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Bateru kalya? Gastro-politiche della località

TERZO CAPITOLO

3.5 Bateru kalya? Gastro-politiche della località

A Dubri, la preparazione del luogo di arrivo di Naag Devta viene invece affidato all’ouji della casta degli harijan, figura centrale in ogni momento rituale della collettività.

Per Dubri, l’ouji prepara un buco di un metro di diametro che viene riempito di coltivi prossimi alla raccolta: jhangora, mandua, (due qualità locali di miglio), mais e verdure. Ci si riferisce al buco come alla “pancia della terra”, al suo “utero (cok) che afferra (pakadna) i raccolti”. La terra, infatti, non rimane sostanza inerte nelle forme di interazione che ne assicurano la fecondità; si tratta, piuttosto, di un soggetto attivo nel processo di produzione, che ha preferenze, diete appropriate, appetititi, capacità di afferrare o meno i raccolti, che è debole o forte, che ha bisogno di riposare. Quindi la preparazione dell’“utero che afferra i coltivi” da parte dell’ouji, serve a ribadire il ruolo attivo della terra nel processo di relazioni feconde della collettività con la località. Dall’“utero” che viene richiuso e ricoperto di terra e pietre, sbucano le coltivazioni a stelo lungo, come il mais, la jhangora e la mandua. Le donne, riunite intorno al luogo dove sono trattenuti i coltivi offrono i simboli culinari del festival a Naag Devta: puri,

pakore, dahi e subzi. E’ il movimento della divinità su se stessa, la sua danza che dà inizio al momento

di competizione maschile nel cercare di “tirare fuori” (nikalna) dalla pancia della terra quanto più raccolti è possibile, propiziazione all’abbondanza del raccolto effettivo che avverrà dopo 15-20 giorni. I raccolti sono pronti, peda ho gea, letteralmente “sono nati” da una relazione legittima con il locale.” L'offerta di cibo cotto alla divinità è associato alla condivisione tra abitanti del villaggio di ciò che viene lasciato da Naag Devta, prasaad, ovvero dono divino.

Riferirsi all'efficacia piuttosto che al significato dei rituali di propiziazione all'abbondanza ci consente di ripensare alla produttività agricola come concetto morale e sociale senza limitarlo all'aspetto quantitativo della produzione di coltivi. Come ho anticipato nel paragrafo precedente, l’arrivo di Naag

Devta al villaggio propizia l’abbondanza, bateru. La stessa parola viene usata sia come sinonimo della

festività che per indicare la generosità della famiglia nell’ospitalità e offerta di cibo. “Bateru”, “Bateru

kalya?”, “ne hai avuto/mangiato in abbondanza?” La ritualità si consuma in una ininterrotta offerta e

partecipazione di cibo e ad esso viene associata, più che all'effettivo imminente raccolto.

La nozione di produttività agricola, infatti, non risponde a parametri puramente quantitativi; comprende, piuttosto, un senso immateriale di supporto comunitario, meljot che viene ostentato in una ospitalità “coatta”. La presenza di Naag Devta al villaggio viene preceduta da un'intensa preparazione di piatti cerimoniali che vengono ritenuti “piacere” alla divinità e che ad essa vengono offerti. Lo scambio

Claudia Mattalucci 18/4/10 11:39

Commenta [5]: Come per il paragrafo

e la condivisione del prasaad “avanzato” da Naag Devta, diventa l'aspetto predominante della pratica rituale. I pellegrinaggi stagionali del devi-devta non segnano quindi in modo esclusivo i tempi e le modalità appropriate per assicurarsi un'abbondante produzione ma, piuttosto, scandiscono anche i ritmi e le relazioni di consumo. Lo scambio di cibo sembra essere al cuore stesso della ri-costituzione rituale del villaggio come totalità. Infatti, come sostiene William Sax, in Garhwal “ by working collectively , mixing and sharing food, and especially through their rituals, villages constitute themselves as biomoral entity” (Sax 2002, p.49).

Il cibo, nella sua produzione, trasformazione e consumazione, è “the everyday social discourse” (Appadurai 1981: 494); indica e costruisce relazioni sociali, è un potente mezzo di contatto tra persone e gruppi, gli è riconosciuta la capacità di rendere omogenei gli esseri umani che entrano in contatto attraverso la sua condivisione (Hansen 2006). Le precedenze nel ciclo di distribuzione e i diritti-doveri di ospitalità regolano le transazioni appropriate e spesso esemplificano relazioni di solidarietà o rivalità, di esclusione, gerarchia o intimità tra persone .“When human beings convert some part of the environment into food, they create a peculiarly powerful semiotic device”, scrive Appadurai (1981: 494) a proposito del ruolo svolto dal cibo nelle relazioni identitarie. “In its tangible and material forms, food presupposes and reifies technological arrangements, relations of production and exchange, conditions of fields and market, and realities of plenty and want” (ibidem). Il cibo rappresenta, quindi, un fatto sociale altamente condensato, quello che Geertz definirebbe “deep play” (Geertz 1973: 312-453), caratterizzato da una virtuosità simbolica: le modalità, i tempi, i contesti di produzione e condivisione del cibo segnano rivalità quanto gerarchie, esprimono intimità quanto distanze, indicano appartenenze quanto esclusioni.

