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«In Russia la libera affermazione delle energie individuali e associate ha schiantato gli ostacoli

fortemente ideologico e ideologizzato. Era un lessico strumentale, esortativo: lo scopo era quello di convincere il ricevente, formarlo, indirizzarlo. Ed era particolarmente caricato quando oggetto della trattazione era la Russia rivoluzionaria e poi sovietica, bloccato in argomentazioni stereotipate e incastonato negli schemi rigidi dello sviluppo storico progressivo e unilaterale della filosofia di matrice hegeliana e marxista:

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«In Russia la libera affermazione delle energie individuali e associate ha schiantato gli ostacoli

delle parole e dei piani prestabiliti. La borghesia ha cercato di imporre il suo dominio ed ha fallito. Il proletariato ha assunto la direzione della vita politica ed economica e realizza il suo ordine. Il suo ordine, non il socialismo, perché il socialismo non s’esprime con un fiat magico: il socialismo è un divenire, uno sviluppo di momenti sociali sempre più ricchi di valori collettivi. Il proletariato realizza il suo ordine, costituendo istituti politici che garantiscano la libertà di questo sviluppo, che assicurino la permanenza del suo potere. La dittatura è l’istituto fondamentale che garantisce la libertà, che impedisce i colpi di mano delle minoranze faziose. È garanzia di libertà perché non è un metodo da perpetuare, ma permette di creare e solidificare gli organismi permanenti in cui la dittatura si dissolverà, dopo aver compiuto la sua missione» . 4

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La cornice deterministica era data dalla costruzione discorsiva, dalla modalizzazione dei predicati, dalla particolare scelta dei sostantivi. Il socialismo, benché non si esprimesse «con un fiat magico», non era un’ipotesi di ricerca, era un dato di fatto in corso di

Sulla sovietizzazione dei lessici del comunismo internazionale si vedano, per esempio, le relazioni di

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František Čermák, “Totalitarian Dictionary of Czech”, e Věra Schmiedtová, “A Small Dictionary of Life under Communist Totalitarian Rule (Czechoslovakia 1948-1989)” sulla lingua cecoslovacca, per il convegno internazionale Euralex svoltosi tra il 15 e il 19 luglio 2014 a Bolzano: http:// euralex2014.eurac.edu/en/callforpapers/Documents/EURALEX%202014_gesamt.pdf [al 31 ottobre 2016]. Sull’influenza della lingua russa sul tedesco della DDR si vedano: Kurt Buttke, “Zur Rolle und Bedeutung der russischen Sprache in der gesellschatlichen Entwicklung der DDR”, Der Große Oktober und die russische Sprache, ed. Valerij V. Ivanov (Leipzig: Verlag Enzyklopädie, 1977), pp. 77-93; Heidi Lehmann, Russisch-deutsche Lehnbeziehungen im  Wortschatz offizieller Wirtschatstexte der DDR

(Düsseldorf: Pädagogischer Verlag Schwann, 1972); Richard E. Wood, “Russian Influences in the German of East Germany”, Pacific Coast Philology, 6 (1971): pp. 60-64. Cito anche, come unpublished paper, il saggio di Barbara Delli Castelli, “he Language Beyond the Wall: On the Sovietisation of the German Language in the ex-DDR (1945-1990)”, Words of Power, the Power of Words. he Twentieth-Century Communist Discourse in an International Perspective, ed. Giulia Bassi (forthcoming). Per la lingua italiana si veda la voce “Russismi” di Vincenzo Orioles sulla Enciclopedia Treccani online (2011): http://www.treccani.it/enciclopedia/russismi_(Enciclopedia-dell'Italiano)/ [al 16 gennaio 2017].

