TERZO CAPITOLO
3.2 Utensili e comunità di pratica
Per una comprensione degli attrezzi di lavoro è necessario quindi non limitarsi alle loro proprietà strutturali, come si trattasse di un sistema autonomo che esiste a priori ma, piuttosto, concentrarsi sul loro uso come pratica esperta e condivisa. L’attrezzo va quindi visto all’interno di un processo di apprendistato dell’abilità e di appartenenza ad una particolare comunità di pratica “che non si definisce solo per le specifiche attività che vengono svolte al suo interno, ma fornisce un pattern, una forma relazionale all’interno della quale si condivide un linguaggio del corpo, un codice simbolico, si manipolano strumenti” (Grasseni, Ronzon 2004: 207). E’ nella comunità di pratica, infatti, che sono depositate le routine quotidiane, che si è iniziati all’uso appropriato degli attrezzi ed educati all’abilità come valore sociale connesso al proprio specifico posizionamento. E’ a partire dallo sforzo di appartenenza alla comunità, dal desiderio di farne parte come membro competente e socializzato ai valori condivisi, che possiamo avvicinarci alla dimensione pienamente relazionale, socializzante, valoriale degli attrezzi di lavoro. Imparare ad utilizzarli in modo abile, competente e diversificato è un processo di apprendimento che comporta una “partecipazione guidata” (idem: 185) alla comunità, alle relazioni, valori, estetiche su cui si basa. “Imparare a fare” assume il valore collettivo di “entrare a far
parte”. Il processo di apprendistato segna, quindi, il percorso individuale di divenire un soggetto pienamente socializzato. Inoltre, la dimensione temporale in cui è inserito l’apprendimento di un sapere incorporato ha a che vedere con i cicli di vita, con la ridefinizione della propria posizione identitaria attraverso la co-partecipazione. L’iniziazione a nuovi attrezzi e attività porta sempre con sé l’emozione di un riconoscimento identitario e di un continuo processo del proprio divenire sociale prendendo posto in una complessa rete di relazioni. Gli attrezzi di lavoro e il loro uso, così come le abilità incorporate che implicano attraverso il loro uso quotidiano, per essere compresi nella loro dimensione dinamica e identitaria dovrebbero essere inseriti in quello che Ingold (1993:158) definisce taskscape, ovvero uno scenario di compiti condiviso nel processo di abitare un luogo come risorsa primaria (materiale quanto identitaria). L’abilità e l’uso di attrezzi fanno quindi parte integrante del paesaggio percepito da ogni specifica comunità di pratica.
La partecipazione alla comunità di pratica femminile ha inizio con un movimento e una trasformazione radicali sanciti dal principio di residenza virilocale: è la donna che, dopo il matrimonio, cambia luogo di residenza, dal villaggio della famiglia natale (mait) a quello della famiglia del marito (sasural). La trasformazione che riguarda la donna dopo il matrimonio viene rappresentata come un viaggio, esistenziale oltre che geografico, senza ritorno, come un allontanamento definitivo dai luoghi della propria fanciullezza, dagli spazi affettivi prematrimoniali, dal contesto ecologico del villaggio di origine57. Il divenire donna implica un cambiamento del paesaggio familiare, un radicamento al nuovo spazio attraverso pratiche esperte e un processo di enskilment (Ingold 2001) in una comunità di pratica femminile. E’ il movimento che sta alla base del divenire donna: non si è “donne”, orat, quando si partecipa a un paesaggio pre-matrimoniale, ma piuttosto kumari, ragazze. Il cambiamento della propria posizione, da kumari a orat, ha come precondizione quella che viene descritta come iniziazione alle relazioni di autorità e di apprendimento all’interno della comunità di pratica femminile.