Nel contesto hindu del Garhwal, proprio per compensare le qualità omologanti del cibo, saper mangiare nel modo, tempo, posizione e contesti appropriati significa riconoscere le differenze di status, le differenziazioni di genere e generazionali nonché le relazioni opportune tra persone. Ma soprattutto significa sapersi posizionare in modo socialmente accettabile all'interno della collettività.

La condivisione appropriata del cibo ha costituito un momento importante della mia educazione alla località durante i periodi di ricerca etnografica. “Jutthu” (cfr. Khan 1994 sulle potenzialità di contaminazione assunte dal cibo) è l’espressione che spesso indicava un mio comportamento inadeguato secondo le gastropolitiche che governavano le relazioni collettive. Jutthu è una modalità di rimprovero che viene usata (soprattutto nei confronti dei bambini ma anche delle persone non bene socializzate, come nel mio caso) quando si superano i confini dell’intimità fisica tra persone in legami inappropriati, quando non vengono seguite le regole sociali che compensano la tendenza omologante del cibo. E'

attraverso quel divieto che sono stata educata a relazioni di cibo più o meno appropriate anche se non fisse, quanto, piuttosto, variabili nel tempo e circostanze.

Vista la mia partecipazione al cibo in termini di scambio di lavoro sui campi, i miei percorsi culinari all'interno delle famiglie dello stesso villaggio erano variabili e spesso frutto di contrattazioni sul bisogno di manodopera. L'ospitalità errante mi portava ad essere costantemente interrogata sul dove, cosa e quanto avevo mangiato. Quella che veniva percepita da me come vera e propria ossessione per il cibo e a cui non conferivo abbastanza importanza sociale, era la modalità per controllare e seguire i miei movimenti, relazioni di lavoro quanto amicizia all'interno del villaggio e a volte per indirizzarle. Io stessa ho imparato a riconoscere le variabili dell'ospitalità e dell'accoglienza nei miei confronti nei piatti che mi venivano preparati dalla donna anziana della famiglia che di volta in volta mi ospitava. Visto il carattere monotono della dieta76 la mia abilità nel percepire le relazioni di ospitalità si concentrava sui dettagli, le note a margine del cibo, come un cucchiaio di ghee (burro) o di chutni (salsa piccante) in un angolo del piatto, l'accompagnamento di un bicchiere di dahi (yogurt) o raita (dalla lavorazione dello yogurt), il roti di grano, un chai ben zuccherato e con molto latte, le relazioni di precedenza nella distribuzione, la disposizione del posto a me assegnato in relazione agli altri membri della famiglia, la tipologia di baratàn (stoviglie) etc. All'interno delle relazioni esibite per mezzo del cibo condiviso ho imparato anche a riconoscere le mie stesse possibilità di manovra per evitare inviti indesiderati e gli spazi di contrattazione rispetto al mio stesso posizionamento77 nelle gastropolitiche 78 familiari.

76 La dieta quotidiana si alterna tra roti e bhatt, tra pane di grano/mandua accompagnato a verdura, alla mattina e alla sera, e riso e legumi a pranzo. Per questo motivo roti e bhatt sono le due parole comunemente usate come sinonimi di cibo, khana. “Roti/bhatt kalya?” non significa letteralmente “hai mangiato il roti/il riso”, quanto piuttosto in maniera indifferenziata “hai mangiato?”. Il ciclo quotidiano di cibo subisce variazioni con il calendario rituale dei festival e cerimonie dove i contesti di devozione vengono marcati da ricette culinarie particolarmente elaborate.

77 La mia posizione all'interno delle gastro-politiche familiari era decisamente ambigua ed aperta a molteplici interpretazioni: ero donna, ma nello stesso tempo straniera e venivo da lontano; ero in età da donna sposata ma non avevo ancora figli; ero estranea alla famiglia ma nello stesso tempo vivevo e lavoravo con loro; dipendevo per ogni mio bisogno e nello stesso tempo ero fonte di aiuto nell'economia agricola familiare; ero ospite ma nello stesso tempo partecipavo e prendevo parte attiva nella preparazione del cibo. Le gastro-politiche che mi vedevano coinvolta si sono inoltre modificate nel lungo periodo, dove progressivamente sono stata incorporata nella comunità di pratica femminile e io stessa ho imparato a gestire lo spazio di manovra all'interno delle geografie culinarie familiari e a cercare di avanzare le mie preferenze per quanto riguarda le relazioni di appartenenza e di esibire nella condivisione del cibo quelle che ritenevo relazioni di complicità, solidarietà, intimità. Ulteriori trasformazioni del mio posizionamento esibito attraverso le gastro-politiche familiari si sono realizzate quando scoprii al villaggio di essere incinta, quando mi presentai con il mio compagno e successivamente con nostro figlio. In questo senso bisogna pensare alla tassonomia culinaria nei termini poco rigidi di