Articolo siglato A.G. [Antonio Gramsci], “Utopia”, Avanti!, Edizione piemontese (25 luglio 1918);

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realizzazione, era «un divenire», «uno sviluppo di momenti sociali» che, secondo una visione progressiva, erano consequenzialmente e necessariamente «sempre più ricchi di valori collettivi». Era un ordine che doveva essere costituito dal soggetto storico per eccellenza, il proletariato. Esseri umani e storia erano quindi inscindibilmente legati nei categorici plessi logico-narrativi della dialettica hegeliana:

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«Ma l’‘umano’ è un punto di partenza o un punto di arrivo, come concetto e fatto unitario? O

non è piuttosto, questa ricerca, un residuo ‘teologico’ e ‘metafisico’ in quanto posto come punto di partenza? [...] Non il ‘pensiero’, ma ciò che realmente si pensa unisce o differenzia gli uomini. Che la ‘natura umana’ sia il ‘complesso dei rapporti sociali’ è la risposta più soddisfacente, perché include l’idea del divenire: l’uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali e perché nega l’‘uomo in generale’. [...] L’unità è dialettica, non formale [...], la natura dell’uomo è la ‘storia’ (e in questo senso —posto storia uguale spirito— che la natura dell’uomo è lo spirito) se appunto si dà a storia il significato di ‘divenire’, in una ‘concordia discors’ che non parte dall’unità, ma ha in sé le ragioni di una unità possibile: perciò la ‘natura umana’ non può ritrovarsi in nessun uomo particolare ma in tutta la storia del genere umano (Q VII, § 36)».

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Tuttavia, era questo un procedere logico-argomentativo che, al pari di ogni altro linguaggio ideologico, non prevedeva leggi, regole e princìpi uguali per tutti. Se il determinismo storico era una criterio stringente per la narrazione della vittoria del socialismo, uno sviluppo analogamente predeterminato non valeva per la controparte:

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«Il filisteo si fa avanti e risponde: la borghesia doveva ricondurre l’ordine nel caos, perché così sempre è successo, perché all’economia patriarcale e feudale succede sempre l’economia borghese e la Costituzione politica borghese. Il filisteo non vede salvezza fuori degli schemi prestabiliti, non concepisce la storia che come un organismo naturale che attraversa momenti fissi e prevedibili di sviluppo. Se tu semini una ghianda, sei sicuro che non può nascere altro che un germoglio di quercia, che lentamente cresce, e solo dopo un certo numero d’anni darà i frutti. Ma la storia non è un querceto, e gli uomini non sono ghiande» . 5

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Curiosamente, il pensare per «schemi prestabiliti», il concepire «la storia» «come un organismo naturale che attraversa momenti fissi e prevedibili di sviluppo» del «filisteo» era considerato illogico, immaturità e deficienza di pensiero, comportamento da biasimare. La riconduzione all’ordine dal caos da parte della borghesia non aveva lo stesso peso morale dell’ordine che doveva realizzare (e avrebbe realizzato) il proletariato, e perciò non poteva rientrare nella stessa dinamica evolutiva.

Il registro era comunque sempre alto, forbito per stile e per temi. La modalità di scrittura

oscillava tra la parabola religiosa e il saggio letterario, aveva generalmente carattere

A.G. [Gramsci], “Utopia”, Avanti!, Edizione piemontese (25 luglio 1918); ora in Gramsci, Scritti

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sentenzioso e propensione all’astrazione argomentativa. Parlando della storia, per esempio, Gramsci scriveva:

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«Tutto ciò che è storificabile non può essere soprannaturale, non può essere il residuo di una

rivelazione divina. Se qualcosa è ancora inesplicabile, ciò è dovuto solamente alla nostra incompletezza conoscitiva, all’ancora non raggiunta perfezione intellettuale. E ciò può renderci più umili, più modesti, non già buttarci in braccia alla religione. La nostra religione ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l’uomo e la sua volontà e attività. Sentiamo questa spinta enorme, irresistibile che ci viene dal passato, la sentiamo nel bene che ci apporta, dandoci l’energica sicurezza che ciò che è stato possibile lo sarà ancora, e con maggiori probabilità in quanto noi ci siamo scaltriti per l’esperienza altrui. E la sentiamo nel male, in questi residui inorganici di stati d’animo superati» .6

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Argomenti prediletti erano la filosofia, la letteratura, la storia, e il pensiero politico, sia ante- che post-secondo conflitto mondiale. Ma soprattutto tra la prima e la seconda guerra mondiale, grande spicco avevano nei testi le domande circa il destino dell’uomo o l’esempio salvifico degli eroi e dei martiri:

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«Che cosa è l’uomo? È questa la domanda prima e principale della filosofia. [...] Se ci pensiamo, vediamo che ponendoci la domanda che cosa è l’uomo, vogliamo dire: che cosa l’uomo può diventare [...]. Diciamo dunque che l’uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoi atti (Q. III, § 31)».