L’arrivo alla sasural (famigia del marito) da parte della giovane sposa viene accompagnato da un rituale performato dalle donne del villaggio. La bhwari (nuora) viene portata dalle donne di diverse età e relazioni parentali, ma definite tutte dalla comune appartenenza al luogo di residenza, alla sorgente di acqua (sota) più vicina al villaggio. Dopo aver raccolto dell’acqua fresca, la giovane donna viene accompagnata alla casa del marito dove se ne servirà per lavare i piedi alla propria suocera, sasu. Si
57 In realtà, il rapporto della dyiani (figlia sposata) con la mait rimane un punto di riferimento costante, geografico, emotivo e rituale, nel tempo; nonostante la rappresentazione dominante di uno sradicamento dal luogo natale e una trasformazione esistenziale (l'argomento verrà ripreso più avanti in questo capitolo)
tratta di un rituale performato ai margini della cerimonia di matrimonio ma che segna il momento in cui la nuova arrivata viene iniziata alla comunità di pratica femminile e alle sue relazioni di autorità e apprendistato. La relazione sasu-bhwari, suocera e nuora, è particolarmente significativa per quanto riguarda il processo di radicamento in un paesaggio familiare. E’ stata anche l’icona di relazione in cui sono stata ironicamente inserita quando iniziai l’etnografia sui campi. Il mio tentativo di partecipare alle attività quotidiane delle donne, di acquisire delle abilità, di stabilire relazioni di apprendistato con le donne più esperte/radicate, e di rispettare le gerarchie interne alla comunità di pratica, erano accompagnati da commenti divertiti che mi facevano in cerca di una “sasu” (e quindi di un marito). La partecipazione al paesaggio agricolo veniva codificata in termini di relazioni familiari e soprattutto implicava una relazione inter-generazionale di apprendimento tra donne, un tentativo di prendere parte al contesto di agricoltura familiare.
I giudizi espressi sulle nuore fanno spesso riferimento alle bhwari in termini di mancanza di abilità, come se dovessero imparare tutto ciò che le renderà, nel tempo, una brava sposa, madre ed eventualmente suocera. Il riferimento alla pratica inesperta nei lavori agricoli e routine quotidiane risulta particolarmente significativo nel definire ciò che, nell’ottica della suocera, ancora manca alla giovane sposa per radicarsi definitivamente al locale, ad una nuova geografia condivisa nel villaggio del marito. La negoziazione dell’appartenenza della donna allo spazio locale avviene, quindi, attraverso quella che viene rappresentata come iniziazione alle pratiche agricole.
Durante il matrimonio (shaadi), che copre la fascia temporale di tre giorni e che si articola spazialmente intorno alle distanze geografiche tra i villaggi rispettivi della sposa e sposo, le comunità di pratica femminile assumono un importante ruolo iconografico e simbolico rappresentando l’arrivo effettivo della giovane donna alla sasural. Il movimento da fuori, viene scongiurato attraverso una rappresentazione del lavoro quotidiano delle donne, per mezzo del quale la giovane sposa prenderà il proprio spazio nelle relazioni familiari e di residenza. La partecipazione al baraat (processione) durante il quale la futura sposa viene portata su di un palanchino verso il nuovo spazio di accoglienza, è una prerogativa maschile; il movimento viene affidato agli uomini. Nonostante le attività svolte dalle donne siano quelle di tutti i giorni (kuttana: macinare il riso, curcuma , silai macinare il daal, cucinare askia), la loro esecuzione collettiva durante le giornate di matrimonio assume un valore simbolico particolare. Sfogliando i sempre più dettagliati album fotografici dei matrimoni che si svolgono nell’area di Jaunpur, si può rintracciare tutta una sezione dedicata alle donne che posano di fronte alla macchina fotografica impugnando gli attrezzi di lavoro. L’atto di farsi immortalare in foto collettive con gli strumenti che
accompagnano le routine quotidiane (soprattutto gli attrezzi che riguardano la trasformazione del raccolto agricolo in cibo: il ghinzali, utilizzato nel luogo pubblico dell’aukli, dove i ciò che deve essere polverizzato- riso, mandua, jhangora, curcuma, etc- viene riposto in un buco scavato nella roccia e macinato facendo pressione con un pesante bastone battuto a turno; il chakki, una macina in pietra per trasformare le lenticchie) ci fa intuire un diverso valore condiviso degli attrezzi da lavoro che non risponde necessariamente alla rappresentazione dominante di “mancanza”, improduttività, marginalità. Il rituale del matrimonio, che sembra essere dominato dall’importanza socialmente attribuita al movimento come momento di passaggio e di trasformazione, è strettamente connesso anche al “modo di fare località”, di entrare in un nuovo paesaggio condiviso e di imparare a prenderne parte attivamente attraverso un processo di apprendistato, riconoscendone la propria comunità di pratica di riferimento.
