• Non ci sono risultati.

I L LEOPARDISMO ‘ GLACIALE ’ DI J ACCOTTET

Le numerose riflessioni di Jaccottet sulla poesia leopardiana sono strettamente collegate al discorso sulla ricezione dei testi e sulla difficoltà del tradurre la poesia.

In un’intervista rilasciata in Italia nel 1998, dopo la pubblicazione di Pensées sous les nuages, così l’autore dichiara, dopo aver tracciato numerose linee di affinità con l’opera dell’amico Ungaretti:

La poesia oggi, soprattutto in Italia, non è molto letta. Secondo lei per quali motivi?

Io non credo che sia poco letta, in Francia ci sono edizioni tascabili di poeti come Baudelaire o Apollinaire che hanno delle tirature elevatissime. Non so se la poesia sia mai stata molto letta. Quando si legge Leopardi, si capisce come per lui questo problema fosse enorme. Noi non possiamo lamentarci della situazione di oggi quando si vede il destino di Hölderlin per esempio; naturalmente ci sono stati però anche poeti come Victor Hugo, che era un grande poeta e che era un poeta molto letto, ma forse erano le eccezioni. Non so se un poeta come Ronsard, durante la sua vita, abbia avuto grandi soddisfazioni.121

A distanza di tempo, il poeta svizzero si interroga più volte sulla questione della lettura della poesia in termini molto simili a quelli espressi da Leopardi in più luoghi della sua produzione e, in particolare, nell’operetta morale Il Parini, ovvero della gloria.

Inoltre viene stabilito un circolo virtuoso tra lettura e traduzione, come già il Recanatese aveva fatto mirabilmente in molti suoi scritti, sfiorando quello che è un nodo traduttologico fondamentale cioè il problema della traducibilità della poesia.

Di Leopardi, Jaccottet mette in rilievo proprio la difficoltà di traduzione, maggiore rispetto ad altri autori, a proposito dei suoi modelli letterari:

Quali sono i suoi riferimenti letterari?

Troppi, se devo dirli tutti. Scelgo quelli più importanti: primo fra tutti Rilke, lo sentivo molto vicino, soprattutto in gioventù, poi poeti come Baudelaire, Verlaine, più di Mallarmé perché sono più umani, inoltre nella poesia italiana Leopardi forse mi ha influenzato. Leopardi in Francia è praticamente sconosciuto, proprio a causa delle enormi difficoltà di traduzione.122

Il nome di Leopardi ricorre comunque in varie occasioni, soprattutto in riferimento ai grandi classici cui fare ritorno dopo la fase di esordio, poi ripudiata, per i suoi toni più veementi e sregolati, di contestazione e sfida prometeica, alla ricerca di tonalità autentiche.

A questo proposito così Jaccottet ricorda:

Il se trouve qu’au moment où j’ai commencé à écrire, toute une tendance de la poésie, qu’avaient illustrée à la fin du XIXe siècle des génies fascinants comme Rimbaud ou Mallarmé, qu’avaient annoncée, plus tôt, Baudelaire, Leopardi et Novalis, et qui devait aboutir verso 1920 à l’explosion du surréalisme, se fondait sur un besoin, d’ailleurs très authentique et souvent légitime, de rupture; de rupture

121Jaccottet, Osservazioni di un poeta: “Pensieri sotto le nuvole” in:

http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/interviste/jaccottet.html, (13 febbraio 1998), p.2.

plus ou moins violente et totale avec le passé, la culture, la morale, la religion et la société existantes, avec le monde lui-même.123

Se sicuramente più significative, per un’indagine sull’influsso leopardiano, sono le opere propriamente creative composte dopo le traduzioni dei Canti, tuttavia può essere utile soffermarsi cursoriamente anche su alcune caratteristiche delle raccolte poetiche precedenti in modo da riflettere intorno ad alcuni elementi tematici e/o formali simili a moduli leopardiani, non necessariamente per derivazione diretta (nelle prime raccolte Jaccottet potrebbe non aver ancora letto la poesia leopardiana), ma per consentaneità del sentire che motiverebbe una particolare predisposizione del poeta romando a recepire successivamente l’opera del poeta italiano.

