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«Basandosi sulla concezione che il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe

Il ‘popolo lavoratore’ del primo discorso comunista era con ogni evidenza un popolo da cui si stagliava nettamente, separandosi ‘geneticamente’, la classe operaia, vera e unica interlocutrice del partito (o futuro partito) comunista:

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«Basandosi sulla concezione che il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe

degli operai industriali e agricoli che non hanno nessuna proprietà privata e considera gli altri strati del popolo lavoratore come ausiliari della classe schiettamente proletaria, il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito» . 209

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Era quindi generalmente presente nel pensiero gramsciano di questi anni una netta separazione tra la classe (‘la classe degli operai industriali e agricoli’) e il popolo (‘gli altri strati del popolo lavoratore’), in quanto il «proletariato», cioè «la classe rivoluzionaria per eccellenza», era solo «la minoranza del popolo lavoratore oppresso e sfruttato dal capitalismo» . Alcuni passi lasciavano invece intravedere una totalità identitaria, come 210

nell’articolo “Scissione o sfacelo?” de l’Ordine nuovo del dicembre 1920:

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«Sarebbe ridicolo piagnucolare sull’avvenuto e sull’irrimediabile. I comunisti sono e devono essere dei freddi e pacati ragionatori: se tutto è in isfacelo, bisogna rifare tutto, bisogna rifare il Partito, bisogna già da oggi considerare e amare la frazione comunista come un partito vero e proprio, come la solida impalcatura del Partito comunista italiano, che fa proseliti, li organizza solidamente, li educa, ne fa cellule attive dell’organismo nuovo che si sviluppa e si svilupperà

Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “Il Congresso di Livorno” (13 gennaio 1921); ora in

207

Gramsci, Scritti politici, vol. 2, p. 113.

Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “Il carnefice e la vittima”, L’Ordine Nuovo, 17 (luglio

208

1921); ora in Gramsci, Scritti politici, vol. 2, pp. 147-148, cit. p. 148.

Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “Per un rinnovamento del Partito socialista”, L’Ordine

209

Nuovo (8 maggio 1920); ora in Gramsci, Scritti politici, vol. 2, pp. 62-65, cit. p. 65.

Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “Problemi di oggi e di domani”, L’Ordine Nuovo (1°-15

210

UNPOPOLO ILPOPOLO

fino a divenire tutta la classe operaia, fino a divenire l’anima e la volontà di tutto il popolo lavoratore» . 211

!

Ma a ben vedere, ‘tutto il popolo lavoratore’ era qui un popolo ideale, nuovo, futuro, quello cioè che aveva acquisito uno status superiore grazie all’azione, all’organizzazione, e all’educazione del partito. Era il popolo cosciente, inquadrato con disciplina nell’organizzazione comunista, che diveniva classe operaia. Era quel popolo composto di ‘uomini nuovi’, ‘risemantizzati’, che poteva giungere in essere soltanto dopo che «tutto [era andato] in isfacelo», perché dalle ceneri non restava che «rifare tutto» su nuove basi, attraverso rinnovamento, rinascita e purificazione.

Negli anni quaranta la narrazione era diversa. Dal popolo monadico togliattiano erano

sottratte tutte le sfumature sociali, comprese le componenti del mondo agrario, tutt’al più richiamate dietro un generico riferimento al mondo contadino . Era la classe che si 212

‘popolarizzava’, ‘si faceva popolo’, e non, secondo la narrazione dei Quaderni, il popolo che ‘si faceva classe’, tramite organizzazione, disciplina, coscienza, elevandosi a ‘classe operaia’, ‘proletariato’, rappresentazione per eccellenza dell’‘uomo nuovo’ comunista. D’altra parte, in linea con la rappresentazione ideale del militante tout court e del partito, il popolo comunista degli anni quaranta era altresì un popolo connotato prettamente in senso maschile, omofobico e in senso lato classista, costruendosi per opposizione alle figure del borghese, del nobile, del chierico . Ed era, infine, sulla base dell’esigenza politica di sovrapporre 213

semanticamente popolo e partito, un popolo ‘nuovo’, che si era costituito, mondando sé stesso, grazie alla guerra di liberazione, per rinascere infine come popolo italiano. Eppure, per certi aspetti, era anche un popolo ‘antico’, perché affondava (concettualmente parlando) le proprie radici in ciò che più veniva interpretato come ‘sano’ e ‘positivo’ nella storia italiana e europea. Un popolo che in una certa misura veniva costruito nella sua veste più sacra, mitica —e il mito non riflette mai qualcosa di spontaneo ma corrisponde sempre a una

Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “Scissione o sfacelo”, L’Ordine Nuovo, 17 (11-18 dicembre

211

1920); ora in Gramsci, Scritti politici, vol. 2, pp. 103-104, cit. p. 104.

