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L'apprendistato ecologico: da scelta forzata a metodologia interpretativa

Il corpo dell’etnografo/a

2.4 L'apprendistato ecologico: da scelta forzata a metodologia interpretativa

Ciò che intendo sottolineare è che la pratica etnografica come “apprendistato ecologico” (Riva 2008:57) non è stata una metodologia da me adottata in maniera “consapevole” quanto, almeno inizialmente, una scelta forzata dal contesto etnografico. Il passaggio ontologico tra il dire e il fare che l’etnografia come apprendistato corporeo implica, non risulta scontato a chi cerca di partecipare ad un paesaggio condiviso con i propri interlocutori a partire da una formazione accademica.

Solo in un secondo momento, quando percepii il cambiamento del mio posizionamento sul campo in relazione alle abilità corporee, di osservazione e d’interazione all’interno del paesaggio agricolo42 acquisite nel corso del tempo, mi sono progressivamente indirizzata verso approcci interpretativi che sottolineavano, dal punto di vista microanalitico, la dimensione identitaria connessa alle pratiche della località, alle pratiche di costruzione dei luoghi. Il momento dell’interpretazione mi ha indirizzata a rivalutare il processo di apprendistato e a coglierne un senso etnografico che, nel momento in cui veniva incorporato nei miei gesti quotidiani sul campo, mi rimaneva oscuro.

Inoltre l’apprendimento delle tecniche del vivere quotidiano implicano un senso di ovvietà, di naturalezza che le fa cadere al di fuori dell’attenzione cosciente dello stesso etnografo. Si parla di conoscenza tacita perché non ci parla immediatamente e perché rimane silenziosa e operativa, allo stesso tempo, nel corpo e nella percezione dell’etnografo abituato. L’osservazione, in questo senso, rappresenta un momento successivo alla partecipazione che richiede un’immersione totale in processi di apprendistato che non si concedono alla rappresentazione, all'intenzionalità e alla parola (cfr. Csordas 1993,1994, 2004; Turner 2000; Jackson 1983a, 1983b).

41 Conferenza tenuta presso il dipartimento di antropologia culturale dell’Università di Milano Bicocca il 23 giugno 2005

42 Per paesaggio, come ho precedentemente messo in evidenza nel capitolo I, intendo l’insieme di relazioni tra comunità di pratica e ambiente.

Ho trovato significativi, ai fini di elaborazione della tesi, gli studi antropologici che hanno messo in evidenza l’importanza di un apprendistato corporeo dell’etnografo in termini di “acquiring habits for action” (Jenkins 1994: 434), non tanto come trasmissione delle informazioni quanto di “educazione dell’attenzione (Ingold 1993), di abbandono dell’intenzionalità e della ricerca di significato negli atti di deferenza della vita pratica (Bloch 2005), di partecipazione alle pratiche in termini di processo di socializzazione del corpo (Bourdieu 2003), di acquisizione di tecniche corporee come creatrici di un sapere pratico (Mauss 1936), addestramento concreto a compiti ordinari, abilità a rilevare e rispondere in modo fluido ad aspetti dell’ambiente (Grasseni 2004). Il radicamento della comprensione in un campo di attività pratica significa, se si può cercare di identificare una dimensione etnografica comune a queste diverse prospettive antropologiche, riconoscere il valore gnoseologico dell’apprendistato corporeo dell’etnografo alle tecniche del vivere quotidiano.

Concetti come quelli proposti da Ingold (2004) di “abitare il mondo” o quello avanzato da Latour (1991) della “pratica come attività situata” ci invitano ad affrontare l’esperienza etnografica evitando il dualismo tra dimensione simbolica e materiale, tra la fisicità dell’essere nel mondo come corpi agenti e senzienti e il modo in cui vediamo, conosciamo, ci relazioniamo. Ci insegnano come il locale, le pratiche di costruzione dei luoghi, le immagini culturalmente mediate di come e dove si abita, passano attraverso il corpo come veicolo dell’essere nel mondo (Merlau Ponty 1964). L’esperienza della località richiede il corpo come dimensione primaria di partecipazione alle pratiche di significazione dei luoghi, del radicamento, dell’appartenenza. Come ci spiega Ingold la costruzione culturale dell’ambiente non è un preludio all’azione pratica, quanto piuttosto un epilogo (Ingold 2001) In questo senso una metodologia etnografica, che implichi l’enskillement dell’etnografo e che assume il corpo come principale mezzo di conoscenza, l’acquisizione di abilità come finalità di relazioni di apprendimento all’azione nell’ambiente, a volte risulta una strategia inconsapevole, che solo in un secondo momento, come in una forma di epilogo, può assumere il senso di partecipazione ad un orizzonte comunitario di significati. In questo senso l’osservazione partecipante spesso si articola in due momenti etnografici che non sono tra loro sintetizzabili. L’immersione nella quotidianità implica quella che Bloch (2005) definisce la “deferenza della vita pratica”, l’abbandono dell’intenzionalità e della ricerca di significato. Solo in secondo momento si può “osservare”, a partire dal proprio processo di apprendistato ad una specifica visione della località, sul senso dell’esperienza etnografica come partecipazione ad una forma di vita, cercando di mostrarne, a ritroso, i fondamenti di senso.