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Oppure della forza di riscatto di un popolo intero, sofferente, sfruttato ma pronto a rovesciare le sue sorti grazie a una guida illuminata:

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«È davvero meravigliosa la lotta che l’umanità combatte da tempo immemorabile; lotta incessante, con cui essa tenta di strappare e lacerare tutti i vincoli che la libidine di dominio di un solo, di una classe, o anche di un intero popolo, tentano di imporle. È questa una epopea che ha avuto innumerevoli eroi ed è stata scritta dagli storici di tutto il mondo» . 7

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Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “La storia”, Avanti!, Edizione piemontese (29 agosto 1916),

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Sotto la Mole; ora in Gramsci, Scritti politici, vol. 1, p. 20, cit. p. 20.

Saggio non firmato [Antonio Gramsci], “Oppressi ed oppressori”, manoscritto, senza data,

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Tuttavia, quello comunista risultava essere anche un lessico peculiarmente polemico, che nel confronto riusciva a trovare spazio per espressioni colorite . Maestro dell’invettiva è stato 8

sicuramente Togliatti, come per esempio nello scontro con Croce e i crociani:

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«Don Benedetto [Benedetto Croce] […] di fronte alla politica del nostro partito, nazionale,

democratica e popolare […] non ha che una risorsa: questo non è il ‘comunismo’ come l’hanno definito lui, la ‘Civiltà cattolica’, la Treccani. Ci penserà lui, dunque, a vestirci ancora una volta di stracci e a metterci il coltello tra i denti, affinché la gente benpensante possa continuare a tempestarci di palle infuocate» . 9

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D’altra parte, non aveva usato toni dissimili lo stesso Gramsci, sempre particolarmente aspri nei confronti dell’avversario politico. Ed erano addirittura velenosi nei confronti dei socialdemocratici, come in ricordo delle «anime pavide» dei «democratici trogloditi» che erano «usi solo a rodere in segreto le casse dello Stato e a distribuire leggine e favori così come i frati distribuiscono brodo di lasagne alla pezzentaglia tignosa» . Pungenti anche 10

quando si riferiva ai nazionalisti. «Asineto», spiegava sardonico il dirigente, era quel

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Per esempio Togliatti: «Ai compagni che si mettono ad arzigogolare se facciamo o non facciamo una

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svolta in questo momento, io vorrei dir loro che noi sviluppiamo una linea politica sulla lotta per la democrazia progressiva», relazione al comitato centrale dell’11-13 novembre 1947, Fondazione Istituto Gramsci, Archivio PCI, Verbali della direzione PCI, 1947, p. 51; ora in Aldo Agosti, “Il Partito comunista italiano e la svolta del 1947”, Studi storici, 1 (1990): pp. 53-88, cit. p. 54, corsivi miei.

Articolo non firmato [Palmiro Togliatti], “Antonio Gramsci e don Benedetto”, Rinascita, IV, 6 (giugno

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1947). Su Togliatti, sotto le spoglie di Roderigo di Castiglia, si veda anche l’articoletto polemico contro Elio Vittorini: Roderigo di Castiglia [Palmiro Togliatti], “Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato.. ”, Rinascita, VIII, 8-9 (agosto-settembre 1951), eloquente in questo senso già dal titolo e per il tono severo: «A dire il vero, nelle nostre file pochi se ne sono accorti. Pochi si erano accorti, egualmente, che nelle nostre file egli ci fosse ancora. Vittorini? Sì, era stato accanto a noi nel combattimento contro la tirannide interna e l’invasore straniero. Come tanti altri. Né meglio, né peggio, dicono. […] Ora dice che non è  più comunista, definitivamente. Ma insomma, quando lo è stato? L’iscrizione al partito, dice, non l’ha mai voluta fare. Almeno ci spiegasse il perché. La gente comune, quando ritiene di esser comunista, s’iscrive. Non è un eroismo, non é un rito, e non è nemmeno un sacrificio. È l’adesione a una milizia politica e sociale; è l’apporto a questa milizia della attività della propria persona, attività materiale e attività ideale, contributo di opere e contributo di idee, nella misura che a ciascuno è concesso. Chiunque si iscrive e milita, dà al partito e al movimento comunista qualche cosa. Vittorini, in sostanza, che cosa aveva da dare e che cosa ha dato? Ma forse è proprio perché non aveva nulla da dare, che non s’è iscritto, e per questo, quando oggi dichiara di non essere più con noi, la cosa ci sembra priva di rilievo».

Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “L’intransigenza di classe e la storia italiana”, Il Grido del

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«Locale requentato dai nazionalisti. E andiamo dunque a vederli bene in faccia questi nazionalisti torinesi, che fanno tanto baccano a parole, ma che al momento dei fatti, quando si tratta di far conoscere il loro musetto di bestioline predaci, sanno fare, con tanta ammirevole solidarietà, i pesci. Qualcheduno lo si conosce, che diavolo, per i contatti che bisogna pure avere con la folla. E in qualche nostra incursione nei locali dell’associazione nazionalista, abbiamo anche avuto l’onore di conoscerli in gruppo, [di vederli] applaudire in coro quando non era ancora il momento, per un segnale sbagliato, e voltare verso il muro l’immagine dell’allora voltagabbana Bevione che non riusciva presso il suo direttore ad ottenere un po’ più di reclamina per gli spassetti di lor signori. Ma ora si tratta di ben altro. Si tratta di vedere questi monopolizzatori del decoro nazionale nella vita d’ogni giorno, nella vita da ritrovo, in piena camaraderia. E andiamo dunque a vederli. L’insegna del ritrovo è veramente poco rassicurante, Muletto. Ma è dovuto come si capisce a gente d’altri tempi, quando il patriottismo non era ancora diventato partito, ed era uno stato d’animo puro e semplice. Nella botte vecchia i nuovi venuti avranno versato il loro vino generoso, e avranno così rinvigorito la tradizione. Ma, ahimè! dove sono dunque andato a cadere? Tu l’hai voluto, George Dandin! Ma questa è in verità l’anticamera di una casa di tolleranza. Giovanotti indemoniati, vispe donnette che hanno saltato la sbarra, salottini riservati con relativi divani, e un afrore nell’aria, odore speciale di bestioline in fregola e non precisamente patriottica! Sì, si vede qualcuna di quelle facce toste che in altri tempi ci hanno accusato di essere accoltellatori perché uno dei loro aveva avuto i calzoni abbrindellati dal suo stesso bastone prima sacrosantamente spezzato su una durissima testa proletaria, qualcuno di quelli che, nella sesta giornata di un giugno ormai lontano, erano andati a offrire il proprio servizio gratuito alla benemerita istituzione dei questurini, ma in che veste da camera, signor Iddio! Eppure non ho sbagliato; l’annuncio diceva proprio: ritrovo preferito dai nazionalisti, e non sapevo che il nazionalismo includesse, nella novità della sua dottrina, anche questi allegri saturnali. Ma non sarebbe meglio un piccolo cambiamento, nell’insegna? Così per esempio: Asineto, ritrovo preferito dai nazionalisti, quando, nei momenti che la vita pubblica concede loro per riposare, vogliono fare gli.. asini? Così sarebbero contenti tutti, la morale e la dottrina» . 11

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La prosa comunista, soprattutto quella togliattiana, era tuttavia sempre sorvegliatissima e mostrava un gusto irrinunciabile per le tinte drammatiche: «Fra tutti i partiti antifascisti»,

Antonio Gramsci, “Asineto” (24 gennaio 1916); ora in Antonio Gramsci, Sotto la mole 1916-1920