Ben diverse le considerazioni di altri noti dirigenti come le riflessioni, a partire dai decreti Gullo

212

(1944) e fino agli anni sessanta e settanta, di Emilio Sereni: Il capitalismo nelle campagne (1860-1900). Con un nuovo saggio introduttivo (Torino: Einaudi, 1968), Storia del paesaggio agrario italiano (Roma; Bari: Laterza, 1972); e Ruggero Grieco: Problemi di politica agraria (Roma: Edizioni di Cultura Sociale, 1950), Lotte per la terra (Roma: Cultura sociale, 1953), Per la riforma agraria e in difesa dei contadini (Roma: Cultura sociale, 1955). Si vedano Paul Ginsborg, “he Communist Party and the Agrarian Question in Southern Italy. 1943-48”, History Workshop, 17 (1984): pp. 81-101 e Sidney Tarrow, PCI e contadini nel Mezzogiorno (Torino: Einaudi, 1973).

Su questo aspetto si veda inra, cap. 3, par. 6.

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«totalità coerentemente organizzata, oltre che significativa» —, attraverso una serie di 214

momenti storici a loro volta caricati di attributi fondativi: la Rivoluzione francese, la Comune parigina, il Risorgimento italiano, la Rivoluzione russa, la guerra di Spagna, la Resistenza. E da queste traeva parte della propria autorappresentazione. Come ha scritto Charles Péguy, la rivoluzione francese del 1789 aveva «siglato la rinascita di tutto un popolo, cosciente del proprio stato, attraverso il quale [era stata poi] fondata la Patria» . 215

Ed era a questo popolo, declinato in questa accezione, che il partito comunista si rifaceva: così come il lavoratore, l’operaio, aveva assunto nella dottrina marxista tratti epici, così il popolo comunista degli anni quaranta, accanto alla classe operaia, riecheggiava il popolo parigino ‘in arme’, forgiatore di mondi nuovi e cittadino attivo (anche se, come nell’immagine della marcia dipinta da Giuseppe Pellizza da Volpedo nel 1898, Il Quarto Stato, la rappresentazione del popolo continuava a svilupparsi simultaneamente come ‘il tutto’ e ‘la parte’, lasciando aperta la strada a non poche ambiguità semantiche e concettuali). Sul piano analitico, potremmo quasi dire che fosse un popolo che riecheggiava l’immagine nobilitata del populus romanus del periodo repubblicano, almeno nella sua accezione di popolo come ‘riunione di tutti i cives’, tralasciando scientemente tutti quei significati che aveva poi acquisito nel tardo periodo repubblicano (popolo come ‘massa indistinta’ o ‘plebe’; come ‘pars’ opposta a ‘nobilitas’; come ‘collettività organizzata nell’assemblea popolare titolare della sovranità’) . 216

In quanto massa autocosciente e spogliata delle responsabilità di collusione col fascismo,

il ‘popolo tutto’ —eppure, a ben vedere, espunto di alcune sue componenti consustanziali— era anche l’elemento precipuo che nella retorica comunista assicurava la coesione della Resistenza. L’accento, nel discorso pubblico, era tutto caricato sul popolo, un popolo interclassista che però trovava la sua legittimazione esistenziale e politica grazie all’attivismo politico e sociale di una sua parte, la classe operaia. Essa emergeva da questo popolo «in sommo grado ‘nazionale’ e ‘patriottico’» —con maggior frequenza su Rinascita— come componente fondamentale:

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«Né semplicemente popolo né altro dal popolo, essa ne era l’autentico fulcro e, come tale,

elemento imprescindibile dell’impegno antinazifascista. Il partito comunista, unito perché

Secondo Claude Lévi-Strauss, citato in Guido Ferraro, Il linguaggio del mito. Valori simbolici e realtà

214

sociale nelle mitologie primitive (Milano: Feltrinelli, 1979), p. 79.

