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Credibilità rituale: dal corpo alla collettività

TERZO CAPITOLO

3.4 Credibilità rituale: dal corpo alla collettività

Il rituale efficace è quello durante il quale la collettività non solo consente, ma sostiene ed incita

Naag Devta a ballare liberamente, senza vincoli mondani, nei corpi; durante il ballo di un rituale

partecipato e riuscito, infatti, “si sfida[no] gli stessi concetti di persona e di identità che le culture si danno” (Pennacini 2001: 10). La danza sfrenata della divinità, infatti, interviene performativamente sui corpi, mostrando la natura “umana” e arbitraria dei processi quotidiani di socializzazione del corpo, il

68 Non tutte le donne ma solo quelle sposate e tra queste ci sono quelle “predisposte”. In genere ci si aspetta che la divinità aderisca su alcuni corpi e non su altri; o meglio, si riconosce la predisposizione di alcuni corpi ad accettare e far aderire Naag Devta, a poter affrontare il rischio sociale della non riuscita. La predisposizione femminile alla “possessione”, che viene localmente intesa come “danza”, naach, osservata durante i periodi di campo, ridulta in contrasto con quanto rilevato da altri studi sui rituali nel Garhwal (Cfr. Sax 1990, 2001; Berreman 1963). Ciò che intendo sottolineare è che la dimensione di genere per quanto riguarda la partecipazione al rituale non è definita a priori ma risponde anche alle specifiche caratteristiche del villaggio e delle singole persone che ne prendono parte. Gli studi di Berreman si riferiscono ad un periodo antecedente al massiccio flusso migratorio maschile dalla regione che, nella prospettiva da me adottata, ha influito radicalmente sulle relazioni di genere all'interno del villaggio, sia per quanto riguarda la vita quotidiana quanto la percezione dei momenti rituali del villaggio. La maggiore partecipazione femminile ai riti di “possessione” non è da generalizzare al contesto del Garhwal ma si può ritenere specifica alla dimensione localizzata dell'esperienza etnografica.

69 Sax nel suo libro “dancing the self” fa risalire la parola dungadi utilizzata in Garhwal per identificare il medium attraverso cui la divinità danza al significato locale di piccolo cavallo; è convinzione diffusa che le divinità “montino” i loro medium come dei cavallerizzi.

carattere volubile e tutto mondano degli atteggiamenti considerati appropriati al proprio sesso70. Nell'incarnazione ed invocazione ritmica della divinità, il genere con i suoi caratteri distintivi che lo rendono socialmente operativo e quindi “accettabile” nella quotidianità, si allenta fino a sparire nel gesto pienamente divino dove non assume più un valore performativo. La stessa definizione di devi-devta (che mette insieme la denominazione femminile e quella maschile di divinità), la sua iconografia non riconducibile ad alcuna distinzione sessuale71, e le variabili declinazioni di genere degli aggettivi comunemente ad esso/essa associati, sembrano sfidare il carattere performativo del genere assunto nella vita di ogni giorno72.

Le donne su cui balla il devi devta, intossicate dal'entusiasmo ed euforia collettivi che rendono ludico lo sconfinamento dei limiti della normalità (Cfr. Forni, Pennacini, Pussetti 2006), si lasciano andare in mimiche ed atteggiamenti aggressivi spesso afferrando i pendagli del

e tirandolo a sé con forza, sotto lo sguardo indifferente dell'Ouji che continua a suonare lasciandosi strattonare. A volte l'aggressività femminile durante il ballo veniva rivolta agli eventuali uomini su cui si divertiva a danzare Naag Devta. Mimiche violente, movimenti incontrollati, sguardi diretti, vicinanza fisica, urli di sfida, mi facevano tanta più impressione quanto andavano contro gli atteggiamenti da me stessa progressivamente incorporati durante i periodi di campo. Infatti l'autorità maschile viene comunemente esibita attraverso gesti, posture, timbri di voce femminili che esprimono timidezza, sottomissione, auto-controllo, modestia sessuale. In questo senso percepivo la performance

