller mes jeux», vv. 4-5) e in cui è sicuramente efficace, ma anche molto soggettiva, la scelta di rendere «mirare» con una perifrasi che dà l’idea di un libero fluire dei pensieri originato appunto dalla vista, da un procedimento erratico degli occhi lasciati liberi di osservare il paesaggio circostante.

Non stupisce che il poeta francese riesca a cogliere la valenza particolare del «fingere» leopardiano, inteso appunto come un processo inventivo-immaginativo consapevole, e merita sicuramente una riflessione la scelta di tradurre gli aggettivi composti riferiti agli spazi e ai silenzi («interminati», «sovrumani») posti in enjambement nel testo italiano con altri giri di parole o meglio con «sans fin» nel caso degli spazi e con una più lunga perifrasi per i silenzi, esplicitando, con un’ipertraduzione, l’aggettivo «sovrumani» con un difetto gnoseologico attraverso l’espressione «l’humain en nous».

Analogamente la «profondissima quiete» è resa con un’altra perifrasi e, comunque, con la separazione tra il sostantivo e la sua qualificazione.

Tra gli scarti significativi, Scotto ha rilevato la particolare interpretazione al passato «comme alors» al verso 11 della traduzione del «come» (v. 8) che ha il significato di “non appena”, venendo dunque a porre un distanziamento temporale

entro il tessuto lirico, marcato non a caso dalla scissione in due strofe e creando quindi una separazione tra due momenti «ora» e «allora».256

Nella seconda parte, i primi versi ricalcano con maggiore fedeltà il testo-source, con una preferenza rivolta allo stile nominale negli ultimi tre versi, particolarmente efficaci nel rendere la dolcezza e il mistero dell’esperienza infinitiva leopardiana.

Sono infatti posti in rilievo i sostantivi «immensità» e soprattutto «naufrage» in sostituzione dell’infinito sostantivato del testo leopardiano con l’aggiunta della congiunzione avversativa «mais» che esplicita come il naufragio rechi in sé tratti semantici euforici e non negativi.

Nel complesso Bonnefoy tende a semplificare l’intenso polisindeto del testo italiano e sicuramente ad assimilare, come vedremo anche negli altri casi, la poesia leopardiana alla propria poetica o comunque alla poetica ‘francese’ del suo tempo.257 Pur mantenendosi sostanzialmente fedele, infatti, ad alcune peculiari scelte stilistiche leopardiane, quali il reiterarsi della deissi locativa («questo», «quello») resa con degli equivalenti sintattici francesi, la versione del poeta di Tours si contraddistingue per la sua notevole autonomia espressiva, già evidente nella ricreazione strutturale con la proposta di un testo bi-strofico, dalla prevalente tendenza a ripristinare l’ordine sintattico lineare (soggetto + verbo) nei versi 3, 9-11, evitando gli iperbati alla già ricordata tendenza all’amplificazione del testo o all’aggiunta di termini («de ce monde», v. 4; «alors», v. 11).

Le anafore sono generalmente preservate (la congiunzione «e» resa con «et», ma anche con «aussi» al verso 7) e, generalmente, pur nelle variazioni, si rivela molto felice la scelta di tono e di registro che conferisce al testo eleganza e poeticità.

In più luoghi dei suoi scritti teorici, Bonnefoy ha espresso la sua scarsa fiducia intorno alla possibilità di trovare equivalenze prosodiche tra lingue diverse: non stupisce pertanto che numerose figure di suono dell’originale (come le numerose occorrenze della sibilante /s/) siano andate perdute nella traduzione.

Nel suo contributo Tradurre Leopardi, Bonnefoy si sofferma anche sull’Infinito, iniziando col commentare le sue difficoltà nel tradurre i primi tre versi.

In particolare svela di aver pensato di tradurre «questa siepe» con il plurale «ces haies» e di aver ripristinato il singolare solo poco prima che il testo andasse in

256 Scotto, Yves Bonnefoy e Leopardi: tra critica e traduzione, cit., p. 76. 257 Cfr. Vegliante, Tradurre (a) L’infinito, cit.

stampa, in sintonia con lo stesso Leopardi che, in molte poesie, come il Canto notturno aveva più volte variato le parole da singolare a plurale.

Così scrive il traduttore:

Et, avec ainsi en esprit cette pensée que je crois constante chez Leopardi autant qu’essentielle à la poésie, j’avais donc grand envie d’en retrouver l’intuition et l’élan dans L’infinito; grande envie de placer, entre «il guardo» découvrant les «interminati spazi» et l’horizon, non pas une haie, au premier plan et accaparante, mais tout un réseau de barrières basses, disséminées sur les pentes, qui chacune déroberait une part de «l’ultimo orizzonte» mais sans décourager pour autant un poète qui saurait qu’il peut aller jusqu’aux haies, celle d’ici mais celles aussi de plus loin, de là-bas, et les contourner, pour chercher plus loin, voir plus loin, espérer encore, malgré la mort, comme le berger dans les dunes de l’Asie.

Mais substituer ainsi un pluriel, ouvert sur le rêve, au singulier qu’a retenu le poème, je dois bien penser tout de même que ce serait trahir celui-ci.258

Proseguendo il suo discorso Bonnefoy mostra di aver colto l’opposizione esistente ne L’infinito tra l’immaginazione che si perde negli «interminati spazi» e insieme la sensazione di enorme vicinanza della siepe, delle piante al soggetto poetante.