Jean-Marie Pény, Péguy e la rivoluzione. La rivoluzione rancese, eds. Jean Duchesne et al. (Milano: Jaca

215

book, 1989), p. 90.

L’altra accezione del primo periodo repubblicano è quella che legava il popolo a una comunità o a

216

un territorio. Si veda Aurora Savelli, “Sul concetto di popolo: percorsi semantici e note storiografiche”, Laboratoire italien. Politique et société: Le peuple. Formation d’un sujet politique, eds. Sandro Landi & Ilaria Taddei, 1 (2001): pp. 9-24, cit. pp. 1-2.

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guida di una classe unita, rifletteva così al suo interno le migliori qualità di cui il movimento di liberazione doveva potersi fregiare» . 217

!

Ma in generale, nel discorso comunista degli anni quaranta, il popolo era più accomunabile alla nazione e al ‘popolo in armi’, giacobino (nell’accezione di ‘patriota’ e ‘rivoluzionario’), erede del terzo stato della rivoluzione francese e perciò lontano dai linguaggi terzointernazionalisti della divisione netta tra ‘popolo’ e ‘classe’, dove quest’ultima corrispondeva al vero e unico agente rivoluzionario di un movimento comunista che trascendeva i confini delle singole nazioni. Anzi, al pari di altri partiti in questi stessi anni, come il partito comunista francese, il PCI stesso ricercò legittimità politica e sociale per il suo partito di tipo nuovo grazie alla forzosa immissione nella sua tradizione di «un legame germinale con la nazione», mondata discorsivamente del nazionalismo fascista attraverso il recupero del Risorgimento e degli ideali della Rivoluzione francese come momenti fondativi . Proprio l’utilizzo del lemma ‘popolo’ risultava discorsivamente salvifico rispetto 218

alla concettualizzazione della nazione dopo la svalutazione operata dall’ultranazionalismo fascista.

Tuttavia, questa visione ecumenica e universalistica del popolo lasciava trapelare

qualcos’altro. Nella pubblicistica del partito e nei discorsi di Togliatti, leggendo tra gli interstizi, si può trarre l’impressione che il rimando alle parole e ai concetti di ‘nazione’ o di ‘patria’, in co-occorrenza aggettivale diretta al lemma ‘popolo’ o comunque in stretta associazione con esso, in qualche modo partecipassero a un processo semanticamente selettivo. Anche quando non trovava dimora all’interno di una comparazione relativa o di maggioranza, il lemma ‘popolo’ viveva, in un certo senso, del recupero di un’accezione ‘aristocratica’ del termine, in senso lato e nella sua derivazione etimologica greca, gli àristoi, i migliori. Una costruzione del popolo che era più vicina al nazionalismo che non al populismo, seppur tratti populistici non mancarono nella pubblicistica, né nei discorsi di Togliatti, come l’impiego strumentale delle categoria discorsiva ‘in nome del popolo’ . Ma 219

quale la posizione e il ruolo giocato da termini come ‘popolo’ nel periodo conclusivo della guerra e nell’immediato dopoguerra? Che cosa può aiutarci a comprendere una ricostruzione storica e narrativa di una parola la cui pregnanza politica, fuor d’analisi, potrebbe passare del tutto inosservata?

Nel lessico comunista di quel periodo si giocò una vera e propria rifondazione linguistica

e discorsiva, in massima parte consapevole, di cui spia erano le modalità di impiego politico e identitario di certi indicatori linguistici che, caricati semanticamente nel discorso, divenivano nella pratica veri e proprio classificatori sociali e politici. C’è sempre del resto

Colozza, Repubbliche comuniste, p. 12.

217

Guiso, “Il PCI e la sua storia: come cambiano i paradigmi”, p. 137. Per uno studio dei rimandi alla

218

patria e alla nazione nel PCI e nel PCF si veda Colozza, Repubbliche comuniste. Si veda inra, cap. 3, par. 4.