70 Bourdieu (1999: 13) quando parla del genere in termini di “habitus sessuati” acquisiti attraverso mimesi pratica (quindi non consapevole), intende “l'incorporazione degli schemi di percezione e di valutazione frutto delle strutture storiche dell'ordine maschile”. Secondo Bourdieu infatti la divisione sessuale sembra rientrare “nell'ordine delle cose”, risultando scontata, indiscutibile e assolutamente legittima, proprio perché funziona allo stato incorporato nei corpi, negli

habitus degli agenti, rendendo naturali le percezioni arbitrarie del mondo sociale. E' il mondo sociale infatti che, secondo

il sociologo francese, “costruisce il corpo come realtà sessuata e come depositario di principi di visione e di divisione sessuati” (idem 17). Il genere è quindi performance sociale, risponde ad un programma sociale di percezione incorporata. Per una applicazione femminista degli studi di Bourdieu sul genere cfr. H. Moore 1996; Forni, Pennacini, Pussetti (a cura di) 2006, Mahamood 2001,

71 Un osservatore del rituale, anche lui esterno alla collettività del villaggio e ospite momentaneo attraverso la mia mediazione, mi ha espresso la sua percezione di Naag Devta in termini di “cosità”. Mi sono chiesta cosa intendesse cercando di superare la mia visione consuetudinaria e pratica della divinità nell'”atto di fare il rituale”. Credo che la “cosità” si possa rintracciare nel carattere decisamente poco antropomorfico così come nell'indeterminatezza sessuale della sua immagine quanto delle sue manifestazioni mondane.

rituale del ballo divino come estremamente rischiosa: la sua riuscita non dipendeva esclusivamente dalla bravura nella performance, ma dalla partecipazione collettiva che la rendeva credibile e, seppur in modo transitorio ed effimero (Shieffelin 1998:198), socialmente accettabile. “In 'true' ritual events”, scrive Shieffellin (1996: 60), intendendo con “vero” la performance rituale ben riuscita, che funziona, “not only the partecipants' attitudes but also their social status and relationships to one another (or to the wider cosmos) may be altered”.

In questo senso l'autenticità del ballo non dipende dalle capacità espressive o dalla virtuosità di uno o più performer ma dalla creazione di una credibilità interattiva.

Tambiah (1995) mette in evidenza come sia proprio la natura ritmica della musica a rendere la danza una forma efficace di cerimoniale sociale congiunto; è il ritmo infatti, secondo l'autore di Rituali e

Culture, che consente ad una molteplicità di persone di compiere insieme le stesse azioni eseguendole

come corpo unico. Anche se non tutti i partecipanti al rituale danzano (“con” o “danzati da” Naag

devta), il suono del dhol è strettamente intrecciato ai movimenti, incitandoli e seguendoli allo stesso

tempo nelle loro evoluzioni fino al loro progressivo esaurirsi. Il ritmo marcato e che varia d'intensità esercita un vincolo su chi è soggetto alla sua influenza, spingendolo ad assoggettarsi ad esso e a permettergli di dirigere e regolare i movimenti del corpo quanto della mente. L'immagine utilizzata da Sax per descrivere il balli sincopati delle divinità è quella dei burattini: i movimenti umani assumono i caratteri di danze costrette da vincoli a cui ci si può solo abbandonare, proprio come se ci fosse un demiurgo dei movimenti che agisce sui corpi umani come su dei burattini senza fili. Un vincolo che risulta essere tanto intangibile quanto efficace nei suoi effetti. Il corpo crede in quello che performa: il ritmo congiunto di corpi e dhol diventano “un'intensificata esperienza del divino” nel momento in cui diventano persuasivi e sono sostenuti da una partecipazione emotiva collettiva. Solo in questo modo si rinnova performativamente la credenza collettiva.

Viene sostenuto che il rito intervenga performativamente sui corpi (cfr. Pennacini 2001); si potrebbe probabilmente affermare anche l'inverso, cioè che i corpi agiscono performativamente sui rituali, dissolvendo giudizi morali ed epistemologici tra illusione e realtà, significante e significato, inganno ed autenticità, attività e passività (cfr. Shieffelin 1998). L'efficacia dell'adesione di Naag Devta non sta nella forma di “possessione”; non sta in quello che si vede; non risiede esclusivamente nella messa in atto precisa ed abile a cui si affida la credenza. Piuttosto la credenza viene rinnovata e agita nella partecipazione collettiva, nel processo sempre interattivo e rischioso che può (come non può) implicare. Come scrive Pennacini (2001:10) nell'annuario di antropologia dedicato alla 'possessione', “l'alternativa ermeneutica fondamentale tra sincerità e finzione si dissolve nel rito che plasma e

trasforma le percezioni stesse dei partecipanti”.

