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P ROFILO BIOBIBLIOGRAFICO DI J ACCOTTET POETA E TRADUTTORE

Philippe Jaccottet, nato a Moudon nel 1925, è considerato tra i più grandi poeti svizzeri francofoni, del XX secolo.

Dopo gli studi universitari compiuti a Lausanne, durante i quali pubblica le prime raccolte poetiche tra cui nel 1945 Requiem che gli valse l’ammirazione di Gustave Roud e dell’editore Mermod, fondamentale è il periodo trascorso a Parigi come consulente editoriale e traduttore dello stesso Mermod, dal 1946 al 1953, quando lo scrittore avrà modo di incontrare molti intellettuali francesi (tra cui Francis Ponge, Henri Thomas e altri scrittori gravitanti intorno alla rivista «84» sino ai coetani Yves

92 In un’intervista Jaccottet ha parlato espressamente dei suoi lavori di traduzione come di un vero e

proprio lavoro su commissione: «C’était une nouvelle traduction de La mort à Venise de Thomas Mann qui a été mon premier travail. Et c’est comme ça que j’ai commencé à devenir traducteur et je le suis resté jusqu’aujourd’hui, traduisant des dizaines de milliers de pages pour gagner ma vie» (Mel B. Yoken, Interview avec Philippe Jaccottet, in «The French review», LIX, n. 4, marzo 1986).

93 Così scrive infatti Ungaretti in una lettera a Jaccottet del 30/12/1962: «J’aimerais avoir les épreuves

de ma préface au Leopardi. Je l’ai écrit a Caillois. Je la reverrai très attentivement. Je crois qu’elle est en tous sens parfaite. Mais quand j’ai reçu la copie que vous m’aviez envoyée, j’étais très fatigué. Je vous enverrai ensuite les épreuves pour votre révision définitive.» (Ivi, p. 78).

Bonnefoy e Jacques Dupin) e anche alcuni importanti esponenti culturali italiani del dopoguerra.

Al 1946 si data la conoscenza, considerata dal poeta come un incontro «illuminante», con Ungaretti definito «solaire, chaleureux, léonin»94 e che lo introdurrà alla conoscenza di molti poeti italiani, poi tradotti dallo stesso letterato svizzero (Dante, Petrarca, Tasso, Cavalcanti, Leopardi, Pascoli e i contemporanei Montale, Ungaretti, Quasimodo, Luzi, Erba, Cassola).

Nonostante le molteplici opportunità offerte da Parigi, egli si trova a disagio nella grande capitale, avverte un sentimento di inferiorità rispetto alla competitività del mercato editoriale e alla mondanità dei salotti letterari, per cui decide allora di compiere una scelta discreta di retrait che gli permetta di trovare la sua vera ispirazione. Ricorderà infatti: «C’était une façon de fuir pour mieux rester moi- même».95

Jaccottet sceglie quindi nel 1953 di abbandonare la capitale francese, per risiedere stabilmente in Provenza, precisamente a Grignan, con la moglie Anne-Marie Haesler, pittrice.

Il nuovo stile di vita permette allo scrittore di precisare la sua poetica in direzione di una poesia orientata a descrivere la vita quotidiana, i semplici gesti della vita di ogni giorno:

Le quotidien: allumer le feu […], penser aux devoirs des enfants, à telle facture en retard, à un malade à visiter, etc. Comment la poésie s’insère-t-elle dans tout cela? Ou elle est ornement, ou elle devrait être intérieure à chacun de ces gestes ou actes: c’est ainsi que Simone Weil entendait la religion, que Michel Deguy entend la poésie, que j’ai voulu l’entendre. Reste le danger de l’artifice, d’une sacralisation “appliquée”, laborieuse. Peut-être en sera-t-on reduit à une position plus modeste, intermédiaire: la poésie illuminant par instants la vie comme une chute de neige, et c’est déjà beaucoup si on a gardé les yeux pour la voir.96

La scelta di una poesia vicina al quotidiano rende centrale la descrizione del paesaggio, a partire dalla raccolta L’effraie (1953) scritta durante il periodo parigino sino a tutte le altre opere successive, quali L’ignorant (1958), Airs (1967), Chants d’en bas (1974), A la lumière d’hiver (1977), Pensées sous les nuages (1983), Après

94 Com’è ricordato nell’introduzione di Francesca Melzi d’Eril Kaucisvili in AA.VV., La parola di fronte. Creazione e traduzione in Philippe Jaccottet, Bologna, Alinea, 1998, p. 8.

