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Corpi di donne e soggetti di sapere

Il corpo dell’etnografo/a

2.2 Corpi di donne e soggetti di sapere

Un altro aspetto determinante la natura metodologica dell’incontro etnografico è da rintracciare nel posizionamento di genere dei/delle interlocutori/trici. Le donne, infatti, sono le effettive abitanti dei villaggi di montagna: sono loro che continuano il lavoro sui campi durante l’intera annualità colturale, che si occupano della trasformazione dei prodotti agricoli per la produzione di cibo, che si prendono cura del bestiame e della produzione di derivati del latte, oltre che della gestione delle risorse naturali e sociali. L’agricoltura di sussistenza, così come la partecipazione attiva al paesaggio rurale montano e la

sua dimensione collettiva di vita sociale pratica, sono quindi responsabilità di una comunità di pratica36 femminile. Il fatto che le donne rappresentino i soggetti principali nella definizione del paesaggio agricolo himalayano, le rendeva le mie interlocutrici privilegiate sui campi: esplicitavo, quindi, il fatto che con loro volevo partecipare ai lavori e che da loro volevo “imparare”. Il processo di apprendimento identificato come un obiettivo concreto che razionalizzava la mia presenza, metteva in atto una serie di rappresentazioni di genere di quelli che potevano essere i soggetti di sapere a livello locale e quindi identificati come interlocutori adeguati (che sanno e che quindi possono trasmettere conoscenze), a cui potessi essere indirizzata. La parola, la seppur elementare educazione formale, la padronanza di una lingua franca, l’esperienza del mondo fuori dal villaggio, la partecipazione a paesaggi urbani della modernità, faceva degli uomini i veri soggetti di sapere (jankaar). Sono gli uomini, infatti, che vengono socialmente rappresentati come coloro che sono in grado di parlare delle pratiche (siano essere religiose, agricole, rituali, sociali in genere), soprattutto con una interlocutrice estranea alla località come me. La rappresentazione dominante dei soggetti di sapere definiti in base a discriminanti di genere inevitabilmente influenzava la natura relazionale dell’incontro etnografico: il fare con le donne viaggiava in modo parallelo alle parole degli uomini che, a volte, costituivano la mia vera scorciatoia metodologica per avere dati e informazioni “oggettivi”. L’esibizione della marginalità delle conoscenze delle donne in quanto contingenti alla dimensione locale e legate alla temporalità immobile della tradizione, era un luogo etnografico comune, supportato da informatori quanto da informatrici. E’ la relazione con l’esterno, con quelli che Jenkins definisce “outside accounts” (Jenkin 1994:439) che nomina, secondo discriminanti di genere, l’abilità di traduzione delle pratiche della località in sapere. Sono gli uomini che si muovono in spazi altri rispetto al villaggio, che prendono parte alle reti di mercato, che tracciano connessioni con le potenziali risorse che esulano dal locale; sono loro che fanno propri i linguaggi istituzionali e commerciali dell’agricoltura e che assumono il ruolo sociale di mediazione con l’esterno finalizzata alla modernizzazione del paesaggio agricolo in termini di e input agricoli l’aumento della produzione, istituti di credito, centri di supporto allo sviluppo rurale, district

development office in Tehri e block development office in Thatyur).

Molto spesso questa rappresentazione è riaffermata e diffusa, come verrà messo in evidenza

36 Scrivono Ronzon e Grasseni a proposito del concetto di comunità di pratica avanzato da Ingold: “La comunità di pratica (…) fornisce un pattern, una forma relazionale all’interno della quale si condivide un linguaggio del corpo, un codice simbolico, si manipolano strumenti. In questo senso, quindi, la si può definire anche come forma di vita, tenendo presente che essa fornisce una cornice delle relazioni, pur senza la rigidità di un’istituzione normativa e formalizzata. (Ronzon, Grasseni, 2004: 207)

successivamente, dai discorsi sullo sviluppo agricolo e su quelli che vengono identificati come potenziali soggetti di trasformazione e progresso. La mia posizione in quanto (straniera, “deshi” da pianura) per antonomasia, proveniente da uno spazio e tempo della modernità, metteva in atto una serie di rappresentazioni dominanti del sapere e dei valori ad esso connessi: le donne come completamente immerse in una dimensione esclusivamente corporea, la cui competenza consisteva nella messa in atto di conoscenze trasmesse informalmente; gli uomini, invece, diventavano i detentori di un sapere generalizzato, disinteressato, collettivo, pubblico e che quindi poteva essere esibito.