Se si considera la partecipazione al rituale in termini di osservazione, seguendo la metafora teatrale che caratterizza la visione occidentale della relazione tra chi performa e l'audience, allora l'adesione della divinità ai corpi può essere soggetta a giudizi di finzione, illusione, manipolazione collettiva; si cerca di rintracciare la riuscita del rituale nella capacità espressiva e convincente di chi mette in atto. L'implicazione di questa prospettiva sul rituale è la creazione di una distanza tra chi balla concedendo il proprio corpo a Naag Devta e chi osserva; tra chi concepisce razionalmente la manipolazione e che, attraverso le sue qualità di rappresentazione, favorisce nel pubblico una sospensione del dubbio e dell'incredulità, ed un pubblico passivo che subisce gli effetti performativi del rituale. E' proprio la creazione della distanza tra chi fa e chi guarda che conduce al pregiudizio morale ed epistemologico di una manipolazione performativa (Shieffelin 1998: 200).

L'interazione con Chandra Shekkar Pundir, un giovane informatore (allora non ancora sposato)

rajput, emigrato occasionale e che, visto il suo eccellente percorso di studi, aspirava ad occupazioni di

insegnamento al di fuori dei villaggi, mi ha fatto pensare a quest'ultimo aspetto del corpo e della natura della partecipazione al rituale. Il suo riconoscimento collettivo come “letterato”73 a cui rivolgersi per risolvere questioni che richiedevano molteplici forme di competenza specifica (dalla lettura/scrittura di

73 Uno studio compiuto nell'area di Jaunpur dal SIDH (Society for integrated development in the Himalaya) sull'impatto sociale delle politiche educative, mette in evidenza come il sistema moderno di educazione formale, imponendosi come sistema di valori che si distanzia dalla quotidianità rurale dei villaggi, abbia accentuato tensioni all'interno delle famiglie. Il sistema educativo secondo Anuradha Joshi, ricercatrice del SIDH, ha esasperato il conflitto tra sistemi di valori considerati tra loro incompatibili e le gerarchie tra chi pratica lavori manuali e intellettuali, tra chi vive nei villaggi e in città, tra chi fa il contadino e chi emigra per fare il nokri (lavoratore salariato). Scrive Joshi “Since the past 55 years the course curriculum of our schools has been steadily alienating the students from their families and society, because it is not rooted in the local culture and its communities. (…) [the school] promotes the feeling among students that their village, customs, language, lifestyle is somewhat backward and that they have to become someone else or go somewhere else to feel good abut themselves” (SIDH 2004: 22). L'ideologia sviluppista è un potente fattore di identificazione sociale (Cfr cap.1, par.3) che, come viene sostenuto in un altro studio del SIDH (2002: 47) “has been actively taught and propagates by modern system of education”. Gli effetti identificati sulle nuove generazioni consistono nella svalutazione ed abbandono delle attività agricole, allontanamento dai villaggi, senso di vergogna per l'appartenenza alle comunità rurali montane e per le consuetudini quotidiane e rituali performate localmente considerate sintomo di ignoranza, superstizione e sottosviluppo (Idem:46-59). Inizialmente nei miei confronti, in quanto ricercatrice occidentale, e quindi di developed woman (cfr. Klenk 2004), la gerarchia tra letterati/e e illetterati/e veniva esibita in termini di quelli che venivano identificati come interlocutori privilegiati sul locale. Coloro che avevano studiato venivano considerati pregiudizialmente dalla collettività stessa come coloro che erano in grado di mediare e di “spiegarmi”.

lettere, bollette, alle ripetizioni serali, consigli sui medicinali, etc.) lo portavano ad assumere nei miei confronti, a volte imponendosi, il ruolo di abile mediatore con il locale. La sua famiglia, inoltre, intrattiene un rapporto privilegiato con il devi-devta, tanto che una camera dell'abitazione viene regolarmente riordinata e ripulita in occasione dell'arrivo della divinità per essere destinata all'accoglienza notturna del doli (devta ka bitter, la camera della divinità). Eppure l'atteggiamento a me esibito da Chandra Shekkar nei confronti dei rituali che prevedevano l'arrivo di Naag Devta (e che io attendevo con ansia per rompere le routine quotidiane) era quello della falsificazione, di una mancata relazione tra ciò che è vero e la sua rappresentazione rituale, di un senso di imbarazzo per i corpi delle donne su cui la divinità aderisce più facilmente (tra cui alcune componenti della sua famiglia allargata). L'atteggiamento assunto nei miei confronti di intellettualizzazione del rituale portava Chandra Shekkar ad esibire una presa di distanza ed incredulità soprattutto per quanto riguarda le forme di incarnazione della divinità nei balli femminili. Le sue prese di posizione sul rituale si riferivano ad uno scarto generazionale: le forme di possessione durante balli di Naag Devta sembravano manifestazioni religiose appartenenti ad una generazione a lui distante, ignara della tradizione scritta e ortodossia hindu, caratterizzata dalla mancanza di educazione formale, così come dall'immobilità di una vita trascorsa sui campi all'interno dei confini del villaggio. Le sue parole esprimevano il senso di in-autenticità di queste rappresentazioni rituali e di differenziazione generazionale.