La diversificazione degli attrezzi, le modalità di accesso al loro uso segnano anche le relazioni di autorità femminile all’interno della stessa comunità di pratica. Le attività di selezione, conservazione e di gestione delle risorse alimentari risulta essere una prerogativa esclusiva delle sayani mahila, donne anziane (l’anzianità non viene riferita alla dimensione anagrafica quanto relazionale rispetto alle altre donne dell’unità familiare con cui si condivide la residenza). Così come gli attrezzi e le tecniche connessi alla scelta del raccolto destinato a diventare semenza per l’anno successivo, all’identificazione del contenitore adatto per la conservazione dei coltivi differenziati in base alle loro qualità e all’utilizzo a cui verranno destinati (per esempio, mentre per la conservazione dei semi delle lenticchie si utilizza una brocca di terra o una zucca secca svuotata, per la stessa varietà ma destinata ad uso alimentare vengono utilizzati i granai in legno incastonati nelle pareti delle camere da letto-kotar-bhandhar-), alle tecniche diversificate per preservare i grani dall’attacco dei parassiti (nel caso del grano, per esempio viene protetto dalle termiti mescolandolo con delle foglie di noce, mentre per le lenticchie ungendole con olio di senape), sono sfere di competenza femminile che riguardano solo le donne che ricoprono una posizione autorevole all’interno della famiglia. Le mani della donna anziana sono ritenute di buon auspicio (shubh mana jata hai) per mettere-togliere (rakhna-nikalna) i raccolti dal granaio; solo nelle sue mani si dice che ci sia barkat, “poco che diventa sufficiente per tutti”. I movimenti appropriati delle riserve di grani seguono sia le fasi lunari che solari: sankranti, il primo giorno del mese solare, e
purnima, luna piena scandiscono i tempi di buon auspicio per l’estrazione delle risorse dal granaio.
La gestione delle risorse alimentari, gli attrezzi e i luoghi ad essa connessi, diventano quindi un importante discriminante delle relazioni di autorità femminile, dei ruoli assunti dalle donne secondo il proprio posizionamento all’interno dello stesso nucleo familiare.
Per comprendere l’importanza sociale delle attività legate alla conservazione e pianificazione nella gestione delle risorse alimentari è necessario abbandonare la dicotomia domestico/pubblico che spesso indirizza le analisi dei ruoli di genere all’interno del sistema familiare di produzione agricola. A partire dalle pratiche quotidiane, dagli atti non formalizzati dai rituali pubblici o ostentati dall’ideologia maschile, possiamo riconoscere come i movimenti da/per il granaio costituiscano un importante aspetto della vita sociale dove alcune donne diventano soggetti indiscussi. Sempre partendo dal significato assunto all’interno della comunità di pratica femminile, possiamo riconoscere come l’abilità delle sayani
mahila nel conservare e gestire le riserve di cibo sia una competenza indispensabile per sostenere le reti
di scambio su cui si basa la vita collettiva, e che spesso superano i confini fisici e relazionali del villaggio. Seguendo gli scambi orchestrati dalle donne anziane, infatti, si può ricostruire una geografia di relazioni non rappresentate nel sistema di parentela basato esclusivamente sulla residenza virilocale; relazioni come percepite da una comunità di pratica femminile e che spesso direzionano gli scambi di lavoro, le relazioni di aiuto e di ospitalità, il mantenimento di legami parentali con la propria mait nonché la famiglia di origine delle donne del nucleo di residenza. Come si può intuire dal flusso di risorse alimentari che segue i ritorni alle mait, le donne anziane hanno il potere sociale di ridefinire, dal loro punto di vista e in modo pragmaticamente dinamico, le relazioni importanti (dal punto di vista della sicurezza alimentare nel lungo periodo, delle relazioni affettive, della reciprocità degli scambi, della mobilitazione della forza lavoro altrui) da sostenere anche al di fuori del proprio villaggio di residenza.