Ad esempio nella raccolta del 1953, l’Effraie, composta durante il periodo parigino, e quindi precedente il lavoro di traduzione dei Canti curato dallo scrittore romando, vi sono degli elementi da cui emerge il distanziamento dai primi lavori ed è possibile cogliere qualche affinità con temi e forme espressive care alla poetica del Recanatese.

Si legga ad esempio la poesia posta in apertura:

La nuit est une grande cité endormie

Où le vent souffle… Il est venu de loin jusqu’à L’asile de ce lit. C’est la minuit de juin. Tu dors, on m’a mené sur ces bords infinis, Le vent secoue le noisetier. Vient cet appel Qui se rapproche et se retire, on jurerait Une lueur fuyant à travers bois, ou bien

Les ombres qui tournoient, dit-on, dans les enfers. (Cet appel dans la nuit d’été, combien de choses J’en pourrais dire, et de tes yeux…) Mais ce n’est que L’oiseau nommé l’effraie, qui nous appelle au fond De ces bois de banlieue. Et déjà notre odeur Est celle de la pourriture au petit jour, Déjà sous notre peau si chaude perce l’os,

Tandis que sombrent les étoiles au coin des rues.124

Se l’ambientazione notturna è riconducibile a tonalità genericamente romantiche, già la presenza del vento segna un avvicinamento agli elementi naturalistici cari al poeta di Recanati e soprattutto, di memoria leopardiana, appare l’espressione «Tu dors» del terzo verso del componimento che sembra riecheggiare «Tu dormi» della Sera del dì di festa.

123 Jaccottet, Une transaction secrète, Paris, Gallimard, 1987, p. 309.

Come nella celebre lirica leopardiana in cui il poeta trascorre una notte insonne nella sua camera pensando alla donna amata probabilmente indifferente e ignara del suo tormento, l’io lirico si rifugia nell’«asile de ce lit», mentre la poesia procede con un progressivo processo di distanziamento dalla figura femminile che, insieme al canto lugubre del barbagianni, appare come un precorrimento di morte.

Altri possibili richiami all’opera di Leopardi sono ravvisabili, oltre che nel prevalere di sensazioni uditive (il vento, il canto degli uccelli) da un riferimento all’infinito nell’espressione «ces bords infinis» che riunisce in sé, proprio come molti termini doppi leopardiani, l’idea del limite e quelle dell’illimitato, sia pur in due parole distinte, che sarà ripresa da Jaccottet anche in componimenti più maturi.

Sicuramente, in chiave fortemente disforica, è da intendersi la chiusura del componimento dove alla contemplazione del cielo stellato si sostituisce un progressivo scomparire delle stelle stesse in parallelo con la consunzione dei corpi dei due personaggi della poesia impregnati di un odore di morte «tandis que sombrent les étoiles au coin des rues».

E ancora, dalla raccolta L’effraie, ricordiamo la poesia Les nouvelles du soir, in cui la fine di una storia d’amore si svolge pure su uno sfondo notturno e la vicenda individuale sembra fondersi con le notizie di cronaca gridate dai venditori ambulanti per le strade.

Al verso «dolce e chiara è la notte e senza vento», posto in apertura de La sera del dì di festa, sembra far eco, in questa poesia, l’espressione «L’air est doux» (v. 3), al topos dell’ubi sunt espresso da Leopardi attraverso il ricordo dei fasti dell’antica Roma e delle attuali ruinae, corrisponde qui il ricordo del poeta di un viaggio compiuto l’anno prima con la donna evocata nella capitale italiana, unico ricordo di un amore ormai finito.

Il dissolversi di un sentimento, vissuto nella realtà sia pur per breve tempo, è rappresentato con una successione di immagini molto icastiche, attraverso l’accostamento dei titoli dei giornali alla loro realtà quotidiana («avant qu’on crie “Le Monde” à notre dernier monde / ou “Ce soir” au dernier beau soir qui nous confonde…»), al considerarsi come delle ombre, più labili del fumo nel cielo («ces fumées au ciel / ont plus de racines que nous»).