Il mio tentativo di parlare del rituale aspettando con ansia l'arrivo effettivo di Naag Devta, inevitabilmente mi portava a dirigere le conversazioni su credenze più che stati corporei, sulle dottrine e tradizioni orali come base di una condivisa rappresentazione collettiva, su di una geografia concreta che guidava i movimenti divini. Era forse inevitabile la natura della relazione etnografica con Chandra Shekkar come falsificazione del rituale. In parte le sue risposte erano l'espressione di un pregiudizio antropologico sulla centralità della parola e della rappresentazione nella comprensione del rituale, sulla ricerca di un esegesi dell'atto performativo (Bloch 2005); pregiudizio, questo, che si incontrava con il processo di sanscritizzazione74 messo in atto dall'educazione formale ed esibito dalle nuove generazioni.

74 Così Berreman (1963: 104) descrive il processo di sanscritizzazione nel Garhwal Himalaya: “Among Paharis, plains (deshi) beliefs and practices are often considered sophisticated and even worthy of emulation(...). More potent sources of such knowledge are the local schoolteacher, villagers who have gone to school outside the village and especially practicing Pahari Brahamins, all of whom communicate plains Hinduism in a Pahari idioms”. Inoltre scrive Berreman a proposito della progressiva sanscritizzazione nel contesto culturale pahari: “There is an increasing trend toward religious change on the model of high caste plains Hinduism (...). There has long been awareness on plains ways though contacts with educated brahmins, merchants, governaments officials and other knowledgeable in the great tradition of Hinduism. Recently with improved means of communication, increased movements of people between the hills and the plains, more

D'altra parte, il tentativo di “parlare” di Naag Devta con le donne con cui condividevo la maggior parte delle mie giornate, veniva frustrato persino nella mia richiesta di definizione delle date in cui sarebbe arrivata la divinità. Tutto sembrava essere lasciato ad una improvvisazione collettiva, come spesso succede per i lavori sui campi, in cui, nonostante la coordinazione inter-familiare messa in atto sulle attività agricole, nessuno sembra mai sapere i tempi precisi di realizzazione. La stessa rappresentazione temporale del rituale sembrava essere guidata dall'improvvisazione della messa in atto. Nel tempo, ho rinunciato a chiedere: l'attesa della divinità veniva annunciata da gesti culinari e da pratiche di pulizia personale, delle case, dei viottoli del villaggio.

Rimasi profondamente sorpresa nel vedere dissolversi la reticenza del mio giovane interlocutore nelle occasioni rituali durante le quali si performavano i balli di Naag Devta. Senza annunciarlo, Chandra Shekkar, manifestava la sua credenza per mezzo della sua stessa partecipazione corporea, afferrando il doli e facendolo ballare.

Scrive Shieffelin (1985: 722) “the performance is objectively (and socially) validated by the participants when they share its actions and intensity, no matter what each person may individually think about it”. La credenza non è stabile, né definita a priori; è, piuttosto, un processo, una “living social activity” (Schieffelin 1998: 198) inerente alla contingenza stessa della partecipazione collettiva. La credenza non sembra aver a che fare con il singolo individuo ma risponde alla dimensione partecipata del rituale, alla sua natura implicitamente interattiva che consente quella che Shieffelin chiama “suspension of disbelief” (Shieffelin1998: 200). La credenza è “insicura” e “rischiosa” tanto quanto lo è “l'efficacia” della performance rituale stessa; è attraverso la partecipazione collettiva che la credenza si afferma per mezzo della sua messa in atto in uno spazio sociale piuttosto che cognitivo. La verità risiede, quindi, nel carattere performativo, creativo, interattivo e convincente del rituale che trova il proprio culmine nella partecipazione emotiva collettiva. L'espressività che rende il rituale (così come ogni attività umana) comunicativo e convincente non appartiene quindi in modo esclusivo al soggetto che “performa”, ma alla situazione stessa, alla natura della partecipazione che si viene a creare. E' proprio nello spazio sociale del rituale ben riuscito, attraverso lo stabilimento di una credibilità interazionale, quindi, che si riproduce la credenza nella sua dimensione propriamente collettiva, condivisa ed interattiva. In questo senso interpreto le affermazioni di Sax (2003:245) a proposito degli