L’apprendimento corporeo dell’etnografo è il primo passo per un’osservazione significativa. L’osservazione consiste nell’interpretazione del processo di apprendimento di abilità relazionali da parte

dell’etnografo all’interno di una precisa dialettica di possibilità e capacità di azione (quella che Ingold definisce come la relazione costitutiva dell’ambiente in termini di effectivities, le capacità di azione degli individui e affordances, possibilità di azione offerte da un ambiente specifico).

Significa quindi invertire la relazione comunemente attribuita al gesto e alla parola, a sistemi di classificazione culturale e azioni pratiche: il paesaggio non è un dato preesistente ma il prodotto di una capacità interpretativa, di visione abituata a partire dalla condivisione delle pratiche e mimesi corporea.

L’implicazione di questa metodologia etnografica è che l’etnografo percepirà, a ritroso, il diverso posizionamento dei suoi interlocutori che, appartenendo a diverse comunità di pratica, avranno anche diversificate percezioni del paesaggio, delle abilità loro necessarie per agire in modo appropriato, e infine del senso situato e processuale della loro appartenenza al luogo.

Scrive Silvana Borutti (1993:122) “si diventa uomini [e donne] in una forma di vita, attraverso l’apprendimento linguistico che configura e rende significante il mondo, attraverso un complesso addestramento simbolico che va dalla disciplina del corpo all’interiorizzazione dei valori, attraverso la ripetizione di comportamenti che affermano e custodiscono nello stesso tempo il legame con la comunità”. Il processo di “partecipazione ad una forma di vita” attraverso l’apprendistato agli “schemi di percezione e di valutazione che gli agenti applicano nella loro vita quotidiana” (Bourdieu 1992:19) ha significato partecipare al processo di incorporazione del genere in termini di quelli che Bourdieu definisce “habitus sessuati”(Idem: 20), una matrice di capacità percettive e valutative, modalità di comportamento e di interazione con lo spazio circostante. E’, infatti, la condivisione di routine culturali nelle azioni fondamentali che costruisce la differenza anatomica come socialmente significativa. La partecipazione alla quotidianità per mezzo dell’esperienza corporea e sensoriale, quindi, significa prendere parte attivamente al processo di socializzazione del corpo in uno specifico paesaggio, non semplicemente come medium di significazione ma come processo attraverso cui vengono acquisite capacità morali ed etiche, valori sociali, estetiche condivise, gesti appropriati alla propria identità sociale. Attraverso l’apprendimento corporeo dell’abilità e della conoscenza tacita, si ha l’impressione di aderire progressivamente a pratiche discorsive e comportamentali appropriate, virtuose e belle in quanto condivise da una comunità di pratica (e non da altre). Il saper fare, quindi, è una pratica di costruzione dei luoghi nel senso che incorpora delle immagini culturalmente mediate di dove e come si abita in base alla propria appartenenza di genere.

Non solo, la partecipazione attiva alla dimensione sociale e relazionale dell’apprendimento corporeo, fa cogliere l’eterogeneità dei soggetti che costituiscono una comunità di pratica, sia essa maschile o femminile. Ripartire dall’apprendimento di una disposizione corporea alla quotidianità

significa cogliere l’appropriatezza di ciò che si fa rispetto alle peculiarità del proprio posizionamento: il genere si apre così ad una serie di variabili che lo rendono concretamente operativo (casta, età, classe sociale, relazioni familiari e di proprietà etc.). Nel corso del fare si è immersi in un paesaggio sensoriale e relazionale diversificato definito da, e che nello stesso tempo definisce, chi siamo. Il livello di competenza acquisita dall’etnografo è proporzionale all’ampiezza del repertorio di possibilità di azione e di discriminazione delle percezioni che intravede nel paesaggio. L’habitus, infatti, è una struttura cognitiva aperta e flessibile che deve essere in grado di generare creativamente diversi tipi di azione calibrati di volta in volta in base alle specifiche situazioni operative e relazionali in cui si è inseriti.