95 Jaccottet, Entretien juin 1978, in Jean Pierre Vidal, Philippe Jaccottet, Lausanne, Payot, 1989, pp.

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beaucoup d’années (1994), sillogi poetiche cui si affiancano anche le prose, tra cui La Semaison (carnets 1954-1979).

Se molteplici sono i testi tradotti da Jaccottet, non altrettante sono le dichiarazioni rilasciate sulla poetica della traduzione e, nonostante, sembrerebbe che lo scrittore svizzero abbia voluto tenere separate le sue attività di poeta e di traduttore, non possiamo non ipotizzare che i due domini si pongano in realtà in feconda interrelazione e influenza reciproca.

Non è certo casuale che le stesse pubblicazioni creative più celebri, da Paysage avec figures absentes (1970) ai Pensées sous les nuages e alle altre raccolte appena citate, sono state composte in anni di intensa attività traduttiva. La maggior parte delle sue traduzioni si data infatti negli anni Sessanta e alla fine degli anni Ottanta.

Come ha acutamente notato Sourdillon,97 Jaccottet cerca sempre di ridurre le distanze tra sé e il poeta tradotto, convertendo la lontananza in «lien radieux».

In questo modo, infatti, Jaccottet, nell’avertissement alla sua traduzione dell’Odissea omerica, definisce l’ideale che ha motivato il suo lavoro.

L’ideale da raggiungere è cioè la riduzione della distanza tra le parole del testo antico e quelle dell’uomo contemporaneo in grado di produrre, con la traduzione, non un allontanamento bensì un “legame radioso”.

Non si tratta dell’unico riferimento al mondo classico: molto efficace è il modo in cui l’autore, da esponente della poesia contemporanea, si correla ai modelli dei grandi letterati che lo hanno preceduto.

Egli si immagina, in un momento di disorientamento (e non a caso «égarement», «faiblesse», «doute» e soprattutto «tâtonnement» sono parole ricorrenti della poetica traduttoria jaccottetiana) intento a vagare tra le opere dei suoi predecessori come se camminasse tra le rovine di una città devastata:

Traînant parmi les ruines des grands poèmes, errant de l’un à l’autre, cherchant appui un instant, puis découragé, refermant ces portes dégondées […] sans pouvoir s’arrêter nulle part; désorienté au sens propre, ayant perdu le soleil levant, le matin, la force du commencement. […] Les poèmes – telles de petites lanternes où luit encore le reflet d’une autre lumière. Peut-être ne voit-on le rose du soir sur les murs qu’au plus froid de l’hiver.98

97 Jean-Marc Sourdillon, Un lien radieux. Essai sur Philippe Jaccottet et les poètes qu’il a traduits,

Paris, L’Harmattan, 2004, p. 9.

Fra le rovine può albergare quella «merveille» che permette di ricevere la conferma desiderata proprio nel momento del dubbio. E parimenti Jaccottet mostra di condividere una «consanguinité des esprits» con i poeti di tutti i tempi e gli spazi che sente affini a sé. Immagina quindi un filo che leghi tra loro quei poeti, a loro volta portatori della medesima luce, diffusa in vario modo.

Entro quest’ottica il lavoro di traduzione potrebbe spiegarsi come disposizione all’ascolto e ricerca di quel quid proprio della poesia, il cui «mistero» è difficile da spiegare.

Tradurre i poeti si configura quindi sin da subito insieme come un lavoro, compiuto sovente su commissione, e una necessità dettata dall’esigenza di rimanere sempre e comunque in contatto con la poesia:

En choisissant la traduction, je choisissais à la fois une indépendance et une insécurité relatives. Surtout, il me semblait que la poésie aurait ainsi plus de chances de n’être pas, dans ma vie, un à-côté, le don d’un loisir, ou un élément de rupture.99

Lo stesso momento creativo è per Jaccottet un’operazione di trasposizione, una «transaction secrète» attraverso cui si prova a ritrascrivere le proprie emozioni e i sentimenti propri del «paysage quotidien».