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una stretta correlazione tra rivoluzione discorsiva e linguistica di un agente politico e rifondazione delle strutture organizzative e discorsive di quell’agente: in situazioni critiche, l’ordine narrativo stabilito, che fino a quel momento aveva definito lo status quo di quel discorso, crolla, mentre nuove parole guadagnano discorsivamente in capitale simbolico . 220

Parole come ‘popolo’, ‘nazione’, ‘rinascita’, ‘rinnovamento’, ‘patria’, caricate di nuovi significati e riformulate secondo nuovi nessi narrativi, negli anni quaranta conquistarono uno spazio di primo piano nel discorso comunista, scalzando dal podio lessicale del partito i più tradizionali ‘classe’, ‘internazionale’, ‘lavoratori’ e costituendo una sorta di linguistic turn nel linguaggio e nelle comunicazione comunista italiana. E per questa via entrarono da questo momento nel suo vocabolario, divenendo a un tempo discorso egemonico del partito e in definitiva giocando un ruolo fondamentale e indelebile nella costruzione delle strutture mentali e nell’edificazione delle politiche italiane di quegli anni e degli anni a venire . 221

!

Secondo Pierre Bourdieu, citato in Lara Ryazanova-Clarke, “Linguistic Mnemonics: the

220

Communist Language Variety in Contemporary Russian Public Discourse”, he Vernaculars of Communism

.

Language, Ideology and Power in the Soviet Union and Eastern Europe, eds. Petre Petrov & Lara Ryazanova-Clarke (Abingdon; New York: Routledge, 2015), pp. 169-195.

Su quanto alcuni paradigmi del partito abbiano condizionato il discorso del partito stesso e le

221

narrazioni politiche dominanti si veda Guiso, “Il PCI e la sua storia: come cambiano i paradigmi”. Più specificamente riguardo la Resistenza si vedano: Mireno Berrettini, La Resistenza italiana e lo Special Operations Executive britannico (1943-1945) (Firenze: Le Lettere, 2014); Focardi, La guerra della memoria; Mario Galleri, La rappresentazione della Resistenza 1955-1975 (Siena: Dipartimento di Scienze Storiche, Giuridiche, Politiche e Sociali, s.d.), pp. 1-23. Per quanto riguarda la Francia è interessante l’analoga analisi dei paradigmi dominanti legati alla Rivoluzione francese di Jean Dumont & Giovanni Cantoni, I falsi miti della Rivoluzione rancese (Milano: Effedieffe, 1989).

CAPITOLOTRE

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POPOLO/POPOLI.

LA DECOSTRUZIONE DISCORSIVA DELL’UNITÀ DEL POPOLO (1946-1948)

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3.1. Sui paradigmi e le metanarrazioni del partito comunista italiano — 3.2. «Un governo del popolo e per il popolo»: la costruzione della democrazia progressiva — 3.3. «Il comune al popolo! Il popolo al comune!»: le elezioni amministrative — 3.4. «In nome del popolo»: la concettualizzazione della legittimazione popolare — 3.5. «Tutto il popolo condannerà la monarchia»: la questione istituzionale — 3.6. «(Ecco) le donne del popolo»: figlie, madri e spose — 3.7. «Evviva la vittoria del popolo»: le elezioni politiche — 3.8. «Il popolo è sceso in piazza»: l’attentato a Togliatti — 3.9. Popolo/Popoli

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!!

3.1. Sui paradigmi e le metanarrazioni del partito comunista italiano

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Alla fine degli anni quaranta, come mostrato nel capitolo precedente, parole come ‘popolo’ e ‘nazione’, risemantizzate secondo le nuove esigenze, erano entrate nel vocabolario del partito comunista, divenendo key-words del suo discorso e giocando un ruolo politico di primo piano. Se dunque le basi di alcuni di quei codici e di quei riferimenti che si erano imposti (o furono imposti) nella retorica, nella comunicazione e nella propaganda politica del partito si erano stabiliti nell’apparato discorsivo del PCI già durante la guerra, è però nell’immediato dopoguerra che essi andarono ben oltre gli stretti confini della cultura politica di partito, fissandosi indelebilmente anche nel dibattito pubblico e storiografico . 1