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(Torino: Einaudi,1960), pp. 18-19. Gli esempi, come nel caso di Togliatti, sono tantissimi. Di Gramsci si veda anche la sua polemica contro il socialista Guido Prodecca: «Perché Guido Podrecca dimentica che anche prima della guerra egli era stato seppellito con tutti gli onori, che la tiratura del suo foglietto anticlericale era spaventosamente discesa, e che ormai in Italia a prenderlo sul serio non erano rimasti che i sagrestani e i parroci di campagna, che dall’alto del pulpito tuonavano contro l’anticristo al cospetto delle folle esterrefatte. Il proletariato ormai educato alla esperienza viva e palpitante della lotta di classe, ne aveva abbastanza di questo falso profeta che con tutta la superficialità fatua di una cultura da spazzaturaio, continuava nel vecchio anticlericalismo smidollato e di maniera, mostrando nel prete l’eterno nemico, l’unico nemico, falsando incoscientemente la storia e intorpidando il limpido corso delle lotte sociali», Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “Voci d’oltretomba”, Avanti!, Edizione piemontese (10 aprile 1916), Sotto la Mole; ora in Gramsci, Scritti politici, vol. 1, p. 17, cit. p. 17.

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aveva sostenuto Togliatti al V congresso nazionale del PCI, «siamo il partito di coloro che per la libertà hanno saputo dare non solo le parole ed i pensieri, ma il sangue e la vita» . 12

Il tono era perennemente celebrativo, soprattutto in occasione degli elogi ai dirigenti,

della lotta antifascista, dei richiami alla tradizione o all’Unione sovietica, anche quando il testo aveva un carattere narrativo o esplicativo, presuntamente oggettivo e neutrale . Nella 13

maggior parte dei casi era un linguaggio particolarmente cadenzato, modalizzato in senso euforico, ossia positivo. In questo modo, tutto l’impianto discorsivo e lessicale risultava infine decisamente assiologico, fondato, cioè, su giudizi di valore. Così, per esempio, soprattutto tra la metà degli anni quaranta e la metà degli anni cinquanta, la democrazia cui si faceva riferimento era sempre una ‘vera’ democrazia, ‘veramente’ democratica, le forze antifasciste erano ‘sincere’ o ‘sinceramente’ antifasciste, il partito un partito ‘veramente’ nuovo, ‘veramente’ antifascista, la politica una ‘giusta’ politica, il comunista un ‘buon’ comunista, e così via. Anche aggettivazioni come ‘popolare’, ‘antifascista’, ‘democratico’ venivano caricati semanticamente di valenze positive e usati in base a una scala di valori.

Palmiro Togliatti, “Rinnovare l’Italia”, Dalla ‘svolta di Salerno’ al ‘rinnovamento’. 1944-1955, eds. Sergio

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Bertolissi & Lapo Sestan, Da Gramsci a Berlinguer: la via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano. 1921-1984, eds. Orazio Pugliese et al., vol. 2 (Venezia: Marsilio, 1985), pp. 77-117, cit. p. 80. Sicuramente aveva un registro drammatico il celebre articolo di Gramsci: «Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. […] Odio gli indifferenti anche per ciò, che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. […] Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti», Articolo non firmato [Antonio Gramsci], “Gli indifferenti”, La Città futura (11 febbraio 1917), ora in Antonio Gramsci, Scritti giovanili. 1914-1918 (Torino: Einaudi, 1958), pp. 78-80.

Come in questo articolo di Pajetta sull’Unione sovietica: «La forza e la politica giusta dell’Unione

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sovietica furono ancora capaci di dare forza e fiducia ai combattenti antifascisti di ogni esercito e di ogni parte del mondo. Nella seconda guerra mondiale l’Unione sovietica fu l’elemento decisivo nella vittoria antihitleriana e antifascista, non soltanto per l’eroismo, il valore del suo esercito e la potenza delle sue armi, ma anche per la garanzia che diede a milioni di uomini in lotta condotta per la pace e per la redenzione sociale», Giancarlo Pajetta, “Amare l’URSS significa amare l’Italia”, Vie nuove, V, 44 (5 novembre 1950). Su questo stile si veda anche il Taccuino del propagandista intitolato a “Il mese dell’amicizia Italia-URSS”, V, 3 (1° novembre 1952).

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Generalmente ricco di presupposizioni, il discorso comunista si rivelava oltretutto

estremamente allusivo, caratterizzandosi per l’esposizione continua e la mise en evidence di valori, idee, giudizi che si era certi fossero condivisi dal ricevente, in un gioco a forte rimando reciproco positivo . Un passo esemplare in questo senso, viene da Noi donne: 14