La poetica che si delinea nelle sue opere creative è d’altronde quella che lo stesso poeta nomina dell’«effacement», prodotta da un forte desiderio e ideale di trasparenza.

E ancora, per Sourdillon,100 la traduzione può essere intesa come un modo privilegiato di lettura, il mezzo per il poeta di ripercorre a distanza più o meno ravvicinata il cammino già compiuto da altri poeti, verso «l’énigme qui nous attire et nous éclaire».

Molta enfasi viene infatti riposta da parte dello scrittore svizzero intorno a quel sentimento di fratellanza quasi fisica con il poeta da tradurre, il quale a sua volta riceve vita dalle nuove parole che, al posto suo, sceglie il traduttore.

La traduzione è spesso definita come «confirmation» dei propri presentimenti, delle proprie ricerche o intuizioni. Essa può avere il valore epifanico di rivelazione e deve comunque rispettare i due criteri della naturalezza e della «justesse».

99 A la source, une incertitude…(1972) in Jaccottet, Une transaction secrète, Paris, Gallimard, 1987,

p. 308.

Per Jaccottet, inoltre, non è forse casuale la scelta di tradurre opere che per lo più si soffermano sull’analisi della crisi attraversata dai loro contemporanei, in quanto, a suo giudizio, ogni poeta deve ‘enjamber’ la sua epoca ed esserne una lucida e soprattutto veritiera coscienza critica.

Troveremo quindi, tra i letterati tradotti, Hölderlin, testimone di un «temps de détresse», Leopardi con le sue riflessioni sulla «haine du siècle», e ancora Ungaretti sulla cecità di quest’ultimo.

Il legame che si viene a stabilire tra Jaccottet e gli autori tradotti, pur non essendo formalizzato, tende lo stesso ad apparire tra le pieghe dialogiche di «échanges secrets» tra i testi tradotti e l’opera poetica creativa del traduttore. Traducendo si può più facilmente attingere ad una visione globale, compiuta “dall’interno”, dell’opera.

Non a caso Mathilde Vischer, che ha dedicato molti dei suoi studi a Jaccottet traduttore, considera la scrittura quale una messa in atto del processo di traduzione e indaga sull’«écriture de la traduction»101 che così si produce.

Lo scrittore svizzero assimila gli autori tradotti innanzitutto al livello della riflessività, in quanto il lettore deve, prima di riformulare il testo in un’altra lingua, rileggerlo più volte, collegando così intimamente il processo di lettura a quello di scrittura.

Spesso al travaglio di lettura del testo si aggiunge anche l’elemento della scrittura critica che suggerisce una particolare interpretazione dell’autore, la quale a sua volta viene ad interagire con il processo di traduzione.

Il lettore, proprio grazie alle numerose incertezze e speculazioni del traduttore, è posto in una condizione di riflessione metacritica sul testo stesso in quanto assiste al processo di elaborazione del senso dell’opera, partecipe di un’esperienza che progredisce attraverso un procedimento spesso erratico ed esitante.

È quanto osserva Fabio Pusterla, divulgatore e traduttore dell’opera jaccottetiana in Italia:

[…] come dovrà comportarsi il lettore? Non sarà forse chiesto anche a lui, sia pure in modo implicito, di condividere quello sguardo dubbioso di sé, insicuro, di procedere a tentoni mettendo continuamente in forse le certezze apparenti a cui credeva di essere giunto durante la lettura? Seguendo questa ipotesi, l’effacement e

l’opacité passerebbero quindi transitivamente dall’autore ai suoi lettori,

imponendosi a questi ultimi come una necessità non meno pressante di quella che

101 Mathilde Vischer, La traduction, du style vers la poétique: Philippe Jaccottet et Fabio Pusterla en dialogue, Paris, Kimé, 2009, p. 318.

aveva inizialmente mosso il poeta, e obbligandoli a una continua verifica di sé stessi.102

Ben oltre l’ipse dixit di una parola autoriale, l’esitazione conduce a una ricerca che porta il lettore a seguire il movimento del testo, in atteggiamento solidale con l’autore e il co-autore, cioè il traduttore.