Tra questi, i paradigmi della diversità del partito comunista italiano nel panorama dei

comunismi europei, dell’autonomia della strategia comunista italiana rispetto all’URSS e della complessiva portata democratizzatrice della sua politica sul paese hanno costituito alcuni tra i plessi logico-narrativi più diffusi e più resistenti a una loro messa in discussione. Questi discorsi hanno avuto un terreno di origine comune, identificabile nello stesso discorso che la dirigenza del PCI aveva dato della svolta di Salerno come non condizionata da Mosca e inserita all’interno di un quadro strategico democratico. Di più: diversità,

Facendo riferimento tanto al discorso comunista tanto a quello anticomunista, ma senza accennare

1

alle narrazioni storiografiche, tratta di codici e simboli anche Andrea Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2010).

POPOLO POPOLI

autonomia e portato democratico, veicolati in chiara funzione auto-legittimante , sono stati 2

nodi narrativi non solo alla base di tutta o buona parte della politica del PCI dal 1944 in avanti, evocati negli anni come fondamenti giustificatori di formule, strategie e fratture politiche, ma anche il cuore stesso della sua costruzione identitaria.

Per paradosso, tali metanarrazioni hanno vissuto a lungo (e vivono tutt’oggi) anche fuori

dalle mura della ‘cittadella’ comunista, essendosi radicate, reificate e diffuse pubblicamente e storiograficamente a partire dalla fine degli anni quaranta alla stregua di «categorie di pensiero impensate, che delimitano il pensabile e predeterminano il pensato» . Perciò, è 3

possibile sostenere che il dibattito circa la svolta di Salerno e sul PCI a partire da essa sia stato il riflesso e il portato sia di esigenze scientifiche, sia di esigenze politiche . Questo non 4

stupisce: «le metanarrazioni hanno problemi intrinseci», possono cioè «essere d’ostacolo alla conoscenza spostando l’attenzione verso alcuni temi e spingendo a tradurre ogni altro interrogativo nel linguaggio e nella gerarchia causale predisposta dalla metanarrazione» . 5

Paradigmi come quelli su citati sono stati dunque ampiamente chiamati in causa e variamente ripresi a seconda dei periodi e delle stagioni politiche e storiografiche in qualità di punti dirimenti, accanto per esempio al ruolo dei comunisti nella Resistenza . E tali 6

Un esempio tra i tanti: spiega Giuseppe Chiarante, a lungo dirigente del PCI, che il partito è stato

2

«una versione del movimento comunista per molti aspetti differenziata e almeno potenzialmente alternativa rispetto a quella di gran lunga prevalente», Giuseppe Chiarante, Da Togliatti a D’Alema. La tradizione dei comunisti italiani e le origini del PDS (Roma; Bari: Laterza, 1996), p. 6.

Pierre Bourdieu, Lezione sulla lezione (Genova: Marietti, 1991), p. 10 [edizione originale, Leçon sur la

3

leçon (Paris : Éditions de Minuit, 1982)].

Scrivono Giovanni Gozzini e Renzo Martinelli: «Periodicamente questa vicenda [del PCI] torna a

4

sussultare per i motivi più svariati —ma pur sempre legati alla strumentale attualità della politica quotidiana— sulle pagine della stampa. Agitato come uno spettro da alcuni, rivendicato con orgoglio oppure rimosso con fastidio da altri, il destino storico del PCI non smette di far discutere, dividere, contrapporre», Gozzini & Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, vol. 7, p. XII.

Lynn Hunt, La storia culturale nell’età globale (Pisa: ETS, 2010), p. 97 [in seguito anche la versione

5

inglese, Writing History in the Global Era (New York: W.W. Norton, 2014)]. Di questa concettualizzazione, non mi trova però d’accordo l’uso quasi-ontologico, a mio parere, che fa la Hunt del concetto di metanarrazione, a meno che la storica non intenda —ma non ne fa cenno— la ‘metanarrazione’ come una sorta di ‘ontologia condivisa’ nel senso datogli da John R. Searle, he Construction of Social Reality (New York: Free Press, 1995) [edizione italiana, La costruzione della realtà sociale (Torino: Einaudi, 2006)].