E ancora la valenza del giorno festivo leopardiano, chiaramente espressa nel Sabato del villaggio, può, in parte, intravedersi dietro le scene domenicali, apparentemente festose, di un’altra poesia che recita così:

Le dimanche peuple les bois d’enfants qui geignent, De femmes vieillissantes; un garçon sur deux saigne Au genou, et l’on rentre avec des mouchoirs gris, Laissant de vieux papiers près de l’étang… Les cris S’eloignent avec la lumière. Sous les charmes, Une fille retend sa jupe à chaque alarme, L’air harassé. Toute douceur, celle de l’air Ou de l’amour, a la cruauté pour revers,

Tout beau dimanche a sa rançon, comme les fêtes Ces taches sur les tables où le jour nous inquiète.125

Le analogie sono da cogliere anche nel procedere per una successione di quadri staccati, secondo la tecnica propria appunto dell’idillio, ripresa da Leopardi per descrivere scene interiori, quelle «situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo» descritti nei Disegni letterari che caratterizzano la riscrittura leopardiana del genere idillico del mondo classico, dando ampio spazio all’interiorità, alla dimensione introspettiva.

Queste tematiche si inseriscono però in modo diverso nella poesia di Jaccottet in quanto corrispondono a un’esigenza di pausa nella sua poesia che permette di meglio soffermarsi sull’ascolto delle cose.

Nella produzione jaccottetiana, infatti, spesso la rappresentazione del «giardino» e quella della «domenica» svolgono la stessa funzione all’interno del tessuto lirico di tipo meditativo.126 Entrambe esprimono la tranquillità, l’uno in un contesto spaziale e l’altro in uno temporale. Il giardino dunque come luogo di pausa, così come la domenica, è un momento in cui si ritrova il tempo generalmente compresso nei ritmi lavorativi, per provare un incontro con l’altro o semplicemente per ritrovare se stessi. La domenica costituisce quindi un momento della settimana, al di fuori della caoticità della vita di ogni giorno, una sospensione del continuum del tempo che scorre ineluttabile, ora dopo ora.

In numerose poesie ricorre il riferimento ai volatili che, oltre a richiamare il titolo della raccolta dedicata appunto all’effraie costituisce, se non una derivazione, quantomeno un importante punto in comune con il poeta di Recanati che in più luoghi della sua scrittore sviluppa il tema ornitologico, associandolo al canto e al volo.

125 Ivi, p. 47.

126 Cfr. Stefano Raimondi, Nella “semina” del mondo Philippe Jaccottet flâneur, in AA.VV., La parola di fronte, cit., in particolare pp. 98-99.

La silloge L’ignorant potrebbe invece trovare le sue radici più profonde nella stessa poetica romantica della poesia ingenua e sentimentale teorizzata, tra gli altri, in area tedesca, da Schiller e ripresa anche da Leopardi in ambito italiano, ad esempio nelle importanti dichiarazioni di poetica del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.

Anche in questa raccolta ampio spazio è dedicato agli uccelli, sempre presenti nella poesia leopardiana, oltre che protagonisti dell’operetta morale Elogio degli uccelli.

Basti pensare alla poesia Le secret o alla Lettre du vingt-six juin, in cui si fa riferimento alla voce degli uccelli e in genere della natura, richiamandosi, con tonalità tutte novecentesche alla necessità di un ascolto della voce della natura, capacità propria degli antichi e ormai del tutto dismessa dai moderni, secondo quanto si può riscontrare nella poesia leopardiana Alla primavera, o delle favole antiche.

Nel caso di Jaccottet le tappe principali del suo cammino verso il raggiungimento dell’illimitato, verso una percezione piena e appagante della natura, sono costituite dall’effacement e dall’ignorance che divengono due elementi caratterizzanti, come concordemente riconosciuto dalla critica, della sua stessa poetica.127

Per ristabilire l’«ancienne alliance» con l’universo, l’uomo, e segnatamente il poeta, deve riuscire a rimuovere dal proprio io tutte le sedimentazioni fisiche e mentali che impediscono quella partecipazione immediata al Tutto, possibile in età arcaica e nettamente preclusa ai nostri giorni.

La cancellazione della propria identità porta alla non distinzione con l’altro-da-sé, dimenticando l’io si può attingere alla «plénitude perdue».

La conoscenza avviene quindi grazie a una nuova relazione che si stabilisce tra le cose, spesso facilitata dalle percezioni sensoriali, come dalla vista e dall’udito.

L’effacement jaccottetiano implica anche l’abbandono del sapere, della cultura, della memoria, in una parola implica l’ignoranza.