easily available schooling, and increased financial capabilities, this awareness has increases, resulting in an increased tendency toward emulation. The motivation is simply to be respected by plains people, for Pahahris increasingly feel the effects of thei unorthodox religious and social practices as the result of thei increasing contacts with people adhering to plains values, especially with people in position of authority and influence” (idem 139).

aspetti del sacro nei culti religiosi Himalayani che non possono essere compresi se separati dalle pratiche, che “can only be understood in the context of human practices rather than as trascendental category”

Se da una parte, ai miei tentativi di comprendere la natura dinamica e di trasformazione nel tempo dei rituali collettivi mi veniva ribadita la dimensione immutabile della performance rituale, che “da tempo immemorabile” si ri-produce in maniera identica, dall'altra mi veniva trasmesso un accentuato senso di insicurezza sui risultati. Se da una parte si accentua la natura divina e quindi immutabile dei processi di pratica rituale, dall'altra si implica la vulnerabilità crescente della messa in atto per l'allentamento delle relazioni familiari e comunitarie. La riuscita del rituale è implicitamente messa in relazione alle pratiche quotidiane dei legami sociali all'interno del villaggio. Anche se i rituali “non sono mai cambiati”, non hanno mai subito modifiche in quanto “divini”, la loro natura di messa in atto sociale li rende profondamente vulnerabili e dipendenti dalla messa in atto quotidiana delle relazioni all'interno della famiglia e tra famiglie nel villaggio. La disgregazione delle famiglie allargate e la sempre crescente diffusione delle famiglie nucleari, la migrazione e la dipendenza dalle rimesse dei migranti, la percezione dell'agricoltura come attività non più remunerativa, l'educazione che, affermando una gerarchia di valori della “modernità” in opposizione alla dimensione “arretrata” (socialmente, culturalmente, economicamente) della vita dei villaggi, crea una crescente distanza dei giovani dal luogo in cui sono cresciuti, sono tutti fattori che rendono sempre più insicura la partecipazione collettiva in cui s'inscrive la riuscita del rituale.

Al mio desiderio (spesso esibito) di prendere parte all'arrivo di Naag Devta mi si rispondeva con il riferimento al villaggio in cui avrei partecipato; a volte mi si suggeriva il villaggio, o area di più villaggi, dove il rituale sarebbe potuto riuscire meglio e dove quindi mi conveniva andare. L'idea che mi sono fatta è che il rituale non sia ugualmente rischioso, ma che la percezione della vulnerabilità della riuscita sia connessa alle pratiche quotidiane di coesione sociale e alla pratica consuetudinaria del territorio come identità sociale. La frammentazione sociale, le dicotomie di genere nel sistema produttivo, la lontananza generazionale, l'allontanamento fisico e le gerarchie geografiche, seppur ampiamente diffuse nell'area himalayana, prendono forme tra loro profondamente differenziate in base ad aspetti quali le risorse produttive disponibili localmente , le relazioni di proprietà, i valori connessi ai sistemi di produzione agricola, gli aspetti ecologici e le forme di reciprocità all'interno delle comunità di pratica che rendono operativo il senso di integrazione, interattività e coesione territoriale.

L'organizzazione a staffetta dei pellegrinaggi di Naag Devta mi consentiva di partecipare al suo arrivo in villaggi (o addirittura a volte in distretti) differenti, dandomi modo di percepire la

diversificazione dei processi di riuscita dei rituali in base alle contingenze, alla partecipazione collettiva, al divertimento condiviso, all'eccitazione diffusa suscitata dalle danze.

Khera, il villaggio dove “mi sono trovata”75 a svolgere la ricerca di campo, si è rivelato nel corso del tempo, un contesto sociale particolarmente rischioso per quanto riguarda la riuscita della performance rituale. Durante il corso di Toulu, nell'aprile del 2009, le aspettative legate all'arrivo di