Anche le mie partenze dal villaggio erano accompagnate da borse di lenticchie, riso, sesamo, peperoncini, oltre che a semenze di vario tipo. Si tratta di risorse alimentari cruciali nelle pratiche di sussistenza agricola e che possiamo identificare come il frutto delle attività stagionali sui campi. Erano le donne anziane di ogni famiglia che, attraverso “il dono” rafforzavano i legami di reciprocità e affettività nei miei confronti in base all’aiuto da me fornito sui campi e le relazioni di simpatia e reciprocità instaurate nella quotidianità.
Anche se è verosimile che la donna debba prendere parte allo spazio geografico e parentale del marito, riconoscere e rispettare il sistema di relazioni formalizzate all’interno della comunità patriarcale di residenza, non bisogna sottovalutare le relazioni di autorità all’interno della stessa comunità di pratica femminile che si fondano sull’abilità acquisita di gestione delle riserve in un significativo network relazionale informale. Soprattutto in un contesto che punta all’invisibilità pubblica delle donne, è facile da parte dell’antropologo/a fermarsi ad una rappresentazione dell’abilità agricola della donna come completamente dipendente dall’intervento, abilità, gestione, sistema di proprietà e autorità maschili.
Risulta “naturale” enfatizzare la rappresentazione delle “donne senza aratro”, una vita sociale degli attrezzi femminili come sussidiari, inefficaci, la manodopera femminile come unskilled e dipendente dalle decisioni maschili nonchè senza controllo alcuno sul frutto del proprio lavoro.
E’ a partire dalla quotidianità, dalla differenziazione della vita sociale degli attrezzi secondo una visione interna alla comunità di pratica, dalla gestione informale delle risorse e delle relazioni di aiuto, che possiamo quindi riconoscere la dimensione praticata (e non rappresentata pubblicamente) dell’abilità femminile.
Per concludere, ritorniamo al momento dell’aratura performato pubblicamente durante i rituali di
Dubri e Toulu. Anche se l’azione ritualizzata dell’intervento congiunto di uomini e donne sui campi per
iniziare la stagione agricola è caratterizzata da una rappresentazione gerarchica delle tecnologie maschili e femminili, dell’abilità tra comunità di pratica basate sul genere, e da una vita sociale degli attrezzi che sembra non lasciar dubbio all’invisibilità delle contadine, possiamo intravedere in controluce il ruolo svolto dalle donne nella gestione e mobilitazione della forza lavoro. Molto spesso gli uomini che tornano in occasione della celebrazione del raccolto e che preparano attraverso l’aratura i campi alla futura stagione non sono i soggetti che hanno maggiore autorità all’interno della comunità di pratica maschile. Oggi, l’aratura è affidata per lo più ai ragazzi, mantenendo la divisione di genere ma invertendo le relazioni di autorità. Sono, infatti, le donne più “anziane” che mobilitano le forze di lavoro dei giovani uomini e non solo all’interno della dimensione propriamente privata. Sempre più le famiglie vedono l’assenza prolungata nel tempo del “capofamiglia” definito secondo canoni patriarcali e virilocali. La ritualità che richiede l’intervento maschile all’inizio della stagione agricola come fondamento di genere delle relazioni sui campi viene messa in discussione dalla mancanza effettiva della manodopera maschile. Dal punto di vista della comunità di pratica femminile, l’aratura diventa un aspetto critico della produttività agricola: dove non c’è disponibilità di manodopera maschile e non si hanno le possibilità economiche di far svolgere il lavoro su pagamento, la stagione agricola rischia di non poter neanche prendere avvio. Per questo motivo, l’assenza degli uomini viene compensata dalla capacità relazionali, di scambio, supporto e mobilitazione informale della forza lavoro messe in atto dalle donne più autorevoli all’interno della comunità di pratica femminile. I giovani uomini durante i giorni di aratura diventano una risorsa non solo familiare ma che compensa l'assenza di uomini sposati seguendo reti di collaborazione femminile.
E’ così che l’attuale dimensione gerarchica dell’uso sociale degli attrezzi performato a livello pubblico può assumere un altro significato se guardato controluce, a partire dalla gestione all’interno di
una comunità di pratica femminile della manodopera maschile attualmente disponibile.