Sia pur in assenza di dichiarazioni esplicite in tal senso, sono sicuramente numerose le consonanze nella poetica traduttoria espressa dai due autori.

Leopardi, ad esempio, nelle sue riflessioni sulla lingua, così si esprime a proposito della traduzione:

La perfezione della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p.e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile. In francese è impossibile, tanto il tradurre in modo che p.e. un autore italiano resti italiano in francese, quanto in modo che Egli sia tale in francese qual è in italiano. (Zib. 2134-2135, 21 novembre 1821).

Jaccottet manifesta la stessa esigenza traduttoria: anche per lui è necessario adeguare il ritmo, la lingua, tutti i tratti, insomma, del testo originale nella lingua in cui si traduce in modo da riprodurre, quanto più fedelmente possibile, l’inflessione originaria del testo.

È questa d’altronde una forma di quella justesse, anch’essa in altri modi, teorizzata già da Leopardi a proposito dello stile:

La chiarezza e (massime a’ dì nostri) la semplicità (intendo quella ch’è quasi uno colla naturalezza e il contrario dell’affettazione sensibile, di qualunque genere ella sia, ed in qualsivoglia materia e stile e composizione, come ho spiegato altrove), la chiarezza e la semplicità (e quindi eziandio la grazia che senza di queste non può stare, e che in esse per gran parte e ben sovente consiste), la chiarezza, dico, e la semplicità, quei pregi fondamentali d’ogni qualunque scrittura, quelle qualità indispensabili anzi di primissima necessità, senza cui gli altri pregi a nulla valgono, e colle quali niuna scrittura, benché niun’altra dote abbia, è mai di spregevole, sono tutta e per tutto opera dono ed effetto dell’arte. (Zib. 3047, 26 luglio 1823).

L’esigenza di trasparenza presente nella poetica jaccottetiana potrebbe considerarsi un corrispettivo della «semplicità» leopardiana, intesa come spontaneità e naturalezza, e requisito indispensabile della poesia.

Il «semplice» appare per la prima volta nel 1814 in una nota manoscritta alla traduzione dell’idillio teocriteo Il predatore di favi, di cui si loda la grazia in contrapposizione alle liriche oraziane,103 compare in riferimento all’ode XL di Anacreonte Amore ferito («lo stile semplicissimo è in tutto adattato all’argomento»)104 e nel Preambolo alla Titanomachia di Esiodo («la terribilità semplicissima di questo luogo») sino soprattutto a essere considerato autentico traguardo e punto di partenza dello scrittore nelle riflessioni dello Zibaldone, in cui si mostra come il traguardo della semplicità sia da raggiungere mediante «espresso artifizio» oltre che a dover essere esteso all’opera intera:

Perocché la semplicità e la chiarezza sono parti così fondamentali ed essenziali della bellezza e bontà degli scritti, ch’elle debbono essere continue, né mai per niuna ragione (se non per ischerzo o cosa tale) elle non debbono essere intermesse, né mancare a veruna, benché piccola parte del componimento. (Zib. 3049).

Anche quando deve tradurre il poemetto pseudovirgiliano Moretum, considerato «vero esemplare dell’antica semplicità», si ritrovano analoghe dichiarazioni di poetica, nel giudizio espresso su un anonimo autore che alla solennità virgiliana sostituisce una fine ironia e alla grazia di Mosco, una lineare essenzialità.

Molto importante è anche la scelta di mascherare lo sforzo compiuto per raggiungere tale risultato che gli antichi esprimevano con dissimulatio artis e anche le pagine scritte da Leopardi sull’argomento (ad esempio in relazione alla poesia ovidiana) costituiscono un ulteriore elemento di vicinanza con lo sforzo di effacement perseguito da Jaccottet come traduttore e soprattutto durante il suo travaglio poetico.105