Naturalmente, nelle sue affermazioni, il poeta svizzero si rifà al «so di non sapere» di ascendenza socratica, poi ripreso, in varie forme, come si diceva precedentemente, in età romantica e, soprattutto, l’ignorare implica la necessità di porsi, alla maniera dei bambini, tante domande, un’attitudine sempre interrogativa di fronte alla contemplazione del mondo.

Non a caso, nella poesia di Jaccottet, sono frequenti le domande e quindi i punti interrogativi, i puntini di sospensione che rimandano all’incompiuto, gli spazi bianchi, le autocorrezioni, i versi costituiti da brevi sequenze e fugaci allusioni disposti in una successione aperta.

Di una più esibita volontà di canto è permeata la raccolta del 1967 Airs in cui emerge la ricerca di una poesia che si ponga come una musica di parole.

Fondamentale per comprendere il senso di questa nuova prova alla luce della lettura di Leopardi, è la scrittura dei carnets che andranno a costituire la Semaison, quaderni di riflessioni diaristiche e spunti esistenziali che, proprio in forma di frammenti, permettono di meglio comprendere il senso delle stesse opere di poesia, presentando al tempo stesso molti elementi di affinità con lo Zibaldone di Leopardi.

Se i punti di tangenza con il poeta di Recanati sono riscontrabili in ogni silloge, i riferimenti più espliciti possono comunque essere individuati nei più recenti Et, néanmoins (2000) e Notes du ravin, quando ormai la lezione di Leopardi può dirsi certamente assimilata, in cui ricorrono i medesimi tentativi di dialogo con la natura, alcune immagini di sapore leopardiano come quella del viandante che torna a casa dopo una giornata di lavoro, i molteplici riferimenti a Virgilio, autore molto letto e tradotto dal Recanatese, numerosi echi dell’infinito.

Alle poesie si alternano le prose liriche che costituiscono, forse, una delle specificità di questa raccolta in cui, ad esempio, leggiamo:

Ce que l’enfance a pu vous donner, il y a si longtemps qu’on s’en souvient à peine, ce que l’amour permet quelquefois: que le regard voie plus loin que les haies, les murs, les montagnes, la lumière présent, mieux qu’aucun souvenir, l’offre encore aux vieillards recrus afin qu’ils soient encore un peu vivants.128

L’idea di andare oltre i confini del proprio orizzonte, di varcare i propri limiti richiama, in qualche modo, tante delle teorizzazioni del poeta dei Canti riconducibili alla poetica dell’infinito e della doppia vista.

In questo caso alcune scelte lessicali, come il richiamo all’infanzia e soprattutto ad uno sguardo che veda lontano oltre le siepi, al «souvenir» quale corrispettivo della «rimembranza» leopardiana, sembrano davvero rivelare una grande consentaneità con i testi tradotti dal poeta italiano.

128 Jaccottet, E, tuttavia seguito da Note dal Botro, traduzione di Fabio Pusterla, Milano, Marcos y

Il fatto che questa raccolta sia realmente pregna del sentire leopardiano è testimoniato dal fatto che qui vi troviamo, unicum della produzione jaccottetiana, un’esplicita menzione a Leopardi129 e soprattutto ad alcuni suoi versi che ci permettono anche di ripercorrere a ritroso questo scritto alla ricerca di una chiave di lettura che possa permetterci un’interpretazione di un eventuale, discreto, ma costante, ‘leopardismo’ jaccottetiano.

Per questo motivo, riportiamo per intero la prosa lirica contenente questa importante, ai fini del nostro discorso, citazione:

A mes pieds, ce pan de mur jaune parmi la neige, cet autre, rose: ces crépis jugés d’autres jours un peu trop neufs et suaves, on dirait en ce moment le modèle des couleurs de Morandi. Une peinture qui aurait reçu sa lumière de la neige, comme dans le poème de Leopardi dont me hantent merveilleusement ces vers:

In queste sale antiche, Al chiaror delle nevi…130

Il passo riportato, di forte icasticità, congiunge pittura e poesia in una sorta di sinestesia, unendo due autori, Morandi e Leopardi, entrambi studiati e apprezzati da Jaccottet, sotto il segno della neve.