Il mio stesso posizionamento influiva quindi sulla rappresentazione locale a me esibita delle dinamiche di sapere e di autorità secondo discriminanti di genere. La svalutazione da parte delle donne stesse del loro sapere le rendeva informatrici timide alla parola. La partecipazione alle attività quotidiane rappresentava quindi l’unica metodologia etnografica che mi potesse far avvicinare alla natura informale, relazionale, processuale e dinamica dei saperi impliciti alle pratiche agri-culturali, attraversando gli stereotipi di genere. La condivisione della quotidianità mi consentiva di partecipare alla dimensione mutuale e collettiva di ogni pratica, che rendeva le competenze individuali agite più che rappresentate, con incasellamenti di genere molto meno rigidi di quelli a me esibiti.

Le rappresentazioni di genere dominanti sono facilmente riprodotte nella relazione con un interlocutore inesperto come può essere l’etnografo/a durante il suo processo di apprendistato. Soprattutto in quanto donna etnografa, le relazioni di genere che danno forma alla vita quotidiana del villaggio, mi erano presentate come determinate da chiari modelli di comportamento ed autorità, come se si volesse comunicare un ordine, una regola al mio sguardo esterno alla località. Inoltre, come sostiene Jenkins (1994), un outsider è più incline a prendere alla lettera i tentativi oggettivanti degli informatori.

Spesso la mia immersione nella quotidianità si scontrava sia con la fatica, con la mancanza di un senso facilmente comprensibile, ma anche con le politiche culturali di produzione del sapere, che rafforzavano i miei pregiudizi sulle relazioni di genere che davano forma al paesaggio himalayano da me immaginato.

Inoltre, lo statuto conoscitivo dell’esperienza corporea di apprendimento come strategia etnografica, era influenzato dalle tendenze metodologiche dominanti all’interno dell’antropologia che tendono a considerare l’etnografo come interprete di un testo culturale. In questo senso modalità gnoseologiche che privilegiano forme di logocentrismo antropologico, portano facilmente a trascurare le dimensioni non verbali implicite all’esperienza etnografica, a sottovalutare il valore conoscitivo del “senso incarnato” (Borutti, 1999:161). Durante i periodi di campo, mi sono resa conto di quanto

l’autorità di far parola sulle pratiche, siano esse materiali, sociali o religiose, sia una questione di genere. In questo senso, la centralità della parola nella metodologia della ricerca antropologica produce un vero e proprio pregiudizio di genere: gli informatori risultano essere coloro che hanno una predisposizione a parlare, che conoscono le lingue ufficiali, che sono abituati a far parola delle forme di vita locali in contesti pubblici, che si considerano avere l’abilità di essere compresi da chi “viene da fuori”.37

Quando mi ritrovavo a visitare per occasioni particolari (per esempio festival, visite a parenti di amici) e per periodi limitati nel tempo alcuni villaggi in cui non avevo instaurato relazioni significative, gli uomini si imponevano come unici interlocutori. Nonostante il mio genere che, in un contesto etnografico prolungato nel tempo, videshi la condivisione di tempi e spazi con le donne del villaggio, la mia presenza tangenziale mi portava direttamente negli spazi pubblici delle case, insieme agli uomini che generalmente assumevano qualche ruolo “ufficiale” all’interno del villaggio (maestri, pundit,

pradhan, ong, rispettivamente i rappresentanti del settore educativo, religioso, politico e dello sviluppo

locale). Il pregiudizio antropologico dell’importanza della parola, dell’informazione e della traduzione culturale può portare a rafforzare gli stereotipi di genere che definiscono la capacità di comunicazione verbale in un contesto pubblico e che portano ad identificare negli uomini gli interlocutori appropriati per chi viene da fuori.

L’allontanamento periodico dal villaggio dove ero ospitata, mi serviva anche per riprendere la mia posizione di ricercatrice, per ritrovare relazioni con informatori (e poche interlocutrici) che, come fa sperare la parola, alle mie domande facessero seguire delle risposte, per abbandonarmi ad un tipo di comunicazione di diretta comprensione e di e più fluida “capitalizzazione”. In questo senso le fughe dai villaggi erano la ricerca di significati che in qualche modo costituissero l’a-priori dell’esperienza e della quotidianità, che trascendessero il mio corpo e la mia stessa iniziazione a relazioni di apprendimento sui campi.

2.3 I tempi insicuri del corpo abituato

37 Si tratta di un tema che ha nell’antropologia femminista una storia consolidata. Cfr. Ardner 1972; Mathieu 1973. Si veda ugualmente Spivak 1988.

E. Ardener 1972, Belief and the problem of women, in La Fontaine (a cura) The Interpretation of Ritual, London, Tavistock, pp. 135-158.

C. Nicole-Mathieu, 1973, “Homme-culture et femme-nature?”, L’homme 13 (3), pp.

G. C. Spivak, 1988, “Can the Subaltern Speak?”, in C. Nelson e L. Grossberg Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois, 1988, pp.