La mia posizione in quanto donna occidentale creava inizialmente ambiguità per quanto riguarda le modalità di condivisione e transazione del cibo e sulle priorità di distribuzione all'interno della famiglia ospitante. La precedenza sociale nella distribuzione del cibo, infatti, segue priorità di sesso ed età tali per cui i primi ad essere serviti sono gli uomini più anziani della famiglia. Le donne, che iniziano a consumare i loro pasti quando gli uomini si sono già allontanati dal chullah (fuoco dove si cucina ed attorno cui si mangia), sono le esclusive responsabili dei processi di cottura e distribuzione del cibo. Le gerarchie tra donne vengono invece praticate attraverso il ruolo effettivo assunto nella gestione delle riserve e distribuzione del cibo (generalmente affidato alle donne più anziane, che hanno maggiore autorità all'interno della famiglia). I bambini, residenti o no, sono invece generalmente estranei all'arena gastropolitica: viene loro consentita la trasgressione delle regole di precedenza; i loro avanzi non sono considerati contaminati (jutthu) ma vengono spesso consumati dalle loro stesse madri; i loro gusti, proprio come quelli della divinità, vengono assecondati. Altre discriminanti della tassonomia culinaria si articolano attorno alle variabili, spesso tra loro interconnesse, di consanguineità (a sua volta distinta in lineare o collaterale, agnatizia o affine), residenza. Non bisogna però intendere la gestione collettiva del cibo in termini di una rigida messa in atto di un codice tassonomico: la specificità dei posizionamenti individuali nelle gastropolitiche familiari segue la molteplicità delle variabili che lo costituiscono; incorpora le storie di vita (conflitti in atto o passati, relazioni di scambio ed aiuto), gli stati periodici (come malattia o mestruazioni), le ambiguità implicite ad ogni contesto vissuto, il carattere e l'autorevolezza di chi ne prende parte. Soprattutto tra moglie e marito è facile che il conflitto prenda forme gastro-politiche: la gerarchia di genere esibita può essere ribaltata sia attraverso la manipolazione del cibo (in termini di qualità o quantità), oppure manipolando il contesto (in termini di precedenze, disposizioni spaziali oppure di esclusività del circolo commensale). Così anche nella posizione dell'ospite ci sono spazi di manovra per il proprio posizionamento all'interno delle gastro-politiche familiari: non necessariamente “subisce” ma può manifestare il proprio risentimento per mezzo di commenti sul cibo, avanzandolo nel piatto, oppure attraverso deboli espressioni di gratitudine.

L’abbondanza di cibo, la sua preparazione, transazione e consumazione collettiva nel giorno di

habitus come struttura cognitiva aperta e flessibile che si esprime attraverso una logica di improvvisazioni regolate e

sensibile ai molteplici posizionamenti di soggettività multiple. (Cfr. critiche di H. Moore 1988 al concetto di Habitus avanzato da Bourdieu)

78 Così Appadurai (1981: 495) definisce le “gastro-politiche”: “conflict or competition over specific cultural or economic resources as it emerges in social transactions around food”

arrivo di Naag Devta sono atti “gastro-politici”di costituzione di relazioni sociali inclusive79 che superano il contesto delle relazioni familiari o amicali. L'ambito della performance è piuttosto quello allargato del villaggio come luogo di residenza che comprende tutti gli abitanti dell'ecosistema produttivo: umani, divini, animali e vegetali. Individui quanto gruppi non sono uniti da legami di consanguineità o affinità ma attraverso la partecipazione a pratiche di devozione ad una divinità comune. La capacità della divinità di fornire un’identità pubblica ad un gruppo si fonda quindi su una relazione collettiva con l’ambiente che è la consumazione di cibo-prasaad . L’abbondanza, bateru, sta nelle relazioni feconde, in quanto appropriate, di cooperazione tra uomini/donne, divinità e località.

Intorno alla condivisione di cibo, di cui Naag devta risulta essere l’unico ospite onorato, si costituisce una collettività come comunità di pratica agricola, una relazione collettiva che prende parte del paesaggio come luogo di sussistenza. Per questo motivo il cibo, al centro del pensiero tassonomico e morale della vita quotidiana, diventa anche, nel suo riferimento alla cooperazione divina alle pratiche umane, un elemento rituale centrale nella costituzione della collettività agricola dove temporaneamente si sospendono le sue qualità di segmentazione e differenziazione sociale. La comunità viene concepita in termini di “cosharers in the generosity of the deity” (Appadurai 1981: 506).