È abbastanza inconsueto il collegamento tra il poeta di Recanati e la «neve» che, infatti, nei Canti usa questo lemma soltanto due volte, la prima al verso 158 di Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze in riferimento negativo alle campagne militari in Russia e la seconda, appunto, nei versi ricordati da Jaccottet, tratti dai versi 68 e 69 de Le ricordanze, ma che comunque in più luoghi della sua produzione fa riferimento a scenari invernali.

Nel passo il chiarore nivale si sovrappone in una doppia evocazione culta, col richiamo pittorico a Morandi che si salda al richiamo letterario di un altro italiano, Giacomo Leopardi di cui vengono ricordati, non a caso, i versi di un componimento che contiene alcuni riferimenti pittorici, in particolare alle volte affrescate della sua dimora recanatese («i figurati armenti»).

Il brano assume inoltre un notevole interesse ai fini del nostro discorso in quanto mostra il perdurare, quasi ossessivo, di una memoria poetica da parte di Jaccottet,

129 Si tratta di uno dei casi in cui la traduzione diviene citazione e il testo di un altro poeta si ingloba

nella propria opera. Su questa tecnica di appropriazione adottata da Jaccottet in riferimento ad altri poeti cfr. Christine Lombez, Transactions secrètes, Artois, 2003, p. 124 e segg. (paragrafo 3.2: Une

écriture «habitée». L’usage des citations chez Philippe Jaccottet). 130 Ivi, p. 196. Corsivi nel testo.

legata da una vicinanza di tematiche, da un chiarore niveo che sembra, forse, rischiarare il gelo di alcuni momenti dell’esistenza e aiutare il viaggio «là où le plus beau livre / n’est qu’un peu durable abri».131

Il brano va contestualizzato all’interno di un volume che privilegia l’elemento del gelo, e in genere, dell’inverno per indicare la stretta contiguità con una stagione della vita che il poeta si trova a vivere in prima persona, caratterizzata quindi da un incupimento del suo sentire «et, néanmoins» dall’urgenza della poesia quale appunto unico appiglio al fluire inarrestabile e inesorabile della vita stessa.132

Molto importante, nelle raccolte Et, néanmoins e Notes du ravin, è il ricorrere della presenza floreale, in particolare di un fiore che, sia pur non nominato, sembrerebbe richiamare il bucaneve, caratterizzato dalla sua capacità di fiorire sotto la neve, nonostante la sua apparente fragilità.133

Leggiamo, ad esempio:

Fleurs parmi les plus insignifiantes et les plus cachées. Infimes. À la limite de la fadeur. Nées de la terre ameublie par les dernières neiges de l’hiver. Et comment, si frêles, peuvent-elles seulement apparaître, sortir de terre, tenir debout? (p. 25) Mais je n’y puis rien: parce que celles-ci étaient parmi les plus communes, les plus basses, poussant à ras de terre, leur secret me semblait indéchiffrable que les autres, plus précieux, plus nécessaire. (p. 102)

Ce qui s’ouvre à la lumière du ciel: ces fleurs, à ras de terre, comme de l’obscurité qui se dissiperait, ainsi que le jour se lève.(p. 108)

Questo fiore, nel suo continuo ricorrere nella poesia jaccottetiana, diventa quasi un analogon della ginestra leopardiana «contenta dei deserti», che riesce a fiorire nel paesaggio riarso della lava, in seguito alle eruzioni vulcaniche.

Dalla sfida al magma infuocato a quella del gelo dell’inverno dunque, il fiore assume, in entrambi i casi, chiaramente una funzione di sfida, dalle intemperie naturali alla valenza eternatrice della poesia che sola sopravvive oltre la morte.

131 Ivi, p. 14.

132 Per dirla con Stefano Agosti (Philippe Jaccottet e i luoghi della verità silenziosa in Id., Forme del testo. Linguistica Semiologia Psicoanalisi, Milano, Cisalpino, 2004, pp. 111-124): «La descrizione di

natura, così incessantemente perseguita da Jaccottet, così insistentemente praticata, assolve – o tende ad assolvere – una precisa funzione: quella di stabilire, nell’elemento di natura, la possibilità del

rispecchiamento di uno stato o di una condizione interiore del Soggetto. Attraverso la descrizione, il

Soggetto mira alla messa a fuoco, fuori di sé (nel paesaggio), di un suo particolare stato interiore, che