Sul ridimensionamento del ruolo delle formazioni comuniste nella Resistenza a partire dalla

6

documentazione (e dalla percezione) britannica degli stessi, si veda: Mireno Berrettini, “La Special Force britannica e la ‘questione comunista’ nella Resistenza italiana”, Studi e Ricerche di Storia Contemporanea, 71 (2009): pp. 37-62; Id., La Gran Bretagna e l’Antifascismo italiano. Diplomazia clandestina, Intelligence, Operazioni Speciali (1940-1943) (Firenze: Le Lettere, 2010); Id., La Resistenza italiana e lo Special Operations Executive britannico.

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paradigmi sono poi stati usati per confermare o sconfessare una questione politico-valoriale la cui sopravvivenza lungo i decenni è stata in primo luogo cruciale per la legittimità stessa del partito a esistere nel sistema parlamentare italiano: il ruolo, cioè, detenuto dal PCI nella costruzione della repubblica italiana e nella democratizzazione del paese in posizione di autonomia rispetto a Mosca. Tanto la memorialistica di partito, quanto una larga porzione della storiografia

!

«hanno cercato di isolare gli anni cruciali della guerra fredda (1947-1954), considerandoli una

parentesi obbligata e tuttavia in contrasto con la strategia democratica e nazionale proposta a Salerno da Togliatti e poi riaffermata solennemente nel 1956 all’VIII congresso del partito. Si tratta di una ricostruzione a posteriori e di comodo, il cui obiettivo è di designare una continuità con il periodo 1944-1947 in grado di esaltare gli esiti conclusivi della storia comunista» . 7

!

Questa operazione di accreditamento democratico del partito è stata portata avanti anche se a partire dalla metà degli anni novanta e alla luce della nuova documentazione russa una 8

serie di studi ha complicato il quadro, mostrando anche gli aspetti di forte condizionamento degli interessi sovietici sulla politica comunista italiana . Per questa tenacia e per questa 9

Flores & Nicola, Sul PCI, pp. 74-75.

7

In particolare i documenti del Fondo Stalin e i diari di Georgi Dimitrov, capo del Komintérn in quel

8

periodo.

Tra i titoli più rappresentativi: Elena Aga Rossi & Gaetano Quagliarello (eds.), L’altra faccia della luna.

9

I rapporti tra e PCI, PCF e Unione Sovietica (Bologna: il Mulino, 1997); Elena Aga Rossi, “PCI e URSS nel periodo staliniano”, I partiti nell’Italia repubblicana, ed. Gerardo Nicolosi (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2006), pp. 91-116; Elena Aga Rossi & Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca (Bologna: il Mulino, 1997); Michail M. Narinsky, “Togliatti, Stalin e la svolta di Salerno”, Studi storici, 3 (1994): pp. 657-666. Precedentemente, per alcuni punti di vista: Sergio Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI, 1936-1948 (Milano: Rizzoli, 1980); Luigi Cortesi, “Palmiro Togliatti, la ‘svolta di Salerno’ e l’eredità gramsciana”, Belfagor, 1 (1975), pp. 1-16; Flores & Gallerano, Sul PCI. Per certi aspetti ma da un punto di vista differente che fa leva su di una ‘doppia lealtà’ del PCI: Silvio Pons, L’impossibile egemonia. L’URSS, il PCI e le origini della guerra redda. 1943-1948 (Roma: Carocci, 1999); Id. “L’URSS e il PCI nel sistema internazionale della guerra fredda”, Il

PCI nell’Italia Repubblicana, pp. 3-46. Ma si considerino anche Roberto Gualtieri e Giovanni Gozzini; si vedano i loro saggi in Il PCI nell’Italia Repubblicana: Roberto Gualtieri, “Il PCI, la DC e il ‘vincolo esterno’. Una proposta di periodizzazione” (pp. 47-99), Giovanni Gozzini, “Il PCI nel sistema politico della Repubblica” (pp. 103-140).

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longevità, nodi discorsivi come anomalia , autonomia e costituzione democratica e 10 11

I sostenitori del paradigma eccezionalista sono stati e sono tutt’oggi moltissimi. Intere stagioni