Anche per questo componimento Bonnefoy dichiara la sua tentazione di ritrovare l’aspetto della speranza, espressa attraverso parole comuni che, secondo il poeta- critico-traduttore, garantiscono la sua grandezza e modernità.

Ben prima di Mallarmé, infatti, è moderno avere scoperto il non-essere e aver stabilito che questo potrebbe significare poco per l’uomo motivato dal desiderio di conoscenza che lo spinge ad andare avanti pur nella consapevolezza del non-approdo finale.

Omologa a queste considerazioni appare pertanto la traduzione degli ultimi tre versi dove viene meno il «così» che indicava la modalità dell’evento (“in questo modo”) e soprattutto con l’avversativa «mais» si propone un’interpretazione critica ben precisa del naufragio leopardiano, inteso come un momentaneo abbandono al negativo, attraverso cui Bonnefoy cerca di correlare la finitudine alla speranza.

Da saggista meta-traduttivo, secondo la definizione di Scotto,259 Bonnefoy sente il bisogno di scrivere e chiarire in margine alle sue stesse scelte, pienamente consapevole della criticità del suo compito come si manifesta anche nell’ambito della sua lunga frequentazione da traduttore di Shakespeare che lo ha portato a corredare le sue versioni di numerosi saggi critici.

258 Bonnefoy, La communauté des traducteurs, cit., pp. 136-137. 259 Scotto, Yves Bonnefoy e Leopardi: tra critica e traduzione, cit., p. 74.

Abbiamo già scritto a proposito dell’interpretazione bonnefoyana della luna con particolare riferimento al Canto notturno, ma già con Alla luna il traduttore si trova a misurarsi con uno degli interlocutori (anzi delle interlocutrici) più frequenti della poesia leopardiana.

Se L’infinito ruota intorno al motivo dell’immaginazione, Alla luna privilegia invece quello della memoria, anche se naturalmente i due motivi sono ben interrelati l’un l’altro. Rispetto alla traduzione poc’anzi esaminata, in questo caso Bonnefoy si mostra più fedele rispetto al testo di partenza, limitandosi a poche variazioni:

À la lune

Ô gracieuse lune, je me souviens

Que, voici presque un an, sur cette colline, Je venais te revoir, le cœur plein d’angoisse. Et comme maintenant tu baignais alors Toute cette forêt de ta lumière.

Mais embrumé, mais tremblant ton visage Me paraissait pourtant, parce que de larmes Débordaient mes paupières, si affligée Ėtait mon existence. Elle l’est encore,

Et de même façon, lune bien-aimée. Toutefois J’éprouve comme une joie à ce souvenir Et au calcul de l’âge de ma douleur. Qu’il est doux, en effet, quand on est jeune, Et que longue est encore, de l’espérance, La course, et brève celle de la mémoire, De se remémorer les choses passées

Si même elles son tristes, et chagrin qui dure!260

Al verso 3 il sentimento d’angoscia è localizzato più esplicitamente nel «cœur»; uno scarto più significativo si ha nella traduzione dei versi 4-5 del componimento, in quanto alla luna che ‘pende’ sulla selva, rischiarandola si sostituisce l’immagina equorea del satellite della terra che inonda la «forêt» della sua luce; Bonnefoy reitera la congiunzione avversativa, ripetendo per due volte «mais», laddove «mia diletta luna» diventa «lune bien-aimée».

Una dilatazione dell’enunciazione lirica si ravvisa, non a caso, proprio a proposito del motivo del ricordo in cui «e pur mi giova / la ricordanza» è reso con «toutefois / j’éprouve comme une joie à ce souvenir».

Molti sono i casi in cui a termini più desueti e ricercati, il traduttore francese sostituisce altri più comuni come l’infinito sostantivato «il noverar» diventa «calcul».

Interessante appare la scelta di esprimere con un chiasmo i versi 13-14 del testo italiano («de l’espérance, / la course, et brève celle de la mémoire»).

Per quanto riguarda la traduzione de La sera del dì di festa, dopo quella dell’Infinito, forse uno dei componimenti su cui maggiormente si sono cimentati i traduttori stranieri, il celeberrimo incipit «Dolce e chiara è la notte e senza vento» costituisce un vero e proprio banco di prova per chi si accosta a Leopardi.

La scelta di Bonnefoy è assolutamente rispettosa del testo originario («Douce et claire est la nuit et sans un souffle») senza neanche proporre l’inversione dei termini che aveva caratterizzato le versioni di Sainte-Beuve e di Nicole.

Come i precedenti traduttori si registra peraltro la scelta di tradurre «vento» con «souffle», preponendo l’articolo determinativo secondo l’opzione che era stata anche di Nicole, ma non di Sainte-Beuve che aveva aggiunto anche il mormorio: «sans souffle et sans murmure».

La dolcezza e la serenità infusa dalla sera è invece marcata particolarmente da Bonnefoy e se Nicole aveva scelto di duplicare l’aggettivo «calme» usato per tradurre «queta» riferito alla luna, qui troviamo invece l’aggettivo «paisible» che nella sua accezione di ‘pacifico’ sembra forse dilatare la capacità del satellite di infondere serenità, implicando cioè una componente ‘attiva’ nel senso non esclusivo di una tranquillità interiore, ma di una capacità di portare pace sui luoghi che